Nr. 348
Pubblicato il 28/05/2025

Trump è un bene per Israele

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Israele, pochi presidenti americani hanno esercitato un’influenza tanto profonda e divisiva quanto Donald J. Trump. Sin dal suo primo insediamento alla Casa Bianca nel gennaio 2017, l’ex magnate newyorkese ha fatto dell’alleanza con Israele una delle colonne portanti della sua politica estera. Ma non si è trattato solo di dichiarazioni di amicizia o di supporto retorico: Trump ha riscritto l’intera grammatica diplomatica statunitense verso lo Stato ebraico, scegliendo un approccio radicale, spesso unilaterale, e profondamente diverso da quello dei suoi predecessori democratici e repubblicani.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Trump ha rafforzato la sicurezza e la legittimazione strategica di Israele

Trump ha fatto scelte politiche e diplomatiche che hanno rafforzato la posizione di Israele sia sul piano militare che su quello della legittimità internazionale.

02 - Trump ha accentuato l’isolamento internazionale di Israele

L’identificazione di Trump con il governo israeliano ha generato un effetto boomerang che ha minato l’immagine, le alleanze e la capacità di Israele di influenzare l’arena multilaterale.

03 - Trump ha dimostrato pragmatismo ed efficacia nella diplomazia degli ostaggi

La diplomazia usata da Trump per la liberazione degli ostaggi si è rivelata una leva strategica, capace di ottenere risultati laddove altri strumenti diplomatici hanno fallito.

04 - Trump ha alimentato la radicalizzazione e le fratture interne della società israeliana

Il sostegno incondizionato offerto da Donald Trump ai governi israeliani di destra e ultradestra ha rafforzato le fazioni più radicali e indebolito il fronte moderato.

05 - Trump ha rilanciato l’integrazione economica di Israele nel Medio Oriente

Israele ha beneficiato della diplomazia economica del presidente americano, posizionandosi in una rete di alleanze economiche che ha coinvolto paesi arabi un tempo ostili.

06 - Trump ha minato irreversibilmente il processo di pace israelo-palestinese

Sotto la presidenza di Trump, il paradigma "due Stati - due popoli" è stato sostituito da una logica di dominio unilaterale che ha compromesso ogni possibilità di pace.

 
01

Trump ha rafforzato la sicurezza e la legittimazione strategica di Israele

FAVOREVOLE

La presidenza di Donald Trump ha segnato uno dei più significativi riallineamenti strategici a favore di Israele nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Medio Oriente. In un contesto segnato da instabilità cronica, l’amministrazione Trump ha operato una serie di scelte politiche e diplomatiche che hanno rafforzato in modo sostanziale la posizione di Israele sia sul piano militare che su quello della legittimità internazionale.
Uno degli atti più simbolici – ma anche politicamente densi – è stato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, annunciato da Trump nel dicembre 2017, seguito dal trasferimento dell’ambasciata americana nella città. Questa mossa, pur criticata dalla comunità internazionale, ha rappresentato per Israele una legittimazione di lungo corso della propria sovranità sulla città e ha dato un forte segnale di supporto incondizionato da parte del principale alleato internazionale.
A questo si è aggiunto il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, strappate alla Siria nel 1967 e mai riconosciute come parte integrante di Israele dalle Nazioni Unite. La scelta dell’amministrazione Trump ha avuto implicazioni strategiche: ha rafforzato la posizione israeliana in un’area di confine sensibile, dove la presenza di milizie legate all’Iran e ad Hezbollah rappresenta una minaccia costante.
La politica trumpiana non si è limitata agli atti simbolici. Sul piano operativo, Israele ha beneficiato di un rafforzamento della cooperazione militare: sono stati confermati e ampliati gli aiuti alla difesa, in particolare sul sistema antimissilistico Iron Dome, e sono stati intensificati gli scambi di intelligence. In più, durante il suo secondo mandato, Trump sta mantenendo una posizione favorevole alla libertà d’azione delle IDF, evitando interferenze anche durante le operazioni più controverse a Gaza.
Un altro capitolo centrale della strategia trumpiana è rappresentato dagli Accordi di Abramo. Mediati dalla Casa Bianca, questi trattati hanno normalizzato le relazioni tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco. Per la prima volta, paesi arabi hanno riconosciuto formalmente Israele senza una soluzione alla questione palestinese. Questo ha rappresentato una frattura storica nella posizione pan-araba e ha permesso a Israele di rafforzare la propria legittimità diplomatica e il proprio raggio d’azione economico e militare nella regione.
Inoltre, l’approccio di Trump verso gli organismi multilaterali ha favorito Israele: ha ritirato gli USA dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU (accusato di “pregiudizio cronico contro Israele”) e ha tagliato i fondi all’UNRWA, considerata da Tel Aviv come un’istituzione politicizzata. Ha inoltre bloccato ogni tentativo di risoluzione sanzionatoria contro Israele al Consiglio di Sicurezza, esercitando sistematicamente il diritto di veto. Questi elementi, considerati nel loro insieme, delineano una politica coerente: Trump ha collocato Israele al centro del suo disegno strategico per il Medio Oriente, come baluardo contro l’espansionismo iraniano, nodo delle relazioni arabo-occidentali e alleato affidabile nella guerra al terrorismo. In questo quadro, l’amministrazione americana ha fornito a Israele ciò che nessun altro presidente aveva mai garantito con tale chiarezza: sicurezza militare, legittimazione diplomatica e libertà di manovra politica senza condizioni.
Trump ha quindi trasformato la relazione USA-Israele in un asse strategico profondo, che ha permesso a Tel Aviv di consolidare la propria posizione regionale e di ridefinire il proprio status internazionale. Per una nazione abituata a vivere sotto minaccia, questo rappresenta un capitale geopolitico inestimabile.

