Cittadinanza: referendum sul dimezzamento dei tempi di residenza
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Il referendum dell’8–9 giugno 2025, il primo su questo tema, propone di ridurre da dieci a cinque anni la durata minima di permanenza legale sul suolo italiano richiesta per presentare domanda di cittadinanza, accompagnata da altri requisiti legati alla regolarità e all’integrazione. Dietro questo quesito apparentemente tecnico si cela una questione identitaria, culturale, giuridica e politica che tocca milioni di persone: da un lato i cittadini italiani storici, che vedono nella cittadinanza un riconoscimento profondo, da concedere con prudenza e consapevolezza; dall’altro oltre cinque milioni di stranieri residenti in Italia, molti dei quali da anni, che aspettano il riconoscimento formale di una realtà già vissuta ogni giorno.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Oltre 800.000 minori stranieri sono nati o cresciuti in Italia ma non hanno ancora accesso alla cittadinanza. La riforma punta a colmare il divario tra identità vissuta e riconoscimento giuridico.
La cittadinanza è un patto civico, un riconoscimento di reciprocità tra individuo e Stato. Ridurre i tempi necessari per accedervi rischia di svuotare la cittadinanza del suo significato profondo.
In Italia ogni anno nascono meno bambini e la forza lavoro si assottiglia. La questione della cittadinanza non è solo un affare ideologico: è una questione di sopravvivenza sociale.
Nei quartieri popolari delle grandi città, tra servizi sociali al limite, scuole sovraffollate e un tessuto urbano in tensione, l’idea di estendere la cittadinanza dopo soli cinque anni genera timore diffuso.
Nei distretti industriali, nelle scuole e negli ospedali, milioni di cittadini stranieri lavorano, pagano tasse, crescono figli e costruiscono futuro, pur restando formalmente ai margini dello Stato.
Dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza per ottenere la cittadinanza rischia di trasformarsi in un boomerang: gli uffici immigrazione hanno personale ridotto e sistemi informatici obsoleti.
Maggiore integrazione sociale e scolastica per i minori stranieri
In un’aula scolastica italiana, non è raro che due bambini siedano fianco a fianco, leggano lo stesso libro, cantino l’inno nazionale insieme. Eppure, uno dei due, magari nato a Roma da genitori senegalesi, pur parlando italiano meglio dei suoi coetanei e avendo frequentato sin dalla materna le scuole pubbliche, non è cittadino italiano. Non lo sarà fino ai 18 anni, e solo a patto che presenti una domanda entro una finestra temporale strettissima e riesca a dimostrare di aver risieduto ininterrottamente in Italia per tutta la vita. Questo è il paradosso italiano.
Secondo il Ministero del Lavoro, oltre 800.000 minori stranieri sono nati o cresciuti in Italia ma non hanno ancora accesso alla cittadinanza. Il referendum previsto per l’8 e 9 giugno 2025 propone, tra le altre misure, di dimezzare i tempi di residenza da 10 a 5 anni per ottenere la cittadinanza italiana. Una riforma che punta direttamente a colmare il divario tra identità vissuta e riconoscimento giuridico, soprattutto per i più giovani.
Il problema è strutturale. Come riportato da “Il Sole 24 Ore”, solo il 30% dei minori stranieri residenti in Italia è riuscito ad ottenere la cittadinanza. Questo nonostante due alunni stranieri su tre siano nati in Italia e frequentino regolarmente il sistema scolastico. L’80,3% di questi ragazzi si dichiara “anche italiano”, ma solo il 45% immagina un futuro stabile in Italia. La mancanza di riconoscimento giuridico genera incertezza e frustrazione, spingendo molti giovani verso un’identità frammentata o verso la migrazione secondaria.
Il rapporto Orizzonti condivisi, presentato da IDOS e Centro Studi Pio V, sottolinea come la scuola sia il luogo primario di integrazione reale. Gli studenti stranieri partecipano alle gite, agli esami, alle attività pomeridiane. Alcuni diventano rappresentanti di classe. Ma quando si tratta di partecipare attivamente alla vita civica – votare, essere eletti, accedere ad alcuni concorsi pubblici – la barriera della cittadinanza si fa sentire. “Sono italiana, ma sulla carta non lo sono”, è la frase ricorrente di chi vive questa esclusione silenziosa.
