L’uso della forza per fini umanitari è giusto e legittimo in quanto principio etico della comunità internazionale

L’intervento umanitario è giusto al di fuori del diritto

La giustificazione morale dell’intervento coercitivo a fini umanitari è stata sostenuta da autorevoli esponenti di diverse correnti di pensiero dal dopoguerra ad oggi. In un paragrafo della sua Law of peoples dedicato a “La legge dei popoli come guida per la politica estera”, John Rawls, fra i più influenti filosofi politici dello scorso secolo, si chiede “se sia mai legittimo interferire con stati fuorilegge”, e - dopo aver introdotto una serie di distinzioni - conclude in questi termini: “Si darà mai l’occasione di un intervento di forza? Se i crimini contro i diritti umani sono di rilievo eccezionale e la società resta insensibile all’imposizione di sanzioni, un intervento di forza a difesa dei diritti umani risulterebbe accettabile e sarebbe all’ordine del giorno” (John Rawls, The Law of Peoples, pp. 94-95 (tr. it. Il diritto dei popoli, Edizioni di Comunità Einaudi, 2001, p. 125).

L’indifferenza e il non intervento da parte della comunità internazionale costituirebbe infatti un’ingiustizia, in quanto mancata implementazione di un principio morale universale. La stessa tradizione neo-kantiana tende coerentemente a qualificare l’intervento umanitario come “un dovere piuttosto che un permesso, e un dovere perfetto, piuttosto che uno imperfetto – un dovere che deriva dal rispetto per l’umanità, piuttosto che dalla carità” [Carla Bagnoli, Humanitarian Intervention as a Perfect Duty: a Kantian Approach, in “Humanitarian Intervention – Nomos” XLVII, edited by T. Nardin, M.S. Williams, New York 2006, pp. 117ss, TdR].

Uno Stato che persegua un fine umanitario attraverso l’uso della forza, in violazione formale del Diritto internazionale, allo stesso tempo agirà illegalmente quanto alla forma, ma in maniera legittima rispetto alla sostanza dei principi su cui poggia la comunità internazionale. Per Thomas Frank il dilemma relativo al rispetto dei diritti umani a livello internazionale deve porsi nei termini di gap fra legittimità e legalità, identificando questo ultimo con lo stretto legalismo positivistico e il primo con l’esistenza di un common sense of moral justice [senso comune di giustizia morale, TdR] (Cfr. Thomas M. Franck, "Interpretation and change in the law of humanitarian intervention", in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds.), Humanitarian Intervention: Ethical, Legal and Political Dilemmas, p. 216). Come ha sintetizzato Michael Glennon, fra i principali studiosi di Diritto internazionale e sostenitori della legittimità dell’ingerenza umanitaria, “se il potere viene usato per fare giustizia, il diritto seguirà” [Michael J. Glennon, The New Interventionism: The Search for a Just International Law, 87 Foreign Affairs, 1999, p. 7].

La difesa dei diritti umani implica quindi in sé una ridefinizione della “guerra giusta” di uno Stato contro un altro, possibile e necessaria quando solo l’uso della forza – anche unilaterale – rimanga l’unico strumento in grado di mettere fine a gravi e ripetuti crimini contro l’umanità. Come ha scritto Francesco Viola: “Se si prende sul serio il rispetto internazionale dei diritti umani, non si potrà evitare il legittimo ritorno della problematica della guerra giusta… La priorità dei diritti, come ridefinisce il principio di non ingerenza fondandolo sui diritti del popolo piuttosto che su quelli della sovranità dello stato e come trasforma il principio di autodeterminazione ritenendolo necessario per l'eliminazione della ingiustizia sociale e lo sviluppo di istituzioni giuste e non già sulla base della pura e semplice autonomia, così sembrerebbe fondare una nuova causa di legittimità della guerra accanto a quella dell'autodifesa (e a volte in concorrenza con questa)” (Francesco Viola, Guerra giusta e diritti umani, in Pace giusta e guerra giusta. Luci e ombre nel diritto internazionale contemporaneo, “Rivista di diritto costituzionale”, 2003, pp. 212-243).