Nina Celli, 28 maggio 2025

 
02

Trump ha accentuato l’isolamento internazionale di Israele

CONTRARIO

Mentre la retorica ufficiale dell’amministrazione Trump ha spesso celebrato un legame “indissolubile” con Israele, le scelte strategiche adottate tra il 2017 e il 2025 hanno in realtà contribuito a esporre Tel Aviv a un crescente isolamento sulla scena globale. L’identificazione totale di Trump con il governo israeliano – e, in particolare, con le sue componenti più oltranziste – ha generato un effetto boomerang che ha minato l’immagine, le alleanze e la capacità di Israele di influenzare l’arena multilaterale.
L’episodio più emblematico è avvenuto nel 2025, durante il secondo mandato di Trump, quando la Casa Bianca ha avviato trattative dirette con l’Iran e con i ribelli Houthi dello Yemen, escludendo Israele da ogni tavolo negoziale. Come riportato dalla “CNN” e dal “The Guardian”, l’annuncio del cessate il fuoco tra Stati Uniti e Houthi è stato fatto senza preavviso a Netanyahu, nonostante questi consideri i ribelli come una minaccia diretta. Questa esclusione ha umiliato Israele, sottolineandone la marginalizzazione anche rispetto al suo principale alleato strategico.
In parallelo, Trump ha rilanciato colloqui sul nucleare con Teheran e ha rimosso la condizione – imposta durante l’era Biden – che legava il programma nucleare civile saudita alla normalizzazione con Israele. Questa mossa ha indebolito la leva diplomatica israeliana, rivelando che le priorità strategiche americane avevano iniziato a prescindere dagli interessi di Tel Aviv.
L’allontanamento dagli organismi internazionali, deciso da Trump in nome dell’unilateralismo, ha avuto conseguenze per Israele. Il ritiro dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU e il disconoscimento della Corte Penale Internazionale hanno privato Israele di interlocutori che, pur critici, potevano essere influenzati o neutralizzati tramite la diplomazia USA. Senza questo “ombrello”, Israele si è trovato esposto a mozioni, inchieste e accuse di crimini di guerra da parte di una comunità internazionale sempre più indignata dalle operazioni a Gaza. Sul piano bilaterale, anche gli alleati storici europei si sono raffreddati. Francia, Germania, Regno Unito e Canada hanno criticato pubblicamente Israele per l’escalation a Gaza e, come rivelato da “Axios”, hanno minacciato sanzioni qualora non venisse rispettata una tregua umanitaria. In questo contesto, Trump si è mostrato incapace o disinteressato ad agire come mediatore, lasciando Netanyahu isolato in una tempesta diplomatica crescente.
Persino la diplomazia regionale, sulla quale Trump aveva costruito il suo prestigio con gli Accordi di Abramo, ha mostrato crepe. L’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno accolto Trump nei loro palazzi, ma hanno espresso con chiarezza la loro opposizione al piano statunitense-israeliano di trasformare Gaza in una “zona libera” – eufemismo per uno sfollamento di massa dei palestinesi. L’assenza di Israele dal vertice di Doha, dove Trump ha negoziato con Hamas la liberazione dell’ostaggio Edan Alexander, è stata interpretata come il sintomo definitivo della sua esclusione dai circuiti diplomatici che contano.
Il quadro complessivo che emerge è quello di un paese sempre più isolato, nonostante la retorica dell’amicizia incondizionata. Israele ha perso terreno nei rapporti multilaterali, si è trovato marginalizzato nei negoziati regionali e ha visto scemare il sostegno di parte dell’opinione pubblica occidentale. Il tutto sotto lo sguardo – e in parte per effetto – dell’amministrazione Trump, che ha privilegiato risultati immediati e alleanze transazionali rispetto a un sostegno strutturale e sostenibile.
L’approccio trumpiano, basato su favori bilaterali e rottura con le istituzioni internazionali, quindi, ha reso Israele più vulnerabile nel lungo periodo. L’alleato americano si è trasformato in un partner volubile e l’isolamento crescente rischia di compromettere non solo la reputazione del paese, ma anche la sua capacità di difendere efficacemente i propri interessi nel consesso delle nazioni.

