Il vegetarianismo è una scelta ecologica

L'allevamento di animali produce un alto tasso di inquinamento

La Vegetarian Society riporta dei dati emblematici sul tasso di inquinamento prodotto dall'allevamento degli animali che finiranno sulle tavole dei consumatori. Nel dettaglio: “gli allevamenti di bestiame sono responsabili almeno del 20% di tutte le emissioni di gas serra provenienti dalle attività umane; il metano ha 25 volte l'impatto sul riscaldamento globale dell'anidride carbonica e una singola mucca può produrre 500 litri di metano al giorno; mucche e pecore sono responsabili del 37% del metano totale prodotto dall'attività umana; l'anidride carbonica è emessa quando le foreste sono abbattute per i pascoli e per la crescita del grano per il foraggio degli animali” (Reduce your carbon footprint, “Vegsoc.org”, consultato il 27 agosto 2015, TdR).

Dei dati molto simili sono riportati nel Livestock's Long Shadow, corposo documento pubblicato dalla FAO nel 2006, che si occupa dell'impatto ambientale delle zootecnie. Gli autori denunciano che “le questioni ambientali legate all'allevamento non hanno generalmente ricevuto adeguate risposte istituzionali […] Sebbene usualmente si consideri come parte dell'agricoltura, in molti luoghi la produzione da allevamento è cresciuta nello steso modo dell'industria” (TdR, ibidem, p.4) Nell'introduzione si chiarisce il nesso tra l'inquinamento prodotto dagli allevamenti di bestiame (si parla del 18% di gas serra, 9% di emissioni atropogeniche di anidride carbonica e 37% di metano, 64% di ammoniaca) e il cambiamento climatico. Gli autori richiamano gli studi del UNFCCC (The United Nations Framework Convention on Climate Change) che si è occupato direttamente di stabilire la concentrazione dei gas responsabili del cambiamento climatico nell'atmosfera. La produzione di bestiame emette nell'atmosfera tutti e tre i gas maggiormente coinvolti: anidride carbonica, metano e ossido di azoto. “L'attività dell'allevamento emette considerevoli quantità di questi tre gas. Emissioni dirette vengono dai processi di respirazione degli animali in forma di anidride carbonica. I ruminanti, e in misura minore anche i monogastrici, emettono metano come parte dei loro processi digestivi […]. Il concime animale inoltre emette gas come metano, ossido di azoto, ammoniaca e anidride carbonica. […] Il bestiame, inoltre, incide sull'equilibrio di carbonio delle terre usate per pascolo o per il raccolto di foraggio, e questo indirettamente contribuisce a rilasciare grandi quantità di carbonio nell'atmosfera [...] inoltre gas serra sono emessi dalla produzione di foraggio alla lavorazione e alla vendita dei prodotti da allevamento” (TdR, ibidem, p. 83).

Mangiare carne non è sostenibile

L'impatto degli allevamenti è notevole anche dal punto di vista della deforestazione che richiede. Sono riportati dei dati relativi alla foresta amazzonica in Brasile: dai rilevamenti fatti con l'aiuto delle immagini satellitari del National Institute for Space Research “il 62,2% delle terre disboscate sono usate come pascolo per bovini […] e solo il 4,9% è coltivato. Questo significa che la più grande foresta pluviale del mondo sta finendo, distrutta prevalentemente per alimentare bovini” (Heinrich Böll Foundation, Meat Atlas, 2014, TdR).
Analoghi sono i risultati dello studio condotto dai ricercatori della Cornell University di New York (David Pimentel e Marcia Pimentel) e pubblicati nell'articolo dal titolo: Sustainability of meat-based and plant-based diets and the environment (“The American Journal of Clinical Nutrition”, 2003). Nelle conclusioni, pur affermando che sono negativi sia gli effetti delle diete carnivore che latto-ovo-vegetariane, si sottolinea che “le diete basate sulla carne richiedono più energia, terreni e risorse idriche rispetto alle diete latto-ovo-vegetariane. In questo senso le diete latto-ovo-vegetariane sono più sostenibili delle comuni diete americane basate sulla carne” e ciò è spiegato dall'assunto che la peggior minaccia per la sopravvivenza delle risorse naturali è la crescita della popolazione che, in America, è stimata dover raddoppiare fino a 570 milioni nei prossimi settant’anni, pertanto questo “porterà grande stress alle già limitante risorse di energia, terra e acqua. Queste risorse vitali dovranno essere divise tra un gran numero di persone”. (ibidem, p.633, TdR).
Un sunto di questi dati è estratto dallo studio condotto nel 2008 dall'Ecological Economy Research di Berlino che “ha dimostrato che una dieta vegetariana riduce della metà l’impatto del gas serra rispetto a una dieta normale con carne e una dieta vegana dimezza quello di una dieta vegetariana. Una dieta vegana necessita 4 volte meno di acqua di una dieta vegetariana e 10-13 volte meno di una normale dieta con carne”. (Vegan: ricette etiche straordinariamente salutari, “ItalianStyle Magazine”, consultato il 27 agosto 2015).

