Nr. 316
Pubblicato il 27/03/2025

Green Deal europeo

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Nel dicembre del 2019, poche settimane dopo il suo insediamento, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha annunciato al Parlamento Europeo la nascita del Green Deal europeo. Non una semplice strategia ambientale, ma un vero e proprio programma politico-economico strutturale, paragonato per ambizione e portata al New Deal statunitense degli anni ’30.
L’obiettivo è quello di trasformare l’Europa nel primo continente climaticamente neutro entro il 2050, avviando una riconversione profonda dell’economia, della produzione, della mobilità, dell’energia e persino del modo in cui consumiamo e viviamo.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Con il Green Deal, l’UE può assumere la leadership tecnologica e rilanciare la competitività industriale

Il Green Deal ridefinisce la competitività come capacità di innovare, decarbonizzare e guidare la transizione tecnologica. L’industria non è più un ostacolo alla sostenibilità, ma un veicolo per realizzarla.

02 - Il Green Deal crea asimmetrie globali e concorrenza sleale, rendendo vulnerabile l’industria europea

L'UE impone a se stessa criteri ambientali e normativi molto stringenti, senza garanzie che gli altri facciano lo stesso. Ciò rischia di esporre l’industria europea a una concorrenza sleale.

03 - Una transizione ecologica anche sociale: equità, diritti e cittadinanza nel Green Deal europeo

Il Green Deal ha compiuto passi significativi nel porre le basi per una nuova alleanza tra politiche ambientali e coesione sociale.

04 - Il Green Deal sta vivendo una crisi di consenso e contestazioni sociali

In molti Paesi, tra i quali l'Italia, sindacati industriali, agricoltori e trasportatori accusano Bruxelles di voler imporre un modello di transizione “dall’alto”, senza considerare gli impatti sull'economia.

05 - Il Green Deal europeo è uno strumento di sovranità energetica e resilienza geopolitica

Dall’invasione russa dell’Ucraina, il Green Deal europeo ha fatto della transizione verde un progetto di sovranità strategica, economica e geopolitica.

06 - La transizione verde potrebbe indebolire la sovranità produttiva, con il rischio di deindustrializzazione

L'attuazione del Green Deal ha sollevato critiche da parte di settori industriali, economisti e governi nazionali, preoccupati per un possibile effetto collaterale: la deindustrializzazione dell’Europa.

07 - Il Green Deal è un motore di crescita verde e un investimento industriale strategico

Non si tratta più di scegliere tra “ambiente” ed “economia”, ma di realizzare un paradigma dove le due dimensioni si rafforzano a vicenda. Il Green Deal può essere un acceleratore dello sviluppo.

08 - Nell’attuazione del Green Deal vi sono squilibri tra Stati membri e incoerenze territoriali

L'esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che il Green Deal ha generato forti disomogeneità tra Paesi, creando una transizione a due velocità.

09 - Il Green Deal è a misura di PMI e territori, grazie a semplificazioni normative e coesione territoriale

Uno degli aspetti più criticati del Green Deal europeo è la sua complessità regolatoria. Ma la Commissione Europea ha risposto con una serie di semplificazioni normative e strumenti adattati alle PMI.

10 - Il Green Deal subisce allentamenti normativi e compromessi politici

Aggiustamenti, “pragmatici” o “necessari per salvaguardare la competitività industriale”, stanno sollevando dubbi sulla coerenza e credibilità dell’Unione Europea nel perseguire i suoi obiettivi climatici.

 
01

Con il Green Deal, l’UE può assumere la leadership tecnologica e rilanciare la competitività industriale

FAVOREVOLE

Per decenni la crescita economica è stata misurata in termini di quantità prodotta, volumi esportati o saldo commerciale. Ora, la nuova visione proposta dall’Unione Europea nel quadro del Clean Industrial Deal, ridefinisce la competitività come capacità di innovare, decarbonizzare e guidare la transizione tecnologica globale. In questo scenario, l’industria non è più un ostacolo alla sostenibilità, ma uno dei principali veicoli per realizzarla.
Secondo i dati diffusi nel marzo 2025 dal Competitiveness Compass della Commissione, l’UE ha avviato un piano per installare 100 GW di capacità rinnovabile all’anno, portare l’elettrificazione al 32% dei consumi entro il 2030 e raggiungere risparmi energetici annuali per 260 miliardi € entro il 2040. L’obiettivo è diventare la prima economia a impatto climatico zero, ma anche la più avanzata nella produzione di tecnologie verdi. È una risposta strutturale alla pressione esercitata dalla concorrenza internazionale — in particolare da Stati Uniti (con il piano IRA) e Cina — che rischia di attrarre investimenti europei e mettere in crisi la manifattura continentale.
In questo contesto, l’Italia ha assunto un ruolo rilevante nella rinegoziazione delle regole europee, in particolare nel settore dell’automotive. Il ministro Adolfo Urso ha guidato un fronte favorevole alla revisione anticipata del divieto sui motori termici, ottenendo che la valutazione sulla neutralità tecnologica fosse anticipata al 2025 e che venissero inclusi biocarburanti e idrogeno verde tra le tecnologie ammesse.
Questo ha permesso a case automobilistiche come Stellantis e ai fornitori italiani di componentistica (Anfia) di mantenere margini di competitività rispetto a competitor asiatici e americani (“La Repubblica”, 2025).
Ma non è solo l’automotive a essere coinvolto. Il Clean Industrial Deal prevede anche la creazione di un “fondo per l’energia accessibile” e la possibilità per gli Stati membri di utilizzare in modo più flessibile gli aiuti di Stato per la decarbonizzazione. In Germania, ad esempio, è stato approvato un piano da 5 miliardi di euro per i “Contratti per Differenza sul Carbonio” (CCfD), che compensano le imprese per i costi extra sostenuti nel passaggio a processi produttivi a basse emissioni (“Clean Energy Wire”, 2025). Un’iniziativa analoga è allo studio in Italia, in particolare per i settori energivori come acciaio, vetro e carta, con attenzione alle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO₂ (CCS).
Nel campo dell’alta tecnologia e delle filiere critiche, l’Italia partecipa a diversi progetti europei per la produzione di semiconduttori sostenibili, materiali avanzati e fotovoltaico di nuova generazione. Con oltre 1 miliardo di euro di investimenti pubblico-privati attivati tra il 2025 e il 2030, i partenariati Horizon Europe stanno consentendo a numerose imprese italiane di entrare nelle catene del valore europee della tecnologia green (“La Repubblica”, 2025).
La nuova competitività è anche una questione di semplificazione normativa e riduzione dei costi regolatori. Con l’introduzione di misure che esonerano l’80% delle PMI italiane dagli obblighi ESG complessi, l’UE ha creato un ambiente più favorevole all’innovazione industriale anche per le imprese di minori dimensioni.
Le imprese italiane — soprattutto nei distretti del Nord e nei poli dell’Emilia-Romagna, del Veneto e della Lombardia — stanno reagendo positivamente, sviluppando prodotti e processi che abbinano digitalizzazione, efficienza e sostenibilità.
Il Green Deal, riformulato nel Clean Industrial Deal, rappresenta così una strategia industriale a tutto tondo. Supera la logica degli obblighi climatici imposti dall’alto e diventa un programma di rilancio della manifattura europea, con una visione strategica che integra energia, ambiente e innovazione.