Nina Celli, 28 maggio 2025

 
03

Trump ha dimostrato pragmatismo ed efficacia nella diplomazia degli ostaggi

FAVOREVOLE

Donald Trump ha messo in atto un approccio inusuale ma sorprendentemente efficace: la diplomazia diretta e transazionale per la liberazione degli ostaggi. Questo modello, criticato da molti per la sua spregiudicatezza, si è rivelato per Israele una leva strategica concreta, capace di ottenere risultati laddove altri strumenti diplomatici hanno fallito. Il caso più emblematico è la liberazione del soldato israeliano-americano Edan Alexander, avvenuta a maggio 2025, ottenuta grazie a un’operazione condotta direttamente dagli Stati Uniti, senza il coinvolgimento del governo Netanyahu. Secondo le testate “Haaretz”, “Axios” e “NPR”, l’inviato di Trump, Steve Witkoff, ha negoziato l’accordo con Hamas attraverso un canale riservato a Doha, con il supporto del Qatar, aggirando così le complesse dinamiche della diplomazia multilaterale.
Il risultato è stato duplice: non solo è stato liberato un ostaggio ritenuto irraggiungibile, ma si è anche generato un consenso ampio tra la popolazione israeliana. Come evidenziato da sondaggi pubblicati da “The Atlantic”, circa il 70% degli israeliani ha accolto con favore l’azione americana, vista come un’alternativa concreta al prolungamento indefinito delle operazioni militari a Gaza. Questa forma di “diplomazia degli ostaggi” non si è limitata a un gesto isolato. L’approccio diretto e non mediato di Trump ha aperto la possibilità per ulteriori negoziati, come dimostrato dalle dichiarazioni di Hamas e del Qatar, che hanno espresso apertura a nuovi scambi umanitari e a un potenziale cessate il fuoco. Trump si è posto così come l’unico leader occidentale capace di aprire un canale negoziale con un’organizzazione classificata come terroristica, senza che ciò minasse il sostegno interno o internazionale.
L’efficacia del modello Trump si è manifestata anche nella gestione dell’opinione pubblica. Mentre i governi occidentali apparivano incagliati tra mediazioni infruttuose e dichiarazioni formali, Trump ha agito in tempi rapidi, con obiettivi chiari: salvare vite umane, mostrare leadership e ottenere risultati tangibili. Questo pragmatismo è stato apprezzato anche tra gli alleati mediorientali, in particolare da Qatar e Arabia Saudita, che hanno agevolato le operazioni, rafforzando indirettamente la posizione strategica di Israele nella regione.
Inoltre, il gesto ha contribuito a migliorare temporaneamente l’immagine di Israele sul piano internazionale. Seppur mediata dagli USA, la liberazione di Alexander ha mostrato che anche in uno scenario di guerra è possibile una via negoziale e umanitaria. In un contesto in cui Israele è spesso percepito come parte dominante e aggressiva, la cooperazione in operazioni umanitarie ha rappresentato un’eccezione positiva, con benefici indiretti anche per la diplomazia israeliana.
La strategia di Trump ha ridefinito le regole della diplomazia in guerra, offrendo a Israele un modello alternativo e concretamente vantaggioso. Lungi dall’essere solo una manovra elettorale, la sua diplomazia degli ostaggi si è rivelata un efficace strumento di politica estera, capace di salvare vite, rafforzare le alleanze e proiettare una nuova immagine di forza razionale e negoziale.