Il filosofo americano Michael Walzer, fra i principali teorici della “guerra giusta” a fini umanitari, autore della celebre Just and Unjust Wars (New York: Basic Books, 1992) riassume così il suo argomento a favore dell’ingerenza umanitaria: "se i crimini sono reali, se essi includono il genocidio, o la messa in schiavitù su larga scala, o la pulizia etnica, e se la diplomazia non riesce a fermare quello che si deve fermare, allora l'intervento militare è sempre giustificato" (Walzer: “L'idea di guerra giusta non è per niente abbandonata”, Michael Walzer intervistato da Giancarlo Bosetti, “Reset.it”, 7 maggio 1999 ).

Un diverso argomento giustifica l’uso della forza illegale finalizzato al rispetto sostanziale di principi contenuti nel diritto internazionale e alla riforma di quest’ultimo necessaria a garantire il loro pieno rispetto. E’ la posizione espressa da Buchanan, secondo cui la dimensione etica debba svolgere una funzione fondativa rispetto al Diritto internazionale [Allen Buchanan, Reforming the international law of humanitarian intervention, in J.L. Holzgrefe and R.O. Keohane (eds), cit., pp. 130-7]. Rifiutando allo stesso modo un’etica sostanziale in grado di giustificare universalmente l’ingerenza umanitaria, Ignatieff fornisce una legittimazione “pragmatista” della stessa, secondo la considerazione “che gli esseri umani sono a rischio della propria vita se sono privi di un minimo di libera capacità di azione; che la stessa capacità di azione necessita di protezione mediante norme condivise internazionalmente; che queste norme devono autorizzare gli individui a opporsi e a resistere a leggi e disposizioni ingiuste all'interno del loro stato; e, infine, che quando tutti gli altri rimedi sono stati esauriti, gli individui hanno il diritto di appellarsi ad altri popoli, nazioni ed organizzazioni internazionali per trovare appoggio nella difesa dei loro diritti” (cit. in Luca Baccelli, Il fondamentalismo pragmatico: Michael Ignatieff e i diritti umani, “Jura Gentium”, 2005 ).

Il carattere fondativo della “guerra giusta”, sebbene illegale sul piano del Diritto internazionale, è stato evidenziato dal giurista Antonio Cassese a proposito dell’intervento della NATO in Kosovo. La guerra umanitaria unilaterale è un atto illegale ma fondativo di una “una nuova legittimazione all'uso della forza nel diritto internazionale”, se sussistono condizioni ben precise, quali “1) lo Stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo, massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali; 2) il Consiglio di Sicurezza ha ripetutamente invitato quello Stato a porre termine ai massacri, 3) è stata tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica; 4) l’uso della forza è sostenuta da un gruppo di Stati e non da una singola potenza e la maggioranza degli Stati dell’Onu non è contraria a tale uso; 5) il ricorso alla guerra non ha alternative rispetto alla prosecuzione dei massacri da parte dello Stato responsabile” (Antonio Cassese, Le cinque regole per una guerra giusta, “I'Unità", 9 aprile 1999).

Nello stesso anno, Habermas ha riconosciuto alla stesso modo la necessità dell’uso della forza per arrestare catene di abusi e delitti contro una comunità di individui assaltati, privati di ogni status giuridico, così che la legittimazione dell’intervento viene dedotta da princìpi di diritto internazionale vincolanti erga omnes, che trascendono la stessa Carta delle Nazioni Unite [Juergen Habermas, Umanità e bestialità: una guerra ai confini tra diritto e morale, in AA.VV., L’ultima crociata?, “Reset, 1999, p. 74 sgg.].