Secondo l’economista Piero Fassino, riportato da “Italia Informa”, “un paese che cresce con nuove generazioni che non si sentono riconosciute è un paese destinato alla frammentazione sociale”. E il presidente del Centro Astalli, Camillo Ripamonti, ha ribadito alla conferenza annuale del 2025 che “la cittadinanza deve essere lo strumento con cui lo Stato riconosce l’appartenenza effettiva, non un premio da conquistare”.
Sul piano internazionale, l’Italia è oggi tra i paesi più restrittivi in Europa. Mentre in Francia servono 5 anni (ridotti a 2 in caso di formazione in loco), in Germania sono sufficienti 6–8 anni con integrazione linguistica. Ridurre il periodo minimo italiano da 10 a 5 anni significherebbe allinearsi finalmente agli standard europei, come sottolineato da Justin Frosini (Bocconi) in una tavola rotonda per “Il Sole 24 Ore”.
Dare cittadinanza a chi ha già fatto proprio l’immaginario italiano – non solo lingua, ma valori, storia, relazioni sociali – è un atto di realismo politico, oltre che di giustizia. E come ha ricordato il Centro Astalli, “non si può più ignorare che la nuova Italia è già qui, siede sui banchi delle nostre scuole, entra nei nostri ospedali, gioca nelle nostre squadre di quartiere”.
Nel 2025, votare a favore della riforma significherà dare un volto e un futuro a questa nuova generazione di italiani, troppo a lungo sospesi tra due mondi.
Nina Celli, 11 aprile 2025
Rischio di indebolimento del concetto di cittadinanza
C’è un valore simbolico, storico e costituzionale nel concetto di cittadinanza. È un’appartenenza, un patto civico, un riconoscimento di reciprocità tra individuo e Stato. Ridurre i tempi necessari per accedervi – da dieci a cinque anni, come proposto dal referendum del giugno 2025 – rischia, secondo molti esperti e costituzionalisti, di svuotare la cittadinanza del suo significato profondo, trasformandola in un semplice automatismo burocratico.
Nel dibattito avviato da “Diritto.it”, diversi giuristi hanno sollevato preoccupazioni sulla perdita di coerenza simbolica che deriverebbe da una concessione troppo rapida. Il costituzionalista Alfonso Celotto ha ricordato che la cittadinanza non può essere solo una “formalità di residenza”, ma deve comportare una prova concreta di conoscenza della lingua, dei valori repubblicani e della cultura democratica.
Questo concetto è stato ribadito anche da Flavio Tosi, esponente di Forza Italia, in un’intervista a “Verona Sera”. Secondo Tosi, l’idea di dimezzare i tempi di residenza rischia di “appannare il confine tra cittadinanza e semplice permesso di soggiorno”, creando confusione e tensioni sociali. “Non possiamo trattare la cittadinanza come una concessione generalizzata – ha dichiarato – altrimenti perde il suo valore aggregante”.
Un altro punto critico riguarda la conoscenza linguistica e costituzionale. Secondo uno studio menzionato da “Il Sole 24 Ore”, una percentuale rilevante di naturalizzati in tempi brevi non riesce a superare test di lingua italiana o domande elementari sulla Costituzione. Questo disallineamento culturale mina l’idea stessa di cittadinanza come espressione di consapevolezza e partecipazione civica.
La preoccupazione più profonda non è l'inclusione in sé, ma il tempo necessario per costruire un’appartenenza autentica. Come ha osservato il sociologo Luca Ricolfi, intervistato da “Punto! Magazine”, “integrazione e cittadinanza non coincidono automaticamente. L’una precede e prepara l’altra. Anticipare troppo i tempi rischia di rompere questo equilibrio”.
