Nr. 306
Pubblicato il 06/03/2025

I dazi di Donald Trump

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

La politica commerciale di Donald Trump, e in particolare la sua visione fortemente protezionista basata sull’uso sistematico di dazi e barriere tariffarie, rappresenta una delle trasformazioni più radicali nei rapporti economici globali dagli anni Settanta ad oggi. Se già nel corso del primo mandato (2017-2021) Trump aveva inaugurato un approccio di “guerra commerciale” nei confronti della Cina e aveva messo sotto pressione alleati storici come Canada, Messico e Unione Europea, il ritorno alla Casa Bianca nel 2025 ha segnato un’accelerazione di questa strategia, con l’introduzione di tariffe del 25% su tutte le importazioni da Canada e Messico e del 20% su un ampio spettro di beni cinesi, dai semiconduttori ai prodotti agricoli.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - I dazi difendono la produzione nazionale e attuano un reshoring industriale

I dazi sono uno strumento per rendere la manifattura americana nuovamente competitiva, dopo decenni di delocalizzazione verso Asia e Messico.

02 - I dazi portano un aumento dell’inflazione e dei costi per i consumatori

La nuova ondata di dazi sui beni cinesi potrebbe determinare un aumento dell’inflazione, traducendosi in un incremento dei prezzi al consumo.

03 - I dazi aumentano la sicurezza nazionale e riducono le dipendenze strategiche

I dazi sono una leva per la sicurezza nazionale. Proteggono settori critici e infrastrutture strategiche, riducendo la dipendenza degli Stati Uniti da paesi non affidabili.

04 - I dazi hanno un impatto negativo sul commercio globale e sulle filiere produttive

I dazi frammentano la rete di produzione, spingendo molte aziende a rivedere i propri modelli di approvvigionamento, con costi di transizione elevatissimi.

05 - I dazi generano entrate straordinarie per il bilancio federale

I dazi porteranno ingenti capitali nelle casse della federazione americana, permettendo al governo di fare tagli fiscali a favore della famiglie e delle piccole imprese.

06 - I dazi potrebbero avere effetti devastanti sull’industria europea e sul Made in Italy

I dazi imposti da Donald Trump sono una minaccia senza precedenti per il Made in Italy e per l’intero sistema industriale europeo.