Giuseppe Montalbano, 9 luglio 2016

L’intervento umanitario è uno strumento ideologico

Porre un principio di legittimazione delle guerre al di sopra e oltre il Diritto internazionale significa creare una spazio di giustificazione morale – in nome dei diritti umani - al predominio delle potenze in grado di influire maggiormente sull’ordine mondiale.

Come scrive Antonio Baldassarre nel suo Globalizzazione contro democrazia (Laterza, 2002) “il principio ordinativo della società globale - cioè il rispetto dei diritti umani - comporta [...] la più piena rilevanza per il nomos globale di ciò che accade all’interno dei singoli Stati e la massima permeabilità di questi ultimi di fronte ad autorità internazionali o a forze esterne che intendano far valere i criteri di ordine conferenti legittimità alla società globale, e cioè la libertà individuale e i diritti umani” (ibidem). In questo modo la difesa dei diritti umani finirebbe per essere imposta da chi – in un vuoto politico e giuridico - ha la forza per sostituire il governo globale che non c’è. La cancellazione del Diritto internazionale, insieme alla sua incerta e arbitraria applicazione, preludono a una situazione mondiale nella quale i paesi più forti avranno la possibilità di prevaricare sui più deboli. Quando il diritto è negato allora si apre la strada all’uso indiscriminato della forza, che è esattamente l’opposto del diritto.

Sul carattere strumentale e ideologico della retorica dei diritti umani si è soffermato più volte Danilo Zolo, secondo cui “[i]l ricorso ai principi di un'etica internazionale di carattere universalistico e deontologico è nella grande maggioranza dei casi un riferimento strumentale - tipico è il caso dell'etica militare di Michael Walzer - a premesse normative influenzate da valutazioni politiche, da credenze religiose e da universi simbolici molto diversi fra loro... Quella che in Occidente in modo tutto particolare entro la cultura anglosassone, è stata chiamata etica internazionale è in realtà una superfetazione della tradizione giudaico-cristiana assunta come ordinary morality o come common sense of moral justice”. Un simile presupposto common sense non è in realtà sostenuto, argomenta Zolo, da riferimenti normativi adeguati, né da alcuna consuetudine, laddove il Diritto internazionale “nonostante la sua scarsa efficacia operativa, si presenta come un ordinamento giuridico consolidato, dotato di fonti normative autorevoli come gli Stati nazionali, articolato in istituzioni e sorretto da un diffuso riconoscimento e consenso internazionale” . Contro il diritto le potenze si ergono così a difesa dei diritti umani come “custodi morali” dell’ordine internazionale: “L'ideologia occidentale della humanitarian intervention, con la sua pretesa di diffondere nel mondo intero i valori occidentali - e tali sono i valori sottesi alla dottrina dei diritti umani e della democrazia -, coincide in realtà con una strategia generale di promozione di "interessi vitali" dei singoli Stati "umanitari" - o di alleanze fra Stati -, presentati come interessi della comunità internazionale e che dovrebbero pertanto prevalere sul particolarismo delle sovranità nazionali” (Danilo Zolo, L’intervento umanitario armato fra etica e diritto internazionale, “Jura Gentium” 2005 .

Nella sua indeterminatezza e manipolabilità, il richiamo a un’etica internazionale si presta in quanto tale a essere strumentalizzata dagli Stati in grado di determinare maggiormente la politica internazionale: come ha spiegato Edward Carr “non è la politica internazionale che può essere concepita come una funzione dell'etica, ma è l'etica internazionale che si presta a essere usata come una funzione della politica nazionale” (Edward H. Carr, The Twenty Years' Crisis 1919-1939. An introduction to the study of international relations, “spa.zju.edu.cn”, consultato il 24 giugno 2016).