Nina Celli, 28 marzo 2025

 
02

Il Green Deal crea asimmetrie globali e concorrenza sleale, rendendo vulnerabile l’industria europea

CONTRARIO

Uno degli assunti fondamentali del Green Deal europeo è che la transizione ecologica, per essere efficace, debba essere globale. L’Unione Europea, pur rappresentando solo circa l’8% delle emissioni mondiali, è oggi il blocco economico che impone a se stesso i criteri ambientali e normativi più stringenti, spesso senza garanzie che gli altri attori globali facciano lo stesso. Questo approccio, se non accompagnato da adeguati strumenti di protezione e coordinamento internazionale, rischia di esporre l’industria europea a una concorrenza sleale, creando un effetto boomerang economico e geopolitico.
Secondo uno studio di Engie citato da “La Repubblica” nel marzo 2025, per rispettare l’obiettivo net zero al 2045 l’Unione dovrà ridurre le emissioni di circa il 4% all’anno fino al 2050. Oggi siamo fermi al 2%, e il ritmo richiesto è il doppio. Ma mentre l’Europa inasprisce le sue normative, gli Stati Uniti rallentano, la Cina accelera solo quando conviene e molti Paesi emergenti mantengono profili normativi estremamente deboli (“La Repubblica”, 2025).
L’Inflation Reduction Act americano, per esempio, prevede massicci incentivi alla produzione interna (oltre 400 miliardi di dollari), senza imporre requisiti ambientali vincolanti equivalenti a quelli europei. In Cina, il governo investe pesantemente in energie rinnovabili e veicoli elettrici, ma continua a subsidiare carbone e produzione a basso costo, mantenendo standard ambientali meno rigidi. Il risultato è che le imprese europee, sottoposte a regole ESG, ETS, direttive su rendicontazione e catena del valore, si trovano a competere su un piano inclinato, spesso costrette a delocalizzare, ridimensionare o chiudere.
In Italia, questo squilibrio si avverte in settori chiave come l’automotive, l’acciaio, la componentistica e il fotovoltaico. La produzione nazionale di pannelli solari, ad esempio, è in forte difficoltà a causa della saturazione del mercato europeo con prodotti asiatici a basso costo. Lo stesso vale per il settore delle pompe di calore, dove aziende come Argoclima hanno ridotto la produzione per mancanza di competitività, nonostante l’elevato valore tecnologico dei loro prodotti.
Il meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (CBAM), attivo in forma preliminare dal 2023, è stato presentato come uno strumento per riequilibrare le condizioni, imponendo dazi ambientali sulle importazioni più inquinanti. Tuttavia, il CBAM non copre tutti i settori sensibili, è ancora in fase sperimentale, e rischia di essere facilmente aggirabile.
Secondo Eurofer e Cefic, le associazioni europee dell’acciaio e della chimica, le misure attuali non sono sufficienti a proteggere la produzione interna né a favorire il reshoring di attività strategiche.
Altro elemento critico è l’assenza di coordinamento internazionale efficace. Gli accordi sul clima siglati a Glasgow (COP26) e Sharm el-Sheikh (COP27) hanno prodotto dichiarazioni di intenti, ma pochi impegni vincolanti e ancora meno strumenti di enforcement.
Nel frattempo, la Commissione europea continua a fissare obiettivi ambiziosi, ma senza coordinare politiche commerciali, industriali e fiscali. Questo rischia di creare una situazione paradossale: l’UE impone standard severi ai propri produttori, mentre importa prodotti a basso costo da Paesi che non rispettano quegli stessi standard. Il rischio strategico è evidente: perdere intere filiere produttive, ridurre l’autonomia industriale, aumentare la dipendenza economica da Paesi terzi e minare la fiducia dei cittadini europei nei confronti delle politiche ambientali.
L’Italia, con la sua struttura industriale basata su PMI esportatrici e filiere tecnicamente sofisticate ma non sempre capitalizzate, è particolarmente esposta a questo squilibrio. La mancanza di una strategia europea chiara per tutelare il “Made in Europe” verde rischia di indebolire il tessuto produttivo nazionale.