Un ulteriore aspetto critico è la differenza tra presenza e appartenenza. La sola residenza, anche di cinque anni, non garantisce la condivisione dei valori democratici. Il governo, in occasione del decreto di riforma approvato a marzo 2025, ha introdotto un concetto chiave: “vincolo effettivo” con la Repubblica italiana. Un principio che comporta partecipazione attiva, esercizio di diritti e doveri, uso della lingua e coinvolgimento nella vita collettiva. Senza queste premesse, la cittadinanza rischia di diventare un’etichetta formale, priva di contenuto sostanziale.
Inoltre, come ricordato dal dossier di “Cinformi” della Provincia Autonoma di Trento, l’allineamento con altri paesi europei non può avvenire per semplice imitazione. “Ogni paese ha una storia migratoria diversa, un tessuto sociale unico e una Costituzione propria. Il principio dell’integrazione non si può ridurre al calcolo degli anni di residenza”.
Il dibattito sulla cittadinanza tocca anche il concetto di reciprocità. Lo Stato concede diritti, ma si aspetta anche partecipazione, fedeltà ai principi repubblicani, volontà di condividere destino e responsabilità. Come ha osservato il giurista Francesco Clementi, citato in un dossier di “Radio Radicale”, “dare troppo in fretta rischia di svuotare il contenuto stesso dell’appartenenza: la cittadinanza è un contratto sociale, non una sanatoria estesa”. Chi si oppone alla riforma referendaria non nega il diritto all’inclusione. Ma ricorda che l’appartenenza si costruisce con il tempo, la prova, l’intenzione e il riconoscimento reciproco. Dimezzare i tempi può sembrare progressista, ma rischia di minare proprio il principio che dovrebbe difendere: la cittadinanza come atto consapevole, solido e condiviso.
Nina Celli, 11 aprile 2025
Risposta a una realtà demografica in trasformazione
In un Paese che invecchia, dove ogni anno nascono meno bambini e la forza lavoro si assottiglia, la questione della cittadinanza non è solo un affare giuridico o ideologico: è una questione strutturale, quasi di sopravvivenza sociale. L’Italia si trova oggi davanti a una trasformazione demografica radicale, e il dibattito sul referendum del 2025 – che propone di dimezzare i tempi di residenza per ottenere la cittadinanza da 10 a 5 anni – si colloca al centro di questa svolta.
Nel Rapporto IDOS 2024, rilanciato da “Il Sole 24 Ore”, si legge che l’Italia ospita oltre 5,1 milioni di cittadini stranieri, ma il 62% di loro è residente da più di dieci anni. In altre parole, una fetta consistente della popolazione vive, lavora e cresce in Italia, ma continua a essere esclusa formalmente dal patto di cittadinanza.
Come ricorda il sito del Ministero del Lavoro, l’11,6% della popolazione italiana è di origine straniera, un dato che sale al 14% nei centri urbani. Eppure, il nostro ordinamento continua a considerare questa fascia della popolazione come “ospiti a lungo termine”, spesso privi di diritti civili e politici fondamentali. Il professor Justin Frosini, costituzionalista della Bocconi, durante una tavola rotonda de “Il Sole 24 Ore”, ha affermato: “L’Italia è tra gli ultimi Paesi UE per apertura sulla cittadinanza: siamo in ritardo su una realtà che è già cambiata”.
Un dato particolarmente significativo proviene dal rapporto Orizzonti condivisi: l’80% dei giovani di origine straniera si sente italiano, ma solo il 45% di loro immagina un futuro stabile nel Paese. Questo significa che la mancata cittadinanza sta incentivando l’emigrazione di ritorno, spesso verso altri Paesi europei dove il riconoscimento giuridico è più rapido. L’Italia investe per formare questi giovani – in sanità, educazione, infrastrutture sociali – e poi li perde, senza che possano restituire in termini fiscali o civili.
Secondo il Centro Astalli, si tratta di “una miopia sistemica”. Camillo Ripamonti, presidente del centro, afferma che “senza una cittadinanza accessibile, non si costruisce identità nazionale, ma solo marginalità istituzionalizzata”. Il paradosso è che, mentre da un lato si teme la perdita di coesione sociale, dall’altro si esclude formalmente una parte crescente della popolazione, impedendole di partecipare al progetto Paese.