Nina Celli, 28 maggio 2025

 
04

Trump ha alimentato la radicalizzazione e le fratture interne della società israeliana

CONTRARIO

L’effetto della politica trumpiana su Israele non si è limitato alle dinamiche geopolitiche o diplomatiche: ha avuto un impatto profondo, e in larga parte destabilizzante, sul tessuto politico e sociale interno del paese. Il sostegno incondizionato offerto da Donald Trump ai governi israeliani di destra e ultradestra ha rafforzato le fazioni più radicali, indebolito il fronte moderato e intensificato una polarizzazione che minaccia la stabilità stessa della democrazia israeliana. La figura di Netanyahu – alleato personale e politico di Trump – è al centro di questa dinamica. Durante questo secondo mandato trumpiano, il premier israeliano si trova a gestire una coalizione sempre più dipendente da partiti estremisti, come quello di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, che promuovono apertamente l’annessione totale della Cisgiordania e l’espulsione dei palestinesi da Gaza. Secondo quanto riportato da “Al Jazeera” e “Axios”, il sostegno implicito e talvolta esplicito di Trump a queste forze ha legittimato un’agenda che molti osservatori definiscono etno-nazionalista.
La proposta di Trump di trasformare Gaza in una “freedom zone”, sostenuta da parte del governo israeliano come condizione per la fine del conflitto, ha avuto l’effetto di radicalizzare ulteriormente il dibattito pubblico. Se da un lato ha rafforzato l’asse con la destra religiosa e gli elettori più conservatori, dall’altro ha generato un’escalation di tensioni civili, proteste e scontri istituzionali senza precedenti.
Le famiglie degli ostaggi israeliani hanno accusato pubblicamente Netanyahu di strumentalizzare il conflitto per fini personali e di rifiutare ogni ipotesi di tregua pur di mantenere il potere. In questo clima, l’azione unilaterale di Trump per ottenere la liberazione di Edan Alexander ha umiliato il governo, esponendolo a critiche interne ancora più aspre e rafforzando la percezione di un esecutivo debole e disconnesso dalla volontà popolare.
Secondo “The Atlantic” e “Haaretz”, la polarizzazione sociale ha raggiunto livelli preoccupanti. Da una parte, i sostenitori di Netanyahu e della linea dura vedono in Trump un garante della sopravvivenza nazionale. Dall’altra, centinaia di migliaia di israeliani manifestano ogni settimana contro il governo, accusandolo di usare il sostegno americano come scudo per portare avanti una politica distruttiva e autoritaria. Le tensioni hanno coinvolto anche l’esercito e i servizi segreti, con ufficiali e veterani che si oppongono pubblicamente alla linea governativa. L’assenza di pressioni pubbliche da parte dell’amministrazione Trump ha inoltre rimosso ogni incentivo alla moderazione. Contrariamente ad altri presidenti USA che condizionavano l’aiuto militare al rispetto dei diritti umani o al dialogo con i palestinesi, Trump ha dato “carta bianca” a Netanyahu, rafforzando la posizione delle fazioni più estremiste e marginalizzando i partiti centristi e progressisti.
Questo contesto ha generato anche tensioni latenti all’interno della comunità ebraica globale. In particolare, negli Stati Uniti, molti esponenti dell’ebraismo riformato e conservatore hanno criticato l’identificazione totale di Israele con le politiche trumpiane, segnalando un allontanamento preoccupante tra lo Stato d’Israele e la diaspora ebraica progressista.
L’impronta di Trump sulla politica interna israeliana è stata dunque divisiva e corrosiva. L’alleanza con l’estrema destra, la legittimazione delle politiche più oltranziste e l’assenza di freni diplomatici hanno amplificato le fratture sociali, indebolito le istituzioni e radicalizzato il dibattito politico. Più che rafforzare Israele, Trump ne ha esacerbato le contraddizioni interne.