Ancora Zolo illustra tutta la pericolosità di concepire il carattere normogenetico della guerra umanitaria, sostenuta da Glennon e da Cassese, tale che “un'aggressione internazionale, per il semplice fatto che i suoi autori l'abbiano chiamata umanitaria, può essere considerata legittima e divenire eo ipso fonte di un nuovo assetto del diritto internazionale” (Danilo Zolo, Così si distrugge il cuore del diritto, L'Unità, 17 aprile 1999).

Invitato come voce “fuori dal coro” in occasione della sessione delle Nazioni Unite che avrebbe licenziato il documento sulla “Responsibility to protect”, Jean Bricmont e Noam Chmonsky hanno riassunto il contenuto essenziale delle critiche mosse contro l’ingerenza umanitaria.

Come ha dichiarato il fisico belga Bricmont in un’intervista a proposito, la “responsabilità di proteggere è come una nuova versione dell'intervento umanitario, ma formulato in maniera compatibile rispetto la Carta delle Nazioni Unite... Il diritto di intervento umanitario è un concetto ideologico, introdotto dall'Occidente, senza alcuna base giuridica. Questo concetto è stato respinto da tutti i paesi del sud”. Lo studioso americano non è in quanto tale “contrario all'idea di prevenire catastrofi umanitarie attraverso sforzi diplomatici. Ma ciò che mi sembra problematico sono gli effetti ideologici: si rafforzerà ulteriormente l'idea del diritto di ingerenza, anche se, giuridicamente, non è quanto si dice nella responsabilità di proteggere. E in secondo luogo, come già rilevato dalla Bolivia e dal Venezuela, nulla è detto circa la situazione intollerabile in cui si è lasciata la popolazione di Gaza”. La responsabilità di proteggere è quindi “una sorta di astuzia giuridica che tenta di inserire il diritto di ingerenza nel diritto internazionale, mentre i principi del diritto internazionale respingono con fermezza le interferenze… Il problema è che tutto ciò crea un maggior divario ideologico tra Nord e Sud, rafforza, se possibile, la buona coscienza occidentale e crea l'immagine di Epinal, dove la complessità dei problemi del mondo è ridotta all'azione di pochi leader (Mugabe, Ahmadinejad, Al Bashir, Chavez, Castro, ecc.) che non avrebbero altro desiderio che quello di ‘rimanere al potere’, ‘violare i diritti umani’ o commettere ‘genocidi’. Il mondo ha bisogno soprattutto di pace, disarmo e distensione. E per questo, dobbiamo prima liberarci delle semplificazioni del pensiero occidentale” (Silvia Cattori, Legittimazione dell’“ingerenza umanitaria?”, Intervista a Jean Bricmont, “Marx XXI”, 29 ottobre 2009).

Fra i più influenti intellettuali americani, Noam Chomsky ha analizzato a fondo il carattere retorico e strumentale del discorso sull’interventismo umanitario come paradigma di un nuovo modello di imperialismo da parte degli Stati Uniti. Se “dalle origini della guerra fredda c’è sempre stata una giustificazione riflessiva per ogni ricorso alla forza e al terrore, la sovversione e lo strangolamento economico” da parte degli Stati Uniti, con la caduta dell’URSS “nuove giustificazioni dovevano essere escogitate”: quelle di “responsabilità di proteggere” e “intervento umanitario” si sarebbero presto imposte come i pilastri ideologici del nuovo discorso occidentale (Noam Chomsky, Humanitarian Imperialism: The New Doctrine of Imperial Right, “Monthly Review”, settembre 2008). Un discorso sostanzialmente neo-colonialista, come ha evidenziato in più occasioni Tariq Ali: in base alla “necessità umanitaria” la questione si semplifica ponendo da una parte un nemico “impegnato a commettere crimini”, mentre gli Stati Uniti “amministrano soltanto la necessaria punizione” allo Stato criminale che “deve essere sconfitto” e a cui viene “negata la sovranità” (Tariq Ali, America's selective vigilantism will make as many enemies as friends, “The Guardian”, 6 settembre 2011 ).