Il dimezzamento dei tempi di residenza, in questo scenario, appare come una misura proattiva, non concessiva. È un tentativo di riallineare la legge alla realtà demografica. Come osserva “Italia Informa”, la riforma non nasce da un’urgenza politica, ma da una constatazione oggettiva: il modello attuale non funziona più.
Le proiezioni dell’OCSE e di Eurostat, citate da “permessodisoggiorno.org”, indicano che senza un aumento del tasso di naturalizzazione, l’Italia vedrà crollare del 22% la propria forza lavoro attiva entro il 2040. La cittadinanza può e deve diventare un motore di sviluppo, non solo uno status legale.
La politica non può più permettersi di inseguire la realtà: deve anticiparla. E questo referendum rappresenta una delle rare occasioni in cui i cittadini possono contribuire direttamente a definire chi siamo oggi e chi vogliamo essere domani. Una cittadinanza moderna, flessibile e inclusiva non è un rischio: è una risposta strutturale a un’Italia che cambia.
Nina Celli, 11 aprile 2025
Timori di impatto su coesione e sicurezza sociale
È nei quartieri popolari delle grandi città – da Tor Bella Monaca a Milano San Siro, passando per le periferie di Napoli e le zone industriali di Brescia – che si percepiscono più chiaramente i contraccolpi invisibili delle politiche migratorie. Qui, tra servizi sociali al limite, scuole sovraffollate e un tessuto urbano in tensione, l’idea di estendere la cittadinanza a nuovi residenti dopo soli cinque anni – come prevede il referendum del 2025 – genera non solo perplessità, ma timore diffuso. Non tanto per chi arriva, quanto per chi già abita.
Nel recente rapporto del CENSIS rilanciato da “Il Sole 24 Ore”, emerge un dato allarmante: in alcuni contesti metropolitani con forte presenza straniera, crescono le tensioni tra gruppi etnici, anche a causa della percezione – spesso errata, ma socialmente reale – che le istituzioni “favoriscano” i nuovi arrivati rispetto ai cittadini storici. Si tratta di rancori accumulati, più che motivazioni ideologiche.
Nel suo editoriale su “Punto! Magazine”, il sociologo Luca Ricolfi afferma che “la cittadinanza rapida può diventare una miccia se accesa nei territori fragili: senza coesione culturale e linguistica, rischia di aumentare la frammentazione”.
Anche il rapporto del Centro Astalli – pur favorevole alla riforma – mette in guardia da una dinamica pericolosa: dare la cittadinanza in modo rapido senza garantire percorsi di integrazione paralleli (lavoro stabile, casa, scuola di qualità) può provocare un effetto boomerang. I giovani naturalizzati che restano ai margini percepiscono la cittadinanza come una promessa non mantenuta; i cittadini italiani nativi vedono nell’inclusione una “corsia preferenziale” non giustificata.
Secondo il dossier di “Diritto.it”, il governo ha scelto di reintrodurre l’idea di “vincolo effettivo” proprio per frenare questa percezione. Il rischio è che senza una base di esperienze condivise – come volontariato, educazione civica, conoscenza della lingua – la cittadinanza resti un’identità formale ma non riconosciuta nella comunità reale.
Sul piano politico, questa tensione si è già manifestata. La Lega, nel Consiglio dei Ministri che ha discusso il decreto Meloni-Tajani-Piantedosi, ha espresso apertamente dissenso. Alcuni amministratori locali, come il sindaco di Verona, temono che un’affluenza incontrollata alle richieste possa scatenare polemiche tra cittadini italiani in difficoltà e nuovi richiedenti. “Il diritto – ha detto in un'intervista a “Verona Sera” – non si può distribuire come una carta fedeltà”.
È utile anche osservare i dati sulla povertà relativa: come riportato nel dossier IDOS, il 30,4% delle famiglie straniere vive in povertà assoluta, contro il 6,3% delle italiane. In questo scenario, concedere diritti pieni a chi è già in forte difficoltà rischia di essere percepito non come un atto di giustizia, ma di ingiustizia comparativa. Ciò che manca, sottolineano gli esperti del Centro Studi Cinformi, è una rete di mediazione sociale che accompagni la concessione della cittadinanza. Senza dialogo, la riforma diventa un atto calato dall’alto, scollegato dalla realtà quotidiana dei territori. La paura non è l’inclusione in sé. È l’accelerazione senza fondamenta. Perché la cittadinanza – se non è condivisa dalla comunità che accoglie – rischia di trasformarsi in un’etichetta vuota, capace solo di alimentare divisioni.