Nina Celli, 28 marzo 2025

 
03

Una transizione ecologica anche sociale: equità, diritti e cittadinanza nel Green Deal europeo

FAVOREVOLE

Il Green Deal europeo ha un impatto anche sulla giustizia sociale. La transizione ecologica non è solo una questione di efficienza energetica o innovazione tecnologica, ma anche di equità nell’accesso alle opportunità, di diritti delle comunità locali e di partecipazione democratica ai processi decisionali. Ed è proprio in questo ambito che il Green Deal ha compiuto uno dei suoi passi più significativi, ponendo le basi per una nuova alleanza tra politiche ambientali e coesione sociale.
Già nel suo impianto originario, la Commissione Europea ha incluso strumenti esplicitamente dedicati a garantire che la transizione verde non lasciasse indietro nessuno. Il più importante tra questi è il Just Transition Mechanism, un pacchetto da 100 miliardi di euro pensato per supportare le regioni e i lavoratori più colpiti dal passaggio a un’economia a basse emissioni. Il meccanismo include il Just Transition Fund, per investimenti in infrastrutture, riqualificazione professionale e inclusione sociale; la piattaforma per la transizione giusta, che offre assistenza tecnica alle amministrazioni locali; una linea di credito BEI per il clima e la coesione sociale, dedicata a progetti con forte impatto territoriale.
In Italia, il concetto di “transizione giusta” ha iniziato a radicarsi in territori storicamente segnati da monoculture industriali ad alta intensità ambientale. Aree come il Sulcis-Iglesiente in Sardegna, il distretto dell’Ilva a Taranto o le zone minerarie dismesse in Toscana sono state inserite nei piani nazionali di coesione e supporto, con progetti che integrano rigenerazione urbana, formazione tecnica e riconversione ecologica delle filiere produttive.
Ma il ruolo della società civile è stato altrettanto determinante. A marzo 2025, in vista del Consiglio europeo, oltre 40 associazioni e movimenti italiani hanno aderito all’iniziativa “Europa garanzia green”, scendendo in piazza per chiedere che il Green Deal non venga svuotato nei suoi contenuti sociali e ambientali. Tra i promotori vi erano WWF, Legambiente, Greenpeace, Slow Food, ASviS, a testimonianza di un’alleanza ampia e trasversale tra ambientalismo e giustizia sociale (“La Repubblica”, 2025).
Le richieste non riguardavano solo la tutela ambientale, ma anche l’equità intergenerazionale, il diritto alla casa e all’energia, la protezione dei territori più vulnerabili e una governance europea più trasparente e partecipativa. Il Green Deal, dunque, viene percepito come una piattaforma politica ampia, capace di tenere insieme ambiente, lavoro, salute e cittadinanza.
Anche sul fronte della finanza, si è aperto un nuovo spazio per l’inclusione sociale: le direttive sulla tassonomia verde e la rendicontazione ESG, pur pensate per le imprese, stimolano le banche e gli investitori istituzionali a valutare anche l’impatto sociale dei progetti. Alcune regioni italiane, come Emilia-Romagna e Toscana, stanno sperimentando fondi territoriali verdi con criteri ispirati alla sostenibilità ambientale e all’equità sociale, destinati a finanziare imprese a impatto positivo e cooperative energetiche locali.
In un’Europa che rischia di dividersi tra innovatori e ritardatari, tra grandi imprese globalizzate e piccole economie territoriali, tra cittadini entusiasti e altri disillusi, la giustizia climatica è il collante che può trasformare la sfida ecologica in un’opportunità politica condivisa. E il Green Deal può esserne lo strumento più potente, a patto che resti fedele alla sua promessa di non lasciare nessuno indietro.