 
01

I dazi difendono la produzione nazionale e attuano un reshoring industriale

FAVOREVOLE

Uno degli obiettivi cardine della politica tariffaria di Donald Trump è il reshoring industriale, ovvero il ritorno della produzione manifatturiera all’interno degli Stati Uniti. Il presidente ha presentato la nuova ondata di dazi — con aliquote del 25% su acciaio e alluminio e ulteriori tariffe del 20% su beni cinesi — come uno strumento per rendere la manifattura americana nuovamente competitiva, dopo decenni di delocalizzazione verso Asia e Messico. Secondo la Casa Bianca, le politiche protezionistiche del primo mandato di Trump avevano già favorito la costruzione di nuovi impianti per un valore di oltre 10 miliardi di dollari, incentivando aziende nazionali ed estere a rilocalizzare negli USA per evitare le tariffe (White House, 2025).
Le nuove misure del 2025 rafforzano questa strategia, utilizzando la leva tariffaria per modificare le catene di approvvigionamento globali e riportare sul suolo americano settori chiave come l’automotive, l’elettronica di consumo e la componentistica industriale. Il reshoring non è solo una scelta economica: Trump lo ha presentato come una necessità strategica per garantire la sicurezza nazionale, specialmente in settori sensibili come i semiconduttori e la difesa. La crisi della supply chain globale durante la pandemia ha reso evidente quanto la dipendenza da fornitori esteri possa rappresentare un rischio sistemico, soprattutto in un contesto di competizione geopolitica con la Cina.
Il Peterson Institute for International Economics stima che il ritorno della produzione negli Stati Uniti potrebbe generare fino a 2,8 milioni di nuovi posti di lavoro nel settore manifatturiero, con incrementi salariali medi nel comparto superiori al 5,7%. Questi dati sono stati ripresi e rilanciati da Bloomberg, che sottolinea come la combinazione di dazi e incentivi fiscali possa trasformare gli Stati Uniti in un hub manifatturiero per il Nord America (“Bloomberg”, 2025).
Tuttavia, il processo di rilocalizzazione non è immediato né privo di ostacoli. Un’analisi pubblicata da ING Think nel marzo 2025 evidenzia come l’incertezza sulle politiche tariffarie stia creando un clima di prudenza e attesa tra i produttori americani. Il ISM Manufacturing Index, uno dei principali indicatori dell’attività manifatturiera USA, è sceso a 50,3 punti a febbraio 2025, con una brusca contrazione dei nuovi ordini (48,6) e dell’occupazione manifatturiera (47,6), entrambi in territorio di contrazione. Secondo l’analisi di ING, questo rallentamento è direttamente collegato all’attesa delle nuove tariffe, che spinge molte aziende a rivedere le catene di fornitura, importando volumi maggiori di componenti prima dell’applicazione dei dazi (ING Think, 2025).
Paradossalmente, quindi, il reshoring industriale non è solo un risultato diretto dei dazi, ma anche della volatilità e dell’incertezza che essi generano. Le imprese, per proteggersi da future escalation tariffarie, sono indotte a investire in capacità produttiva nazionale, anche se a costi più elevati. Questo meccanismo, sebbene doloroso nel breve periodo, può portare a una maggiore autonomia strategica nel lungo termine.
Un ulteriore fattore di spinta al reshoring è rappresentato dai cambiamenti nella percezione del rischio geopolitico. Le tensioni con la Cina, aggravate dalle tariffe, spingono non solo aziende americane, ma anche multinazionali europee e asiatiche a valutare la rilocalizzazione di stabilimenti negli USA, sia per evitare dazi che per proteggere la continuità delle operazioni in caso di escalation. Secondo uno studio di Frost Brown Todd (2025), l’incertezza sulle relazioni USA-Cina è uno dei principali driver di revisione delle catene di fornitura globali, con effetti che potrebbero consolidarsi nei prossimi cinque anni.
Oltre ai benefici economici e strategici, il reshoring promosso dai dazi Trump è visto da parte dell’amministrazione come un volano di consenso politico. La retorica del "Buy American" e la difesa dei posti di lavoro domestici hanno avuto un ruolo centrale nella campagna elettorale, soprattutto in quegli stati industriali — Michigan, Pennsylvania, Ohio — che nel 2016 e nel 2020 hanno determinato l’esito delle elezioni presidenziali. Per questo, la politica tariffaria non è solo un’arma economica, ma una componente centrale di un programma politico nazionalista e protezionista, che punta a rilegittimare la figura del lavoratore manifatturiero americano come simbolo della rinascita nazionale.
La politica di dazi e reshoring di Trump 2025, dunque, si presenta come una strategia integrata, che unisce obiettivi di sicurezza nazionale, rilancio economico interno e consolidamento politico. Se da un lato l’efficacia di queste misure dipenderà dalla capacità delle imprese di adattarsi al nuovo contesto e assorbire i costi di transizione, dall’altro il ritorno di investimenti produttivi sul territorio americano rappresenta già un segnale concreto di un cambiamento di paradigma nelle strategie globali delle imprese. In uno scenario sempre più frammentato, la prospettiva di un’America manifatturiera autosufficiente diventa uno degli obiettivi chiave della dottrina economica trumpiana.