Il vegetarianismo aiuta a preservare l'acqua

Un altro aspetto da tener in considerazione nell'analisi dell'impatto negativo delle industrie che allevano animali a fini commerciali e alimentari è proprio la quantità di acqua utilizzata. Per i sostenitori del vegetarianismo evitare di mangiare carne avrebbe effetti positivi ai fini della preservazione dell'acqua; e le condizioni dell'attuale esiguità di acqua per una larga fascia della popolazione terrestre e la previsione circa la sua sempre maggiore ristrettezza, rinforzano queste tesi. Secondo la Vegetarian Society “la produzione di carne, specialmente il nutrimento per i bovini, è un processo ad alta intensità di acqua. La produzione di bestiame è responsabile di più dell'8% del globale consumo umano di acqua; si stima che l'acqua richiesta per produrre un chilo di manzo va dai 13.000 litri ai 100.000 litri. La quantità d'acqua richiesta per produrre un chilo di grano è tra 1.000 – 2.000 litri” (Save Water, “Vegsoc.org”, consultato il 27 agosto 2015, TdR).
Durante la settimana mondiale dell'acqua del 2012 gli scienziati del SIWI (Stockholm International Water Institute), nell' Annual Report 201, sottolineano che nell'alimentazione occidentale solitamente assume il 20% di proteine dalla carne ma se questo non scende almeno al 5% entro il 2050 non ci sarà disponibilità di cibo per tutti. Anders Jägerskog, direttore dei Servizi di Conoscenza del SIWI, afferma che “abbiamo bisogno di un nuovo rimedio per nutrire il mondo in futuro […] adottare una dieta vegetariana è una opzione per aumentare la quantità di acqua disponibile per produrre più cibo in un mondo con un clima sempre più irregolare. Il cibo proveniente da proteine animali consuma da 5 a 10 volte l'acqua di una dieta vegetariana” (Alice Orszulok, Will we be restricted to a vegetarian diet by 2050? “Science illutrated”, 5 settembre 2012, TdR).

Una dieta vegetariana riduce il cambiamento climatico

Anche la LAV si schiera a favore del cambiamento alimentare verso una dieta vegetariana ai fini della salvaguardia dell'ambiente. Tra le sue fonti riporta lo studio svolto da F. Hadenus, S. Wirseniius a D.J.A.Johansson, The importance of reduced meat and dairy consumatine for meeting stringent climate change targets, (pubblicato su “Climate change”, 2014) nel quale si conclude che “solo supponendo un ridotto consumo di carne e prodotti lattiero caseari, troviamo che i livelli di emissioni agricole non ricopriranno più della metà delle emissioni totali nell'atmosfera nel 2070. Concludiamo dunque che i cambiamenti alimentari sono cruciali per raggiungere l'obiettivo dei 2°C” (TdR, p.89). Nel post pubblicato sul sito della LAV, inoltre, Paola Segurini, responsabile Settore Veg, riporta le parole del responsabile della ricerca Fredrik Hedenus: “Abbiamo dimostrato che la riduzione del consumo di carne e latticini è la chiave per portare l’inquinamento climatico da allevamento e agricoltura ai livelli di sicurezza. Ma Il cambiamento della dieta può richiedere molto tempo. Dobbiamo iniziare a pensarci subito” (Paola Segurini, Cambiare menù per salvare la terra. Noi siamo pronti e tu? “lav.it”, consultato il 2 agosto 2015).

Un importante documento che conferma la necessità di ridurre il consumo di carne ai fini della salvaguardia del pianeta, è lo studio a firma di Lord Nicholas Stern, economista e accademico inglese, pubblicato nel 2006. Prevedendo che i costi per il riscaldamento globale arriveranno a 5,5 trilioni di euro, l'autore sostiene che “le attività umane riversano ogni anno 45 miliardi di tonnellate di gas serra, con ritmo crescente […] È importante che si ragioni di quello che stiamo facendo e questo include anche una riflessione sulla nostra alimentazione”. Recuperando i dati delle Nazioni Unite, la “produzione di carne è una delle fonti principali dei gas serra e, nello specifico, è responsabile del 18 % delle emissioni globali di anidride carbonica. Di conseguenza: per abbattere quella percentuale bisogna modificare la dieta quotidiana, dice Lord Stern, e bisogna che i governi si accordino per alzare i costi dei cibi 'inquinanti'. Scelta impopolare” (Cavalera Fabio, Il Lord che studia il clima “Diventate vegetariani”, “Il Corriere della Sera”, 28 ottobre 2009).