Nina Celli, 28 maggio 2025

 
05

Trump ha rilanciato l’integrazione economica di Israele nel Medio Oriente

FAVOREVOLE

Uno degli aspetti più innovativi della strategia mediorientale di Donald Trump è stato l’impiego dell’economia come strumento di stabilizzazione geopolitica. Israele ha beneficiato direttamente di questa visione, posizionandosi come partner privilegiato in una rete di alleanze economiche che ha coinvolto paesi arabi un tempo ostili. Grazie alla diplomazia economica del presidente americano, Tel Aviv ha visto ampliarsi in modo significativo il proprio raggio d’azione commerciale, strategico e tecnologico.
Gli Accordi di Abramo del 2020 – mediati dall’amministrazione Trump – hanno rappresentato il primo passo concreto di questa nuova era. Israele ha normalizzato le relazioni diplomatiche con Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco, rompendo il tradizionale dogma della solidarietà araba subordinata alla questione palestinese. Secondo “NPR” e “Axios”, questi accordi hanno sbloccato miliardi in investimenti e scambi commerciali, con un impatto tangibile in settori come energia, turismo, tecnologia e difesa.
Nel secondo mandato, Trump ha esteso questa strategia. Nei suoi viaggi tra Riyadh, Doha e Abu Dhabi nel 2025 ha firmato decine di accordi che coinvolgono anche imprese israeliane, in particolare nei settori dell’intelligenza artificiale, della cybersecurity e delle infrastrutture. Israele è entrato così in reti regionali fino a pochi anni prima impensabili, consolidando il proprio ruolo di hub tecnologico e innovativo del Levante.
La proposta – sebbene controversa – di trasformare Gaza in una “freedom zone” è stata parte di questo disegno. Il piano prevedeva un intervento infrastrutturale statunitense per ricostruire la Striscia sotto supervisione americana, con l’ausilio di investitori del Golfo. Per Israele, questa proposta rappresentava una doppia opportunità: eliminare l’influenza di Hamas e favorire l’emersione di un’economia palestinese integrata, sotto condizioni favorevoli. L’idea ha suscitato resistenze, ma ha anche dimostrato la centralità che Israele ha assunto nel nuovo assetto economico regionale promosso da Trump.
Dal punto di vista geopolitico, questo ha comportato un riallineamento silenzioso ma significativo di numerosi attori arabi. Il Qatar ha negoziato direttamente con Trump per la liberazione di ostaggi israeliani; l’Arabia Saudita ha manifestato disponibilità a cooperare su Gaza; persino Egitto e Giordania, pur mantenendo una posizione ufficialmente neutrale, hanno rafforzato le relazioni operative con Tel Aviv. Questo nuovo assetto ha ridotto l’isolamento israeliano e aumentato la sua capacità di influenza regionale.
Un altro aspetto rilevante è la convergenza di interessi con i paesi del Golfo rispetto all’Iran. La minaccia comune rappresentata da Teheran ha reso Israele un alleato tattico e Trump ha saputo valorizzare questo elemento come base per un’alleanza securitaria, sostenuta da trasferimenti tecnologici e partnership economiche. Israele si è così trovato al centro di un blocco economico-politico regionale di contenimento dell’Iran, sostenuto attivamente dagli Stati Uniti.
Questo approccio economico-diplomatico di Trump ha ampliato l’integrazione di Israele nel tessuto economico del Medio Oriente. Con alleanze commerciali, accesso a nuovi mercati e partecipazione a progetti transfrontalieri, Israele ha rafforzato la propria proiezione strategica, consolidando la sua posizione non solo come potenza militare, ma come attore economico imprescindibile nella regione.