Nina Celli, 6 marzo 2025

 
02

I dazi portano un aumento dell’inflazione e dei costi per i consumatori

CONTRARIO

L’impatto delle nuove tariffe di Trump 2025 sui prezzi al consumo è uno degli effetti più rilevanti e potenzialmente destabilizzanti della politica commerciale protezionista adottata dalla sua amministrazione. Secondo una recente analisi di S&P Global Ratings (2025), la nuova ondata di dazi del 25% su Canada e Messico e del 20% sui beni cinesi potrebbe determinare un aumento immediato dell’inflazione compreso tra 50 e 70 punti base, traducendosi in un incremento dello 0,5% - 0,7% dei prezzi al consumo già nel corso del 2025. In un contesto in cui l’inflazione americana fatica a rientrare sotto il 3%, questo ulteriore impulso rischia di alimentare aspettative inflazionistiche persistenti, obbligando la Federal Reserve a sospendere i tagli dei tassi previsti e a mantenere una politica monetaria più restrittiva (S&P Global Ratings, 2025).
Lo studio evidenzia che i beni di largo consumo — come elettronica, abbigliamento e generi alimentari — saranno particolarmente colpiti, a causa della forte dipendenza dalle importazioni da Messico e Cina. La struttura produttiva nordamericana, fortemente integrata, fa sì che molti prodotti finali americani contengano componenti importate più volte nel processo produttivo. Questo fenomeno, definito “tariff pancaking” da S&P Global, implica che lo stesso componente viene colpito dal dazio ogni volta che attraversa la frontiera, amplificando l’effetto inflattivo (S&P Global Ratings, 2025).
Secondo la Federal Reserve Bank di San Francisco, circa l’11% della spesa al consumo statunitense è direttamente riconducibile a prodotti importati. Tale quota, già rilevante, sale significativamente nei settori dell’elettronica, degli elettrodomestici e dell’abbigliamento, dove le importazioni da Cina e Messico coprono oltre il 60% dell’offerta di mercato (FRBSF, 2025). Il rincaro dei prezzi al consumo è dunque inevitabile e direttamente proporzionale alla rigidità delle filiere e alla limitata capacità di sostituzione interna nel breve termine.
Particolarmente rilevante è l’impatto previsto sul settore automobilistico. Le analisi di Jefferies Investment Bank, riprese da “NPR” (2025), stimano che il costo medio di un’automobile americana aumenterà di circa 2.700 dollari, pari a un incremento del 6% sul prezzo medio di vendita. Tale aumento è dovuto all’altissima integrazione delle filiere automotive nordamericane, dove componenti prodotti in Messico attraversano la frontiera USA più volte prima di essere assemblati nel veicolo finale. Il settore automobilistico rappresenta il 3,5% del PIL USA, quindi, un effetto a catena di questa portata ha implicazioni macroeconomiche significative (“NPR”, 2025).