Nina Celli, 28 marzo 2025

 
04

Il Green Deal sta vivendo una crisi di consenso e contestazioni sociali

CONTRARIO

Inizialmente, il Green Deal europeo era stato accolto con entusiasmo non solo dalle istituzioni, ma anche da ampie fasce della cittadinanza europea. Il progetto evocava una nuova idea di Europa: sostenibile, solidale, visionaria. Tuttavia, a cinque anni dalla sua presentazione, qualcosa sembra essersi incrinato. Le piazze non sono più solo quelle dell’attivismo ambientalista a favore della transizione, ma anche quelle di lavoratori preoccupati, agricoltori in rivolta, imprese smarrite e movimenti politici euroscettici che vedono nel Green Deal una minaccia più che una speranza.
Questo malcontento si è manifestato in modo evidente in Italia, dove il 15 marzo 2025, a Roma, decine di sigle ambientaliste — tra cui WWF, Legambiente, Slow Food, Greenpeace, ASviS — sono scese in piazza con lo slogan “Europa garanzia green”. La manifestazione, pur animata da spirito pro-europeo, ha denunciato i segnali di svuotamento del Green Deal, in particolare attraverso la diluizione dei target climatici per l’industria; le concessioni sul regolamento auto; il rallentamento dell’attuazione della finanza sostenibile (“La Repubblica”, 2025).
Ciò che preoccupa le ONG e molti cittadini è la percezione di una transizione condizionata dagli interessi industriali, poco attenta ai diritti delle persone e soggetta a continui compromessi politici. Il rischio, in questo scenario, è duplice: da un lato, si rischia l’erosione della legittimità democratica del progetto europeo; dall’altro, si genera frustrazione tra gli attori più impegnati nella sostenibilità, che vedono traditi i propri sforzi.
Il malcontento non è confinato al mondo ambientalista. In Francia e Germania, nei Paesi Bassi, in Polonia e in Italia, si sono moltiplicate le proteste dei sindacati industriali, degli agricoltori e dei trasportatori, che accusano Bruxelles di voler imporre un modello di transizione “dall’alto”, senza considerare gli impatti reali sulle economie locali. Le critiche si estendono anche all’assenza di un piano europeo per il lavoro verde: se è vero che il Green Deal promette la creazione di milioni di posti di lavoro sostenibili, mancano però strategie chiare per la riqualificazione dei lavoratori dei settori in crisi, creando una percezione diffusa di insicurezza occupazionale.
In Italia, queste tensioni si intrecciano con fragilità strutturali del mercato del lavoro e del sistema produttivo. L’assenza di un piano nazionale coerente sulla riconversione industriale, la frammentazione degli incentivi e la difficoltà di accesso al credito per le PMI alimentano una sensazione di esclusione, in particolare nelle regioni meridionali e nelle aree industriali in declino.
A ciò si aggiunge la difficoltà, da parte delle istituzioni, di comunicare con efficacia il senso della transizione. L’inflazione green, l’uso ambiguo del termine “sostenibilità” e la sovrapposizione di acronimi (ETS, CSRD, CBAM) hanno creato confusione nel dibattito pubblico, rendendo il Green Deal percepito come un insieme di norme tecniche, piuttosto che come un progetto politico con benefici tangibili per la vita quotidiana dei cittadini. Il rischio è che questo scollamento tra ambizione normativa e percezione sociale alimenti reazioni di rigetto, sfruttate da forze politiche populiste o negazioniste, che accusano l’UE di voler “imporre l’ecologismo dall’alto” a scapito del benessere delle persone.
In diversi Stati membri, si osserva un crescente utilizzo del Green Deal come bersaglio retorico nelle campagne elettorali, con narrazioni che mettono in opposizione “ambiente” e “lavoro”, “Europa” e “territori”, “transizione” e “giustizia”.
Il Green Deal ha quindi bisogno non solo di fondi e norme, ma anche di narrazioni condivise, processi partecipativi e leadership inclusive. Senza consenso sociale, anche il miglior disegno normativo rischia di restare lettera morta. Senza ascolto dei cittadini, la transizione ecologica può trasformarsi da opportunità storica a crisi politica.

Nina Celli, 28 marzo 2025

 
05

Il Green Deal europeo è uno strumento di sovranità energetica e resilienza geopolitica

FAVOREVOLE

La crisi energetica scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 ha rappresentato un punto di svolta per le politiche energetiche europee. Se fino a quel momento la transizione verde era percepita prevalentemente come una strategia climatica, con il Green Deal europeo essa si è trasformata in un progetto di sovranità strategica, economica e geopolitica. A partire dal 2023, infatti, il piano europeo ha assunto il ruolo di pilastro per la riduzione della dipendenza dai combustibili fossili e per la costruzione di un nuovo paradigma energetico.
Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA, 2025), l’UE ha registrato un calo delle emissioni del 37% rispetto ai livelli del 1990, con un’accelerazione notevole negli ultimi anni grazie all’espansione delle rinnovabili, all'efficienza energetica e a un minor utilizzo di carbone e gas naturale. Obiettivo dichiarato: raggiungere una riduzione del 55% entro il 2030 e la neutralità climatica al 2050 (EEA, 2025). Un traguardo che, come sottolineano i documenti ufficiali, non è solo ambientale, ma anche profondamente economico: nel solo 2023 l’UE ha risparmiato 60 miliardi di euro in importazioni fossili, principalmente grazie alla minor dipendenza da forniture russe.
Il Clean Industrial Deal presentato nel 2025 costituisce un’evoluzione del Green Deal in chiave industriale. Secondo l’analisi di “Sciences Po”, la strategia punta non solo a decarbonizzare l’economia, ma anche a rilanciare la produzione europea di tecnologie strategiche, riducendo la vulnerabilità a shock esterni e aumentando la resilienza interna. Il piano prevede un risparmio energetico stimato in 130 miliardi €/anno entro il 2030 e investimenti per oltre 100 miliardi € in clean tech, come pannelli solari, idrogeno verde, pompe di calore e batterie (“Sciences Po”, 2025).
L’Italia, sebbene in ritardo rispetto ai Paesi guida, sta cercando di allinearsi a questa traiettoria. Il programma europeo per l’installazione di 8,6 milioni di pompe di calore entro il 2030 vede il nostro Paese come uno dei principali beneficiari potenziali, anche se nel 2024 il settore ha attraversato una crisi: aziende storiche come Argoclima hanno dovuto ricorrere alla cassa integrazione per mancanza di domanda interna e incertezza normativa (“La Repubblica”, 2025). Tuttavia, la prospettiva di medio termine rimane positiva: il Green Deal europeo prevede strumenti di accompagnamento e fondi per la riconversione produttiva, soprattutto per i settori industriali più esposti.
Un altro elemento rilevante è la connessione tra energia e sicurezza strategica. La Commissione Europea, nelle linee guida del Clean Industrial Deal, ha evidenziato come la produzione di energia da fonti rinnovabili interne rappresenti oggi un tema di autonomia politica, riducendo la vulnerabilità dell’Unione a pressioni geopolitiche e garantendo prezzi più stabili nel lungo periodo. A questo si aggiunge la volontà di creare un mercato interno europeo dell’energia più integrato, con interconnessioni infrastrutturali tra Paesi membri e una governance comune.
In questo contesto, la sovranità energetica diventa un volano di crescita industriale, un catalizzatore per l’innovazione tecnologica e un baluardo contro la disgregazione politica interna. È anche un tema identitario: costruire un’Europa capace di produrre, consumare e immagazzinare energia verde senza dipendere da terzi significa rafforzare l’unità politica del continente.
Il Green Deal europeo — e in particolare la sua declinazione energetica — si conferma quindi come uno strumento multidimensionale: ambientale, industriale e strategico. In un mondo frammentato e instabile, l’indipendenza energetica dell’UE diventa una condizione per ogni altra forma di autonomia.