Nina Celli, 28 maggio 2025

 
06

Trump ha minato irreversibilmente il processo di pace israelo-palestinese

CONTRARIO

Nel conflitto più lungo e delicato del Medio Oriente, la possibilità di una soluzione negoziata tra Israele e Palestina si è sempre basata, almeno formalmente, sull’idea della coesistenza di due Stati. Tuttavia, sotto la presidenza di Donald Trump, questo paradigma è stato di fatto archiviato, sostituito da una logica di dominio unilaterale che ha compromesso ogni possibilità di ripresa del processo di pace. Le scelte di Trump non hanno solo marginalizzato i palestinesi: hanno offerto legittimità a un progetto che molti osservatori descrivono come annessione mascherata o apartheid istituzionale.
Uno degli atti più controversi è stata la presentazione nel 2020 del cosiddetto Peace to Prosperity, noto come “Piano Trump”. Il piano prevedeva un’entità palestinese smilitarizzata, frammentata territorialmente e subordinata al controllo di sicurezza israeliano. Pur etichettato come “accordo del secolo”, il progetto è stato respinto da tutta la leadership palestinese e da gran parte della comunità internazionale, che lo ha definito “non negoziabile e inaccettabile”.
Durante questo secondo mandato, Trump sta radicalizzando ulteriormente la sua posizione. Ha rilanciato l’idea di trasformare Gaza in una “freedom zone”, un’area sotto controllo USA da cui i palestinesi sarebbero stati evacuati. Netanyahu ha fatto suo questo progetto, includendolo ufficialmente tra le condizioni per la fine della guerra a Gaza. Secondo quanto riportato da “Al Jazeera”, “Axios” e “The Times of Israel”, questa proposta è stata interpretata come un tentativo diretto di svuotare Gaza della sua popolazione nativa e rimpiazzarla con un’operazione immobiliare regionale. Vari governi e ONG hanno parlato apertamente di “pulizia etnica”.
La posizione di Trump ha creato un precedente pericoloso: ha legittimato la logica del fatto compiuto. L’annessione delle Alture del Golan, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale indivisa di Israele, la rimozione dei fondi all’UNRWA e la chiusura del consolato USA a Gerusalemme Est sono stati atti che hanno smantellato ogni presupposto di equità o di negoziazione bilaterale. Gli Stati Uniti hanno così cessato di essere un arbitro credibile, diventando un attore schierato senza ambiguità. Il risultato è stato duplice: da un lato, l’Autorità Nazionale Palestinese ha perso ogni incentivo a sedersi a un tavolo; dall’altro, Hamas ha potuto rafforzare la sua narrativa secondo cui solo la resistenza armata avrebbe potuto difendere i diritti palestinesi. La chiusura degli spazi diplomatici ha polarizzato ulteriormente le posizioni, alimentando l’estremismo e riducendo al minimo il margine di compromesso.
A livello internazionale, la rottura con il paradigma dei due Stati ha fatto perdere a Israele molti degli argomenti con cui aveva storicamente difeso la propria politica. Le accuse di apartheid, già presenti in ambito accademico e tra le ONG, hanno trovato nuove conferme. Nel 2025, l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione simbolica per l’ammissione della Palestina come Stato a pieno titolo, seguita da richieste formali all’Aia per indagare crimini contro l’umanità. In questo clima, la legittimità di Israele come Stato democratico è stata fortemente messa in discussione.
Sul piano dell’opinione pubblica, il danno è profondo. Sondaggi Pew mostrano che nei paesi occidentali cresce la percezione di Israele come potenza occupante. Anche tra gli ebrei americani, tradizionalmente vicini a Israele, si registra un dissenso crescente verso le politiche promosse durante l’era Trump. La disillusione verso la soluzione a due Stati ha lasciato un vuoto diplomatico colmato solo da conflitti e frustrazione.
La politica di Trump ha quindi smantellato l’infrastruttura diplomatica costruita in decenni di trattative. Ha tolto ogni speranza di un compromesso equo e ha accelerato il passaggio da una crisi gestibile a una spirale di polarizzazione, delegittimazione e violenza. Israele, oggi, è più lontano dalla pace di quanto non lo fosse prima del “grande amico” americano.

Nina Celli, 28 maggio 2025

E tu, sei favorevole o contrario? Esprimi la tua opinione!

Loading…
Loading…
Loading…
Grazie per la tua opinione
Condividi e fai conoscere la tua opinione
Loading…