Il settore energetico subirà impatti simili. Il 24% del petrolio raffinato negli Stati Uniti proviene dal Canada, e oltre l’80% di quel petrolio è destinato al consumo interno americano. Il dazio del 10% sulle importazioni energetiche canadesi si tradurrà in un aumento medio di 7 centesimi per gallone sul prezzo della benzina, con effetti diretti sulla spesa delle famiglie e sui costi di trasporto lungo tutta la filiera distributiva (S&P Global Ratings, 2025). Il costo delle case nuove salirà parallelamente a causa dell’aumento del prezzo del legname canadese, già colpito da precedenti dispute commerciali, aggravando la crisi dell’accessibilità abitativa che colpisce la classe media americana (S&P Global Ratings, 2025).
Uno degli aspetti più preoccupanti è la natura regressiva dell’impatto inflattivo. Il Tax Policy Center (2025) calcola che le famiglie nel primo e secondo quintile di reddito subiranno una perdita di potere d’acquisto fino all’1,5% del loro reddito disponibile, mentre le famiglie più ricche vedranno un impatto limitato allo 0,4%. Questa sproporzione è dovuta alla maggiore quota di reddito destinata dai meno abbienti all’acquisto di beni di prima necessità e di prodotti importati a basso costo. In pratica, le tariffe si configurano come una tassazione indiretta regressiva, che colpisce più duramente le fasce vulnerabili, contraddicendo la retorica populista che vorrebbe le politiche commerciali di Trump a tutela della classe lavoratrice (Tax Policy Center, 2025).
L’impatto inflattivo delle tariffe non è inoltre facilmente assorbibile dal sistema economico americano. I tentativi di sostituzione delle importazioni con produzione domestica, seppur in corso, richiedono anni di investimenti e riorganizzazioni delle filiere, lasciando i consumatori esposti ai rialzi di prezzo per almeno 3-5 anni (S&P Global Ratings, 2025). Inoltre, la rigidità dei contratti di fornitura e la dipendenza da fornitori specifici rendono difficile una riallocazione rapida delle catene di approvvigionamento senza significativi aumenti di costo.
Inoltre, l’aumento dei prezzi al consumo, combinato con il rallentamento dell’economia globale causato dalle tensioni commerciali, genera un effetto “stagflattivo”, ossia una combinazione di crescita debole e inflazione elevata, particolarmente difficile da gestire per la politica monetaria della Federal Reserve. Il rischio concreto, sottolineato da S&P Global Ratings, è che la Fed sia costretta a sospendere i tagli dei tassi previsti nel 2025-2026, prolungando il ciclo di restrizione monetaria e amplificando le difficoltà di accesso al credito per famiglie e imprese (S&P Global Ratings, 2025).
Le tariffe di Trump 2025 innescano, quindi, una spirale inflattiva, colpendo direttamente il potere d’acquisto delle famiglie e la competitività delle imprese, senza offrire nel breve termine alternative produttive interne sufficienti a calmierare i prezzi. La combinazione di tariffe, ritorsioni commerciali e rialzo dei tassi d’interesse rischia di produrre un ciclo recessivo che potrebbe vanificare gli stessi obiettivi di rilancio industriale alla base della politica tariffaria.