Nina Celli, 11 aprile 2025
Accorciare i tempi per la cittadinanza porterebbe benefici economici a lungo termine
L’Italia è una delle grandi economie europee con la crescita più lenta. Invecchiamento della popolazione, stagnazione dei salari e calo della produttività sono nodi strutturali che resistono da decenni. Eppure, nel cuore delle città, nei distretti industriali, nelle scuole e negli ospedali, milioni di cittadini stranieri lavorano, pagano tasse, crescono figli e costruiscono futuro, pur restando, formalmente, ai margini dello Stato. Il referendum del 2025, che propone di ridurre da 10 a 5 anni il tempo necessario per ottenere la cittadinanza italiana, si propone anche come una politica economica travestita da riforma giuridica.
Secondo un’analisi dell’Istituto OpenPolis, le persone che ottengono la cittadinanza italiana hanno una probabilità del 45% superiore di accedere a impieghi qualificati, rispetto a chi rimane in condizione di residenza permanente. L’assenza di cittadinanza limita non solo l’accesso ad alcuni settori del pubblico impiego, ma influisce negativamente anche sulla mobilità verticale nel privato.
Questo effetto “tetto di vetro” è stato evidenziato anche dalla Fondazione Leone Moressa, uno dei più autorevoli centri di ricerca sull’economia dell’immigrazione in Italia. I loro calcoli mostrano che ogni nuovo cittadino stabilmente inserito nel mercato del lavoro contribuisce mediamente con 4.700 euro annui in contributi previdenziali. Con circa 100.000 naturalizzazioni annue potenziali, si parla di un effetto macroeconomico rilevante: quasi mezzo miliardo di euro l’anno solo in contributi INPS.
Oltre al contributo previdenziale, la cittadinanza aumenta il grado di investimento nella formazione. Lo dimostra uno studio presentato da “permessodisoggiorno.org”, secondo cui i cittadini stranieri che acquisiscono la cittadinanza hanno maggiore propensione a intraprendere percorsi universitari e imprenditoriali, in particolare tra i giovani.
Le aziende, soprattutto nei settori ad alta intensità di manodopera (logistica, agricoltura, cura), vedono nella cittadinanza un fattore di stabilità contrattuale e continuità lavorativa. Come affermato da Flavio Tosi in un’intervista a “Verona Sera”, “una cittadinanza più accessibile significa meno rotazione di personale, meno lavoro grigio, più regolarità”.
Un altro impatto spesso sottovalutato è quello sull’economia dell’infanzia. Secondo i dati del Centro Astalli, il 70% degli studenti stranieri ha svolto l’intero ciclo scolastico in Italia, ma solo una minima parte ha accesso ai fondi per il diritto allo studio universitario, ai concorsi pubblici, ai tirocini pagati delle istituzioni. Una volta naturalizzati, invece, possono contribuire al capitale umano del Paese come qualunque altro cittadino. È un investimento a basso rischio e alto rendimento: lo Stato raccoglie ciò che ha già seminato.
Secondo Cristina Volpe Rinonapoli su “Italia Informa”, la cittadinanza “non è solo un fatto di appartenenza. È una leva economica e fiscale per far crescere un Paese che si è fermato”. Le sue parole trovano riscontro nel confronto internazionale: in Francia, dove il tempo di residenza è più breve, l’impatto fiscale delle naturalizzazioni è positivo da oltre 15 anni.
La cittadinanza come infrastruttura economica rafforza anche i legami tra generazioni. Un genitore con cittadinanza italiana ha maggiore capacità di trasferire stabilità economica e giuridica ai figli, evitando l’effetto domino dell’irregolarità ereditata. Come ricorda il PSI di Taranto, “una riforma che riconosce chi lavora, paga tasse e cresce figli in Italia è un investimento sull’intero sistema paese”.