Nina Celli, 27 marzo 2025

 
06

La transizione verde potrebbe indebolire la sovranità produttiva, con il rischio di deindustrializzazione

CONTRARIO

Il Green Deal europeo è stato concepito come una strategia di lungo periodo per affrontare il cambiamento climatico, ridurre la dipendenza energetica e rilanciare l’economia attraverso l’innovazione sostenibile. Tuttavia, la sua attuazione ha sollevato critiche crescenti da parte di settori industriali, economisti e governi nazionali preoccupati per un possibile effetto collaterale: la deindustrializzazione dell’Europa.
In nome della transizione verde, molte imprese ad alta intensità energetica si sono trovate costrette a chiudere impianti storici, rilocalizzare produzioni o ridimensionare la propria operatività, con ricadute occupazionali e strategiche pesanti.
Un esempio è quello della fonderia Rheinwerk di Neuss, in Germania, un tempo il più grande produttore di alluminio primario d’Europa. Nel 2023, l’azienda ha interrotto la produzione a causa dei costi energetici elevatissimi, preferendo riconvertirsi al riciclo dell’alluminio, meno energivoro ma anche meno competitivo rispetto ai produttori asiatici. La transizione ha permesso di ridurre del 95% il consumo energetico e del 90% le emissioni, ma ha comportato la perdita di competenze, posti di lavoro qualificati e autonomia industriale. E soprattutto, ha aperto una questione politica: quali settori l’Europa può permettersi di abbandonare nella transizione ecologica? (“Politico”, 2025).
Secondo Mario Draghi, incaricato di redigere un rapporto sulla competitività europea, alcuni settori, come i pannelli solari, sono già “persi” rispetto alla Cina. Ma altri, come acciaio, alluminio, chimica, devono essere considerati “strategici” e sostenuti con politiche industriali ad hoc. Il problema è che la cornice attuale del Green Deal non offre risposte chiare, né criteri espliciti per selezionare quali comparti proteggere e quali accompagnare al declino.
In Italia, le preoccupazioni sono state espresse apertamente dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, che ha dichiarato: “Il Green Deal, per come è stato attuato finora, ha accelerato la deindustrializzazione del continente. L’industria europea, e quella italiana in particolare, non può sostenere i costi della transizione senza un vero supporto strategico” (“La Repubblica”, 2025).
Il caso dell’automotive è esemplare. L’Italia ha dovuto lottare per ottenere una revisione anticipata del regolamento UE che prevede il divieto di vendita di auto con motore termico dal 2035. Pur avendo ottenuto la possibilità di includere biocarburanti e idrogeno nel mix tecnologico, il clima di incertezza normativa e la mancanza di fondi per la riconversione hanno già portato a ritardi negli investimenti e a timori di esodo produttivo da parte delle multinazionali.
Un’altra criticità riguarda l’asimmetria delle regole. L’industria europea è chiamata a rispettare standard elevatissimi in materia ambientale e sociale, mentre concorrenti cinesi e statunitensi operano con vincoli molto inferiori. L’assenza di meccanismi di protezione efficace, come dazi ambientali o incentivi compensativi, rende la posizione dell’industria europea strutturalmente svantaggiata, secondo quanto denuncia anche il settore dell’acciaio e della chimica attraverso Eurofer e Cefic.
Il rischio è che, in assenza di politiche industriali coordinate, il Green Deal si trasformi in un acceleratore di dismissione produttiva, portando l’Europa a dipendere da forniture esterne per materiali, componenti e tecnologie chiave proprio mentre cerca di garantirsi autonomia strategica.
A livello sociale, la deindustrializzazione colpisce in modo asimmetrico le regioni già fragili, accentuando disuguaglianze territoriali e spingendo i lavoratori meno qualificati verso settori precari o disoccupazione. Questo effetto è particolarmente evidente in alcune aree italiane, come Taranto, Terni e Porto Marghera, dove la transizione è vissuta non come opportunità, ma come minaccia alla sopravvivenza economica.
Il Green Deal rischia dunque di indebolire la base industriale europea, compromettendo la sua autonomia economica, la sua resilienza strategica e la coesione sociale. Una transizione senza industria è possibile? Sì, ma non per un’Europa che voglia restare competitiva, sovrana e inclusiva nel XXI secolo.