Nina Celli, 6 marzo 2025

 
03

I dazi aumentano la sicurezza nazionale e riducono le dipendenze strategiche

FAVOREVOLE

Le nuove tariffe di Trump 2025 non rappresentano solo uno strumento di politica commerciale, ma si configurano come una leva fondamentale per la sicurezza nazionale, con implicazioni che vanno ben oltre la protezione economica. L’amministrazione Trump ha giustificato la reintroduzione di dazi del 25% su tutte le importazioni dal Canada e dal Messico e del 20% su quelle cinesi come parte di una più ampia strategia volta a proteggere settori critici e infrastrutture strategiche, riducendo la dipendenza degli Stati Uniti da paesi considerati, se non ostili, almeno non pienamente affidabili dal punto di vista geopolitico. La logica sottostante è che la globalizzazione e l’eccessiva apertura commerciale hanno esposto la supply chain americana a vulnerabilità che potrebbero trasformarsi in gravi minacce alla sicurezza nazionale in caso di crisi internazionali o conflitti economici (“White & Case LLP”, 2025).
Un aspetto centrale della nuova strategia tariffaria è la mappatura delle cosiddette “filiera critiche”, in particolare nei settori energia, elettronica, automotive e difesa. Secondo quanto dichiarato dalla Casa Bianca e ripreso da White & Case, il provvedimento include una clausola speciale per le importazioni energetiche dal Canada, che saranno soggette a una tariffa ridotta al 10%, riconoscendo la rilevanza strategica del petrolio, del gas naturale e delle terre rare canadesi, ma imponendo comunque una misura protezionistica volta a garantire che una quota crescente di queste risorse venga lavorata e trasformata sul territorio statunitense. L’obiettivo è chiaro: ridurre al minimo la dipendenza da forniture critiche provenienti da paesi che, sebbene alleati, non sempre hanno condiviso la visione geopolitica di Washington.
Particolare attenzione è rivolta anche ai semiconduttori e alla componentistica elettronica, settori nei quali la dipendenza dalla Cina è storicamente elevata. Le tariffe del 20% imposte sulle importazioni cinesi si combinano con una serie di incentivi fiscali e sussidi diretti, finalizzati a sostenere l’espansione delle capacità produttive di aziende americane come Intel e Micron e a incentivare colossi globali come TSMC e Samsung a localizzare negli USA impianti chiave per la produzione di chip avanzati. Nel gennaio 2025, TSMC ha annunciato un investimento di 100 miliardi di dollari per la costruzione di cinque nuovi stabilimenti in Arizona, dichiarando esplicitamente che la scelta è stata dettata dalla volontà di evitare le incertezze legate ai dazi e di beneficiare degli incentivi fiscali previsti dal CHIPS Act (“Bloomberg”, 2025).
Oltre alla sicurezza economica, la nuova ondata di dazi è giustificata dal governo come una risposta diretta alle minacce emergenti nel contesto delle nuove guerre commerciali e tecnologiche. La stessa White & Case LLP, in un’analisi legale, evidenzia come l’amministrazione Trump abbia attivato i poteri di emergenza economica (International Emergency Economic Powers Act - IEEPA) per accelerare l’applicazione delle tariffe senza passare attraverso i tradizionali processi di revisione congressuale. Questo approccio, oltre a dimostrare la volontà politica di Trump di agire con rapidità e decisione, sottolinea quanto la sicurezza economica sia percepita come una questione indissolubilmente legata alla sicurezza nazionale.
Un aspetto particolarmente rilevante è la riconfigurazione delle catene di fornitura del settore della difesa. Il Pentagono ha infatti inserito alcuni componenti elettronici, batterie avanzate e materiali speciali nelle liste di beni soggetti a revisione strategica. Le nuove tariffe, unite alle restrizioni sulle importazioni di determinati prodotti cinesi, mirano a stimolare la creazione di filiere interamente nazionali, capaci di garantire l’autosufficienza produttiva anche in scenari di crisi globale.
Tuttavia, la strategia di Trump non è priva di controversie. Se da un lato la logica della sicurezza economica è ampiamente condivisa anche da ambienti industriali e politici tradizionalmente liberisti, dall’altro l’applicazione di tariffe generalizzate rischia di penalizzare intere filiere che, negli ultimi decenni, si sono strutturate in funzione della complementarità con Canada, Messico e Cina. Secondo uno studio di Northwestern University, il 65% delle aziende manifatturiere americane dipende da componenti prodotti nei tre paesi colpiti dai dazi, e il processo di riconfigurazione delle supply chain potrebbe richiedere 5-7 anni e investimenti stimati in almeno 200 miliardi di dollari (“Northwestern”, 2025).
Nonostante i costi e le difficoltà operative, la Casa Bianca ritiene che la riduzione della dipendenza da forniture critiche straniere rappresenti un obiettivo di lungo termine essenziale per preservare la sovranità economica e tecnologica degli Stati Uniti. In questa logica, i dazi non sono semplicemente una misura commerciale, ma uno strumento di difesa nazionale, volto a garantire che, in caso di conflitto o crisi internazionale, gli Stati Uniti dispongano di tutte le capacità industriali e tecnologiche necessarie per sostenere la propria autonomia strategica.
La nuova politica tariffaria di Trump 2025, dunque, si inserisce in una visione più ampia di “sicurezza economica integrata”, in cui la protezione delle filiere critiche e la riduzione delle dipendenze strategiche diventano parte di una dottrina di sicurezza nazionale, destinata a influenzare profondamente non solo la politica commerciale americana, ma anche le relazioni geopolitiche globali nei prossimi anni.