Dimezzare i tempi di residenza per ottenere la cittadinanza, dunque, non è solo una battaglia per i diritti civili: è una politica industriale mascherata da questione identitaria. Riconoscere chi già contribuisce non solo rafforza la coesione, ma accelera lo sviluppo sostenibile di un’Italia più produttiva, stabile e competitiva.
Nina Celli, 11 aprile 2025
Criticità nella gestione amministrativa: l’Italia rischia il collasso
C’è un’Italia che non compare nei decreti-legge, né nei programmi elettorali. È l’Italia degli sportelli dell’anagrafe, degli uffici immigrazione delle prefetture, dei comuni di provincia che cercano – con personale ridotto e sistemi informatici obsoleti – di gestire un carico amministrativo sempre crescente. In questa Italia concreta, fatta di scadenze e faldoni, la proposta di dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza per ottenere la cittadinanza italiana, come previsto dal referendum di giugno 2025, rischia di trasformarsi in un boomerang operativo.
Secondo un rapporto interno del Ministero dell’Interno, rilanciato da “Today.it”, ci sono attualmente oltre 150.000 pratiche di cittadinanza in attesa di essere esaminate. I tempi medi di lavorazione superano già oggi i 24 mesi, con punte di 36 mesi nelle città più grandi come Roma, Milano e Napoli. Si tratta di una situazione di “stress amministrativo” che non ha precedenti recenti, e che peggiorerebbe esponenzialmente con l’aumento delle domande conseguente alla riforma.
Le ANCI, l’associazione nazionale dei comuni italiani, hanno più volte segnalato la carenza strutturale di personale dedicato. Come evidenziato nel dossier di “Cinformi”, il personale addetto alla gestione delle pratiche è spesso ridotto a poche unità e lavora con software diversi da comune a comune, senza interoperabilità. Una riforma che aumenti in modo repentino il flusso delle richieste di cittadinanza – senza parallelamente investire in risorse, formazione e digitalizzazione – rischia di paralizzare l’intero sistema.
Il governo, consapevole di questa fragilità, ha inserito nella riforma una misura di centralizzazione presso la Farnesina per i cittadini italiani all’estero. Tuttavia, nulla di analogo è stato previsto per i richiedenti presenti sul territorio italiano. Come osserva l’editorialista Rosalba Reggio su “Il Sole 24 Ore”, “abbiamo un impianto burocratico costruito per gestire lentezza e prudenza. Oggi si pretende di renderlo reattivo, senza fornirgli gli strumenti”.
Il tema non è solo tecnico. È anche di tenuta democratica. Quando la cittadinanza viene riconosciuta con ritardi di anni, il cittadino – o aspirante tale – perde fiducia nelle istituzioni. Come dimostrano le testimonianze raccolte da “IntegrazioneMigranti.gov.it”, molti giovani si sentono intrappolati in un limbo giuridico: né cittadini, né pienamente stranieri. Questa incertezza genera disagio sociale, sfiducia e, nei casi peggiori, frustrazione politica.
Un altro rischio è quello della disparità territoriale. Se oggi ci sono comuni dove la procedura si chiude in 18 mesi, e altri dove dura 5 anni, l’aumento delle domande provocherebbe un effetto imbuto: i territori già fragili diventerebbero impraticabili. Lo denuncia anche il sindaco di Taranto in un’intervista su “Antenna Sud”, che chiede “una legge seria e unitaria, non un’ondata di richieste ingestibili”.
A fronte di tutto questo, la riforma appare ambiziosa ma logisticamente impreparata. Come ha scritto l’editorialista di “Diritto.it”, “non basta modificare i numeri. Servono risorse, sistemi interoperabili, formazione del personale. Altrimenti si rischia di trasformare un’opportunità storica in un incubo amministrativo”. Dimezzare i tempi può essere una misura simbolicamente forte, ma senza una robusta infrastruttura burocratica, diventa una promessa irrealizzabile. E in politica, come nella vita, le promesse mancate fanno più male delle promesse negate.
Nina Celli, 11 aprile 2025