Nina Celli, 27 marzo 2025

 
07

Il Green Deal è un motore di crescita verde e un investimento industriale strategico

FAVOREVOLE

Il Green Deal europeo vuole rispondere all’urgenza climatica ma vuole anche essere una leva economica. L’idea centrale è quella di trasformare la transizione ecologica in una occasione di crescita industriale, modernizzazione tecnologica e rilancio produttivo. Non si tratta più di scegliere tra “ambiente” ed “economia”, ma di realizzare un nuovo paradigma dove le due dimensioni si rafforzano a vicenda. Il Green Deal non è un freno allo sviluppo, bensì un acceleratore strutturale di lungo periodo.
Nel 2025, la Commissione Europea ha presentato il Clean Industrial Deal, un’evoluzione del Green Deal centrata su competitività e innovazione. Il piano prevede oltre 100 miliardi di euro di investimenti pubblici-privati destinati a settori strategici come l’idrogeno verde, le tecnologie solari, l’eolico offshore, la cattura e stoccaggio della CO₂ (CCS), la produzione di batterie e semiconduttori verdi (“Sciences Po”, 2025). L’obiettivo dichiarato è rilanciare l’autonomia strategica europea, riducendo la dipendenza da fornitori esterni — in particolare Cina e USA — e rafforzando la resilienza produttiva dell’Unione.
Uno degli strumenti più significativi di questo rilancio è rappresentato dalla creazione di nuove filiere industriali verdi, che spaziano dalla produzione al riciclo. Il caso della fonderia Rheinwerk in Germania è emblematico: l’azienda ha chiuso l’attività primaria per i costi energetici elevati, ma ha riconvertito l’impianto al riciclo dell’alluminio, riducendo i consumi del 95% e le emissioni del 90%. Questo dimostra che la riconversione green può essere un fattore competitivo, a patto che venga accompagnata da investimenti mirati e sostegni pubblici (“Politico”, 2025).
In questo scenario, anche l’Italia sta cercando di giocare un ruolo di primo piano. Nel marzo 2025, la Commissione ha annunciato tre grandi partenariati industriali europei sotto il programma Horizon Europe, con un finanziamento complessivo di oltre 1 miliardo di euro. L’Italia è coinvolta in modo diretto in tutti e tre: 240 milioni di euro per il fotovoltaico, per rilanciare la filiera europea dei pannelli solari; 250 milioni di euro per materiali innovativi, inclusi semiconduttori e materiali sostenibili per edilizia e trasporti; 30 milioni per il settore tessile, destinati alla transizione verso un modello circolare, con focus su Made in Italy e produzione locale (“La Repubblica”, 2025).
Questi investimenti rappresentano un’opportunità straordinaria per il tessuto produttivo italiano, in particolare per le PMI innovative e per i distretti industriali specializzati. L’obiettivo è duplice: agganciare la traiettoria europea della transizione verde e rilanciare la competitività tecnologica nazionale. Il Clean Industrial Deal prevede infatti, tra le misure principali, un fondo per l’energia accessibile, che mira a contenere i costi energetici per le imprese e a incentivare la domanda di tecnologie verdi — due aspetti cruciali per l’Italia, storicamente penalizzata da alti prezzi dell’energia.
L’Italia potrà inoltre beneficiare della revisione dei criteri di aiuto di Stato, che consentirà agli Stati membri di co-finanziare progetti verdi con maggiore flessibilità. È stato infatti sbloccato il piano tedesco da 5 miliardi di euro per i “Contratti per Differenza” nel settore industriale, con l’intento di compensare i costi della decarbonizzazione. Una misura simile è allo studio anche in Italia, sotto l’egida del nuovo piano nazionale per l’industria verde.
La creazione del nuovo Indice Green Deal europeo, basato su 26 indicatori di performance ambientale, economica e sociale, ha permesso di mappare i progressi dei singoli Stati membri. Paesi come Svezia, Estonia e Austria guidano la transizione, ma anche l’Italia sta recuperando terreno, soprattutto nei comparti innovativi e nei settori trainanti come l’agroindustria e l’automotive “pulito” (“Elsevier”, 2025).
Il Green Deal europeo, dunque, nella sua dimensione industriale, si configura come la più grande occasione di modernizzazione produttiva per l’Italia dagli anni ‘90.

Nina Celli, 27 marzo 2025

 
08

Nell’attuazione del Green Deal vi sono squilibri tra Stati membri e incoerenze territoriali