Nina Celli, 6 marzo 2025

 
04

I dazi hanno un impatto negativo sul commercio globale e sulle filiere produttive

CONTRARIO

Le tariffe imposte da Trump nel 2025, in particolare i dazi del 25% su Canada e Messico e del 20% sulla Cina, stanno già producendo effetti devastanti sulle catene di fornitura globali, con ripercussioni che vanno ben oltre i tre paesi direttamente coinvolti. Secondo l’indagine globale sul commercio 2024 di Thomson Reuters, il tema dominante per le aziende che operano nel commercio internazionale è proprio la disruption delle supply chain causata da tensioni geopolitiche e conflitti commerciali, con i nuovi dazi americani al centro di questa instabilità (“Thomson Reuters”, 2025).
Le aziende manifatturiere americane ed europee, in particolare quelle attive nei settori automobilistico, elettronico e farmaceutico, dipendono da filiere produttive globali altamente integrate, in cui materie prime e componenti attraversano più volte le frontiere nordamericane prima di diventare un prodotto finito. I dazi di Trump, secondo quanto riportato da NPR, rischiano di frammentare questa rete di produzione, spingendo molte aziende a rivedere i propri modelli di approvvigionamento, con costi di transizione elevatissimi (“NPR”, 2025).
Secondo il Global Trade Report di “Thomson Reuters”, il 72% delle aziende intervistate segnala che le disruption politiche — inclusi i dazi e le ritorsioni commerciali — sono diventate la principale fonte di rischio operativo per le supply chain globali. La revisione forzata delle catene di fornitura comporta costi aggiuntivi non solo per la ricerca di nuovi fornitori, ma anche per la certificazione di conformità, la gestione della logistica e l’adattamento ai diversi standard normativi dei paesi alternativi (“Thomson Reuters”, 2025).
Nel settore automotive, fortemente colpito dai nuovi dazi, le case automobilistiche americane dipendono in modo critico dalle fabbriche messicane, che forniscono motori, trasmissioni e sistemi elettronici. Il CEO di Ford, Jim Farley, ha dichiarato in un’intervista a NPR che l’applicazione di un dazio permanente del 25% sulle componenti messicane “soffocherà la competitività dell’industria automobilistica americana, aumentando i costi di produzione del 15-20% e costringendo le aziende a rivedere interamente i propri modelli di assemblaggio” (“NPR”, 2025).
Anche la filiera elettronica è pesantemente colpita. Il 60% dei semiconduttori utilizzati negli Stati Uniti viene prodotto in Asia, con la Cina che rappresenta una quota rilevante. I nuovi dazi spingono le aziende americane a cercare fornitori alternativi, ma la capacità produttiva di Taiwan, Corea del Sud e Vietnam è già al limite, creando strozzature che ritardano la produzione e aumentano i costi (“Thomson Reuters”, 2025).
L’effetto domino non riguarda solo le aziende americane. Secondo lo studio di Thomson Reuters, la frammentazione delle catene globali sta creando gravi problemi anche alle multinazionali europee, che dipendono da fornitori nordamericani e asiatici per la produzione di componenti strategiche. In particolare, il settore farmaceutico europeo importa dal Messico principi attivi e prodotti intermedi utilizzati nella produzione di farmaci destinati al mercato europeo. L’aumento dei costi e i ritardi logistici rischiano di compromettere l’intera filiera farmaceutica, con effetti a cascata sulla disponibilità di farmaci e dispositivi medici in Europa (“Thomson Reuters”, 2025).
In aggiunta, la logica delle ritorsioni commerciali innescata dai dazi americani crea un clima di incertezza cronica, che paralizza gli investimenti produttivi e spinge le aziende a congelare nuovi progetti. Canada e Cina, infatti, hanno già annunciato dazi di ritorsione su un ampio spettro di prodotti americani, dal grano ai macchinari industriali, aumentando ulteriormente la volatilità delle filiere agroalimentari e manifatturiere globali. Questa situazione alimenta una crescente propensione alla frammentazione dei mercati regionali, in cui ogni area economica cerca di ridurre la dipendenza da filiere globali e di sviluppare supply chain più corte e regionalizzate, con costi di duplicazione enormi (“NPR”, 2025).
Infine, la revisione forzata delle filiere globali richiede massicci investimenti in automazione e digitalizzazione, ma molte aziende, soprattutto PMI, non dispongono delle risorse finanziarie per affrontare questa transizione. Il rischio, sottolineato da Marianne Rowden, CEO di E-Merchants Trade Council, è che le PMI siano le principali vittime della nuova era di instabilità commerciale, venendo espulse dalle filiere globali a favore di grandi conglomerati in grado di sostenere i costi di compliance e riorganizzazione (“Thomson Reuters”, 2025).
In sintesi, le tariffe di Trump 2025 non stanno semplicemente riallocando la produzione, ma stanno innescando una frammentazione strutturale delle supply chain globali, con un aumento permanente dei costi e una riduzione della flessibilità produttiva globale. In un contesto di rallentamento economico globale, questa destabilizzazione delle filiere produttive rappresenta una minaccia sistemica per la crescita mondiale e per la competitività delle imprese su scala globale.