CONTRARIO

Uno degli obiettivi dichiarati del Green Deal europeo è quello di promuovere una transizione “giusta e inclusiva”, capace di coinvolgere in modo armonico tutti gli Stati membri, indipendentemente dalla loro dotazione infrastrutturale, dal livello di industrializzazione o dalla forza della loro governance ambientale. Tuttavia, l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che, nella realtà dei fatti, il Green Deal ha generato — o accentuato — forti disomogeneità tra Paesi, creando una transizione a due (o più) velocità.
Uno strumento utile per misurare questa frammentazione è il nuovo European Green Deal Index, sviluppato da Magdalena Olczyk e Marta Kuc-Czarnecka (“Elsevier”, 2025). L’indice, basato su 26 indicatori distribuiti su tre dimensioni — clima, ambiente e giustizia sociale — mostra come Paesi come Svezia, Estonia, Austria e Lettonia siano all’avanguardia nella transizione, mentre altri, tra cui Italia, Grecia e Romania, mostrano ritardi strutturali significativi. Il gap non riguarda solo i risultati finali, ma anche la capacità dei singoli Stati di accedere ai fondi europei, elaborare piani nazionali coerenti, implementare le riforme richieste e dialogare efficacemente con la Commissione. In Italia, ad esempio, la programmazione della transizione energetica si è scontrata con difficoltà burocratiche, incertezza normativa e una frammentazione amministrativa che rende difficile una governance coordinata tra Stato, Regioni e Comuni. Un caso emblematico è quello del piano per le pompe di calore: la Commissione europea punta a installarne 8,6 milioni entro il 2030, ma l’Italia ha registrato un crollo della domanda nel 2024, con aziende come Argoclima che hanno dovuto ricorrere alla cassa integrazione per mancanza di commesse. Gli operatori del settore citano tra le cause la fine del Superbonus 110%, la carenza di incentivi stabili e la concorrenza asiatica a basso costo, che rende meno competitiva la produzione nazionale (“La Repubblica”, 2025).
Un’altra fonte di disuguaglianza è rappresentata dalla capacità tecnica delle pubbliche amministrazioni locali. In molte regioni italiane, soprattutto del Sud, mancano figure professionali adeguate per scrivere progetti, monitorare l’impatto ambientale, gestire le procedure autorizzative, e questo compromette l’accesso a bandi europei e l’utilizzo efficace dei fondi del Green Deal e del PNRR. Secondo un’analisi del Dipartimento per la Coesione, a inizio 2025 erano ancora inutilizzati oltre 4 miliardi di euro stanziati per l’efficientamento energetico e la mobilità sostenibile nei piccoli Comuni.
In parallelo, i Paesi “leader” della transizione (Germania, Francia, Paesi Bassi) hanno strutture centralizzate e strumenti finanziari capaci di co-finanziare con risorse proprie i progetti europei, sfruttando appieno la flessibilità degli aiuti di Stato concessa dalla Commissione nel 2023. Questo crea una distorsione competitiva interna all’UE, per cui le imprese e le comunità dei Paesi più forti diventano più attrattive, mentre quelle dei Paesi più lenti vengono penalizzate.
A livello macroeconomico, ciò si traduce in una potenziale polarizzazione tra “centro verde” e “periferia grigia”, con effetti anche sull’integrazione politica europea. In Italia, crescono le voci critiche che denunciano l’imposizione di standard uguali per contesti disuguali, sostenendo che il Green Deal — così com’è concepito — favorisce chi ha già una base solida e penalizza chi parte in svantaggio.
Il rischio più profondo, dunque, non è solo quello di una transizione lenta, ma di una transizione ingiusta, dove i benefici si concentrano nei Paesi leader e i costi ricadono su quelli più fragili. In un’Unione già segnata da divisioni economiche e culturali, questa dinamica potrebbe alimentare euroscetticismo, resistenze politiche e disaffezione dei cittadini nei confronti delle politiche ambientali.

Nina Celli, 27 marzo 2025

 
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Il Green Deal è a misura di PMI e territori, grazie a semplificazioni normative e coesione territoriale

FAVOREVOLE

Uno degli aspetti più discussi — e talvolta criticati — del Green Deal europeo è la sua complessità regolatoria. I meccanismi di rendicontazione ESG, le direttive sulla tassonomia verde e i requisiti di trasparenza nelle catene del valore hanno suscitato preoccupazioni tra le piccole e medie imprese (PMI), che costituiscono il 99% del tessuto imprenditoriale europeo. In Italia, in particolare, dove le micro e piccole imprese rappresentano oltre il 94% delle imprese attive, l’ondata normativa è stata inizialmente percepita come un peso potenzialmente insostenibile. Tuttavia, nel 2025, la Commissione Europea ha risposto con un cambio di paradigma importante: il Pacchetto Omnibus, parte integrante del Clean Industrial Deal, introduce una serie di semplificazioni normative e strumenti adattati alle capacità delle PMI, rendendo la transizione ecologica più equa e realistica.
Secondo un’analisi pubblicata da “Il Sole 24 Ore” a marzo 2025, la revisione delle direttive CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) e CS3D (sulla due diligence di sostenibilità) ha ridotto in modo significativo la platea delle aziende obbligate a rendicontare informazioni ESG: l’obbligo sarà limitato alle imprese con oltre 1.000 dipendenti e soglie patrimoniali elevate. Si stima che questa misura escluderà circa l’80% delle aziende italiane oggi coinvolte (“Il Sole 24 Ore”, 2025).
Per le PMI escluse dagli obblighi, sarà disponibile uno standard volontario semplificato di rendicontazione (Vsme), sviluppato da EFRAG. Questo modello consentirà loro di fornire dati essenziali per accedere a finanziamenti o partecipare a filiere sostenibili, ma senza il peso burocratico delle grandi imprese. In questo modo, il Green Deal diventa un percorso di inclusione, e non di esclusione, per le piccole realtà produttive. È una svolta fondamentale per Paesi come l’Italia, dove il rischio di esclusione sistemica delle PMI dalla finanza sostenibile era diventato un tema politico e sindacale.
Oltre alla semplificazione normativa, il Green Deal rafforza la coesione territoriale, intesa come capacità di accompagnare le regioni più fragili o marginalizzate nella transizione verde. Il Just Transition Fund, integrato nei programmi nazionali di ripresa, finanzia programmi di riconversione industriale, formazione professionale e sostegno al lavoro in aree colpite dalla dismissione di settori ad alta intensità carbonica.
In Italia, diversi progetti pilota sono in corso nelle ex zone minerarie del Sulcis-Iglesiente e nei distretti manifatturieri del Nord-Est, con iniziative che combinano rigenerazione urbana, riqualificazione energetica degli edifici e promozione dell’economia circolare. L’introduzione di strumenti di microfinanza per la transizione e di sportelli regionali per l’accesso ai fondi UE ha ulteriormente facilitato il coinvolgimento delle realtà locali. Secondo i dati del Ministero delle Imprese, oltre 30.000 PMI italiane hanno già beneficiato di strumenti diretti o indiretti legati al Green Deal, sotto forma di credito d’imposta, contributi a fondo perduto o accesso agevolato al credito.
L’impatto della semplificazione è visibile anche sul piano delle filiere industriali strategiche: la possibilità, introdotta nel 2025, di limitare le responsabilità ESG solo ai partner diretti nelle catene del valore ha permesso a numerose imprese italiane del settore meccanico, tessile e agroalimentare di mantenere la propria integrazione nei mercati internazionali, senza dover affrontare oneri sproporzionati.
Dal punto di vista culturale, queste misure hanno inoltre favorito una nuova consapevolezza tra imprenditori e territori. Il Green Deal non è più visto solo come imposizione burocratica, ma come occasione per modernizzare i modelli di business, aumentare l’efficienza energetica, attrarre giovani lavoratori qualificati e differenziarsi in mercati sempre più orientati alla sostenibilità.
La traiettoria assunta nel 2025 dimostra che il Green Deal può essere uno strumento di inclusione economica e territoriale, a condizione che le politiche europee siano flessibili, proporzionate e orientate al supporto, non solo al controllo.