Nina Celli, 6 marzo 2025

 
05

I dazi generano entrate straordinarie per il bilancio federale

FAVOREVOLE

Le tariffe volute da Trump nel 2025 non rappresentano soltanto uno strumento di pressione commerciale o di protezione industriale, ma sono anche concepite come una leva fiscale destinata a generare entrate straordinarie per il bilancio federale. L’Amministrazione Trump, secondo quanto riportato dal Budget Lab di Yale, stima che il pacchetto di dazi su Canada, Messico e Cina potrebbe generare tra 1,4 e 1,5 trilioni di dollari di entrate tariffarie nette nel periodo 2026-2035. Questa cifra, calcolata su base convenzionale, tiene conto di un’applicazione continuativa dei dazi e di un flusso costante di importazioni soggette alle tariffe (“Budget Lab Yale”, 2025).
Tuttavia, il valore effettivo di queste entrate potrebbe essere inferiore di circa 300-360 miliardi di dollari se si considerano gli effetti dinamici di lungo termine sulle esportazioni, sulla crescita economica e sui redditi imponibili (“Budget Lab Yale”, 2025). Nonostante queste correzioni al ribasso, le tariffe rimangono comunque uno strumento di finanziamento fiscale senza precedenti nella storia economica americana recente, portando l’aliquota tariffaria effettiva al livello più alto dal 1943. Un rialzo così netto nelle entrate tariffarie permette a Trump di rilanciare la promessa di tagli fiscali per le famiglie della classe media e le piccole imprese, già cuore della sua piattaforma politica.
Le proposte di Trump includono l’eliminazione parziale dell’imposta federale sul reddito per i contribuenti con redditi inferiori ai 50.000 dollari annui, una mossa resa possibile proprio grazie alle entrate derivanti dai dazi (“NBC News”, 2025). Questo trasferimento fiscale, dal gettito tariffario ai tagli sulle imposte dirette, rappresenta un’operazione politica con un duplice obiettivo: da un lato, aumentare il consenso elettorale presso la classe media e i lavoratori, dall’altro riequilibrare la bilancia fiscale dopo anni di deficit crescente.
La Tax Foundation, nel suo ultimo rapporto, conferma che le tariffe previste per il periodo 2025-2034 potrebbero incrementare le entrate fiscali federali di 3,8 trilioni di dollari, anche considerando un’eventuale riduzione delle importazioni e delle ritorsioni commerciali da parte dei partner colpiti (Tax Foundation, 2025). Questo volume di entrate straordinarie consentirebbe non solo nuovi tagli fiscali, ma anche un potenziale aumento della spesa infrastrutturale, soprattutto in quei settori chiave per la reindustrializzazione e il reshoring, come trasporti, energia e telecomunicazioni.
I dazi, in questa prospettiva, diventano quindi un pilastro della strategia fiscale trumpiana, in cui il protezionismo commerciale e la riduzione delle imposte dirette sono visti come strumenti complementari per riequilibrare la struttura economica interna, spostando il carico fiscale dal lavoro e dai redditi alle importazioni estere. Questa logica di sostituzione fiscale, mai adottata in modo così esplicito da nessun’altra amministrazione moderna, trova giustificazione nella narrativa populista di Trump, che dipinge i dazi non come tasse pagate dai consumatori americani, ma come una sorta di tributo imposto alle economie straniere accusate di pratiche commerciali sleali.
Tuttavia, la sostenibilità di questo meccanismo fiscale è tutt’altro che garantita. Come evidenziato dal Budget Lab, i dazi, pur generando entrate significative nel breve termine, hanno un effetto depressivo sul PIL reale, con una riduzione dello 0,6% nel 2025 e un impatto permanente sul livello del PIL di 0,3-0,4% annuo nel lungo periodo, pari a 80-110 miliardi di dollari di output economico perso ogni anno. Questo calo della crescita potenziale riduce indirettamente la base imponibile complessiva, rendendo il sistema fiscale meno efficiente e dipendente da entrate straordinarie di natura volatile (“Budget Lab Yale”, 2025).
Inoltre, i dazi colpiscono in modo particolarmente regressivo i consumatori a basso reddito, che dedicano una quota maggiore del loro reddito disponibile a beni di largo consumo, spesso importati. Le famiglie nel secondo decile di reddito subiranno una perdita media di 1.100 dollari all’anno a causa dell’aumento dei prezzi, una percentuale quasi tre volte superiore a quella subita dal decile più ricco (“Budget Lab Yale”, 2025). Questo effetto regressivo rischia di neutralizzare i benefici dei tagli fiscali, soprattutto per le fasce più fragili della popolazione.
Nonostante queste criticità, Trump e i suoi consiglieri economici ritengono che la combinazione di entrate tariffarie e tagli fiscali offra un vantaggio politico ed economico netto, consolidando la percezione che l’amministrazione stia riallocando risorse dai paesi concorrenti a favore delle famiglie e delle imprese americane. L’idea di fondo è che le entrate tariffarie possano rappresentare un meccanismo di redistribuzione sovranista, trasferendo risorse dalla Cina e dai partner commerciali a beneficio diretto dei lavoratori e delle piccole imprese nazionali, rafforzando al tempo stesso la sovranità fiscale americana.
Il modello fiscale promosso da Trump con i dazi 2025, quindi, rappresenta un’innovazione nella politica economica americana: l’uso delle tariffe non solo come strumento di protezione commerciale, ma anche come fonte strutturale di finanziamento fiscale, con l’obiettivo dichiarato di tagliare le imposte interne e finanziare politiche economiche espansive. Un modello ambizioso, che tuttavia poggia su un equilibrio fragile tra protezione, crescita e consenso politico.

Nina Celli, 6 marzo 2025

 
06

I dazi potrebbero avere effetti devastanti sull’industria europea e sul Made in Italy