Nina Celli, 27 marzo 2025

 
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Il Green Deal subisce allentamenti normativi e compromessi politici

CONTRARIO

Il Green Deal europeo è stato accolto con entusiasmo nel 2019 come il progetto politico più ambizioso della storia dell’Unione in materia ambientale. Tuttavia, nel corso del tempo — e in particolare nell’ultimo biennio — si è assistito a una crescente serie di rallentamenti normativi, revisioni al ribasso e compromessi politici, che hanno progressivamente indebolito la portata trasformativa dell’iniziativa.
Questi aggiustamenti, spesso presentati come “pragmatici” o “necessari per salvaguardare la competitività industriale”, stanno però sollevando dubbi crescenti sulla coerenza e credibilità dell’Unione Europea nel perseguire i suoi obiettivi climatici.
Uno degli episodi più emblematici è la decisione, presa nel marzo 2025, di ammorbidire i target di emissione per il settore automobilistico. In origine, le nuove regole prevedevano un limite stringente di emissioni per il 2025, con sanzioni severe in caso di superamento. Tuttavia, sotto pressione di governi come l’Italia e la Germania — e in seguito a forti richieste dell’industria — la Commissione ha deciso che le emissioni saranno calcolate su una media triennale (2025–2027) anziché sull’anno singolo.
Questo “slittamento tecnico” permetterà ai costruttori di evitare fino a 15 miliardi di euro di multe, secondo le stime della DG CLIMA (“Politico”, 2025).
Secondo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, si tratta di una “scelta pragmatica” per evitare effetti recessivi su un settore chiave dell’economia europea. Ma le ONG ambientaliste non sono d’accordo: Transport & Environment, ad esempio, accusa la Commissione di “premiare i ritardatari” e di “lasciare l’Europa indietro rispetto alla Cina nella corsa alla mobilità elettrica”.
In Italia, il governo ha rivendicato con orgoglio il proprio ruolo in questa revisione normativa. Il ministro Urso ha sottolineato l’importanza di preservare l’industria nazionale e la necessità di includere biocarburanti ed e-fuels nel mix tecnologico ammesso dalla normativa. Anche se questi elementi possono effettivamente offrire margini di flessibilità, molti osservatori temono che la proliferazione di deroghe e revisioni renda meno prevedibile e meno credibile il percorso europeo verso il 2035, data simbolo dello stop ai motori termici.
Ma il fenomeno non riguarda solo il settore auto. Un altro esempio significativo è rappresentato dal cosiddetto Pacchetto Omnibus, presentato nel febbraio 2025 dalla Commissione come parte del Clean Industrial Deal. Il pacchetto include proposte per sospendere, modificare o alleggerire diverse normative ESG e ambientali, tra cui la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CS3D) e alcune disposizioni della tassonomia verde. Le modifiche prevedono, ad esempio, l’esenzione delle PMI da obblighi di trasparenza, la possibilità di limitare la verifica della filiera solo ai fornitori diretti e la riduzione della responsabilità civile per le aziende che non rispettano i criteri di sostenibilità. Sebbene alcune misure siano giustificate dalla necessità di evitare eccessi burocratici, le principali ONG europee — come WWF e Germanwatch — hanno lanciato l’allarme: si rischia di creare una “finanza verde fittizia”, dove le etichette non corrispondono a un reale impatto ambientale.
In Italia, queste semplificazioni sono state accolte con favore da molte associazioni di categoria, ma hanno suscitato preoccupazioni tra gli attivisti e gli osservatori del mercato finanziario, che vedono il rischio di un greenwashing sistemico. Secondo alcuni analisti, la credibilità dell’intera architettura ESG europea è in bilico se i parametri vengono adattati continuamente alle esigenze politiche contingenti.
A livello comunicativo, questa fase di compromessi ha indebolito il messaggio pubblico del Green Deal, rendendo più difficile mobilitare il consenso sociale attorno alla transizione ecologica. Laddove nel 2020 lo slogan era “Fit for 55”, oggi le priorità sembrano frammentate: competitività, difesa, stabilità energetica, ma non sempre clima. La stessa revisione del target climatico 2040 è slittata più volte per motivi elettorali e politici, lasciando un vuoto normativo che rischia di bloccare gli investimenti verdi.
Dunque, se è vero che una transizione sostenibile deve essere realistica e adattabile, è altrettanto vero che troppe eccezioni svuotano l’eccezione di valore. Senza una direzione chiara, vincolante e trasparente, il Green Deal rischia di diventare una promessa a geometria variabile, con effetti gravi sulla sua efficacia, sulla fiducia degli attori economici e sul sostegno dell’opinione pubblica.

Nina Celli, 27 marzo 2025

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