CONTRARIO

Le nuove tariffe introdotte da Donald Trump nel 2025 rappresentano una minaccia senza precedenti per il Made in Italy e per l’intero sistema industriale europeo. Con gli Stati Uniti che si confermano il primo mercato extra-UE per l’export italiano, l’applicazione di dazi del 25% su automobili, semiconduttori, alimentari e beni di lusso, rischia di creare un effetto devastante su settori chiave come moda, agroalimentare e meccanica di precisione (“Euronews”, 2025).
L’export italiano verso gli Stati Uniti, che nel 2024 ha superato i 70 miliardi di euro, è fortemente concentrato su prodotti ad alto valore aggiunto: vini e alcolici rappresentano il 30% dell’export agroalimentare, mentre la filiera dell’arredamento e del design è responsabile di una quota significativa delle vendite italiane negli USA (Fonte: Euronews, 2025). Secondo Federvini, l’associazione italiana degli esportatori di vino e spiriti, i nuovi dazi potrebbero causare la perdita di fino al 50% della quota di mercato detenuta dai prodotti italiani negli Stati Uniti, un impatto devastante per un settore che vale complessivamente oltre 2 miliardi di euro.
La logica protezionista di Trump, basata sul concetto di "America First", non prevede distinzioni bilaterali tra Italia e Stati Uniti: le tariffe sono applicate a livello di Unione Europea, impedendo all’Italia di negoziare eccezioni o deroghe nonostante i buoni rapporti diplomatici tra Giorgia Meloni e Trump (“Euronews”, 2025). Questo significa che le trattative commerciali e le eventuali ritorsioni da parte europea dipendono da decisioni comunitarie, rendendo l’Italia particolarmente vulnerabile, soprattutto considerando il peso dell’export italiano verso gli USA rispetto ad altri partner europei.
Un altro effetto collaterale riguarda la competitività internazionale del Made in Italy. Le tariffe rendono i prodotti italiani più costosi rispetto ai concorrenti interni e internazionali, favorendo la diffusione di prodotti di imitazione (il cosiddetto Italian Sounding) che sottraggono ulteriori quote di mercato ai prodotti autentici. Questo fenomeno, già stimato in 100 miliardi di euro all’anno di falso Made in Italy, è destinato a esplodere ulteriormente in un contesto in cui i prodotti originali diventano inaccessibili per i consumatori americani medi (“Sky TG24”, 2025).
Il settore automobilistico è altrettanto esposto. Le nuove tariffe su componenti e veicoli prodotti in Europa minacciano direttamente la competitività di colossi come Stellantis, che realizza una parte rilevante della sua produzione in Messico e Canada, ma utilizza componenti provenienti da Italia e Germania. Secondo una stima di “Il Fatto Quotidiano”, Stellantis potrebbe perdere fino a 3,4 miliardi di euro di utili operativi nel 2025 a causa delle tariffe e delle distorsioni nella supply chain nordamericana (“Il Fatto Quotidiano”, 2025).
L’effetto moltiplicatore di questa contrazione colpisce anche la subfornitura italiana, che esporta verso le linee produttive nordamericane componenti per motori, elettronica di bordo e materiali speciali. Le regioni italiane più esposte sono Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, dove si concentra la produzione di beni intermedi destinati all’export verso l’America (“Agenda Digitale”, 2025).
Il rischio di una guerra commerciale bilaterale tra UE e USA è concreto. Secondo Marco Simoni, direttore dell’Industrial Policy Hub della Luiss ed ex consigliere economico di due presidenti del Consiglio italiani, Trump potrebbe usare i dazi come strumento di pressione politica per ottenere concessioni dalla UE su temi extra-commerciali, come l’aumento delle spese per la difesa o regimi fiscali più favorevoli per le big tech americane (“Euronews”, 2025). In questo scenario, l’Italia rischia di essere doppiamente penalizzata, subendo sia il calo dell’export verso gli USA sia i contraccolpi di eventuali ritorsioni europee verso i beni americani.
Nel complesso, i dazi di Trump 2025 non solo minano la competitività immediata del Made in Italy, ma pongono anche le basi per una erosione strutturale della presenza italiana sui mercati nordamericani. Le aziende italiane, soprattutto le PMI del lusso, dell’agroalimentare e della meccanica, non dispongono della capacità finanziaria e logistica per spostare facilmente la produzione in altre aree geografiche, a differenza delle multinazionali tedesche o francesi. Questo significa che molte imprese rischiano semplicemente di perdere l’accesso al mercato americano, con conseguenze devastanti in termini di chiusure, perdita di posti di lavoro e delocalizzazioni forzate (“Corriere della Sera”, 2025).
In sintesi, la combinazione di barriere tariffarie, perdita di competitività e paralisi dei negoziati bilaterali trasforma le tariffe di Trump in una minaccia sistemica per l’intero modello export-oriented su cui si basa una larga fetta dell’economia italiana. Il rischio non è solo una contrazione temporanea delle esportazioni, ma una vera e propria esclusione strutturale dai mercati strategici, con effetti a catena su occupazione, investimenti e crescita.

Nina Celli, 6 marzo 2025

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