Simili preoccupazioni sono espresse da Jeremy Rifkin, autore di Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne (testo del 1992, tradotto in italiano per la Mondadori nel 2001). In un’intervista, pubblicata su “Il Sole 24 ore” dichiara: “Il fatto è che il metano prodotto dagli allevamenti di bestiame è uno dei fattori principali dei cambiamenti climatici. Il gas metano ha un effetto 23 volte superiore al CO2 come fattore di riscaldamento del globo e ovviamente la produzione e il consumo di carne determinano in modo altrettanto significativo anche le emissioni di biossido di carbonio, di CO2.
Quindi considerata tutta la produzione e il consumo di carne nel mondo, l'impatto sul clima è superiore a quello di tutti i mezzi di trasporto del pianeta. Va notato che la zootecnia utilizza attualmente il 28% della superficie terrestre non ricoperta dai ghiacci – parliamo di 1,3 miliardi di bovini - e che questi consumano una fetta enorme delle risorse del pianeta. Non penso che l'opinione pubblica se ne renda conto ma è in atto una grave crisi alimentare che affligge i paesi in via di sviluppo. Con l'aumento del costo dell'energia, sono aumentati anche i prezzi dei prodotti alimentari e nel corso degli ultimi due anni la scarsità di cibo ha provocato tumulti in 30 paesi. C'è gente che muore di fame. Ci sono 850 milioni di persone che soffrono di denutrizione. Nessuno si rende conto della scarsità di terreni coltivabili rimasti a disposizione di 6 miliardi di persone – 1/3 di questi terreni, quasi il 40%, vengono oggi utilizzati per produrre cereali per gli animali anziché cibo per l'uomo. C'è da non crederci! Alcuni paesi dove la gente muore letteralmente di fame producono grandi quantità di cereali destinati all'esportazione come alimenti per animali, affinché i ricchi consumatori dei paesi sviluppati possano mangiare ai livelli più alti della catena alimentare, carne di bovini alimentati con cereali. Paradossalmente poi noi moriamo per le malattie del benessere causate dalla carne grassa di questi bovini, come cancro, infarto, ictus e diabete di tipo 2” (Intervista a Jeremy Rifkin, “Il Sole 24 Ore”, consultato il 27 agosto 2015).

La zootecnologia non minaccia la Terra

Nel febbraio 2010 la Confagricoltura di Mantova ha organizzato un convegno sulle emissioni gassose provenienti dalle attività di allevamento dal titolo, La zootecnia minaccia la Terra? Tra i partecipanti Giulio Zucchi (docente dell'Università di Bologna) critica i dati del rapporto della FAO del 2007 giudicandoli “fantasiosi [...] perché da soli non dicono nulla e non sono applicabili alla realtà europea ed italiana. La verità è che l'allevamento italiano produce le più basse emissioni di CO2 per unità di prodotto di tutta l'Unione europea, meno anche di Germania e Olanda. Fra l'altro, ha detto il professore bolognese, che studi effettuati da eminenti studiosi italiani hanno dimostrato come l'allevamento intensivo, tanto discusso e bistrattato, a conti fatti risulta meno inquinante di quello estensivo, che invece necessita di maggiori spazi e fornisce più rifiuti a tutti i livelli” (La terra è malata? Non è la zootecnia ad inquinare, “Confagricoltura mantova.it”, 19 febbraio 2010).
L'argomento che la produzione di carne sia tra i maggiori responsabili di emissione di CO2 è criticato anche da François Tomei, direttore di Assocarni, che definisce i dati del rapporto LAV “Una sintesi dei peggiori luoghi comuni, priva di basi scientifiche serie. Si fa confusione tra carni bovine, avicole e suine che hanno logiche completamente diverse. Il patrimonio bovino è in diminuzione da anni. Le emissioni aumentano” (Margherita de Bac, Gli animalisti: mangiare carne inquina la Terra, “Il Corriere della Sera”, 20 giugno 2012).

Le tecniche agricole sono più inquinanti dell'allevamento

Se è vero che gli allevamenti delle fattorie americane inquinano le acque più delle altre industrie, secondo Keith Lierre, autrice del testo The Vegetarian Myth (Brilliance, 2012), questo non va imputato all'allevamento in sé ma ai metodi utilizzati per il nutrimento del bestiame: “i bovini sono sistemati in giganti recinti ingerendo mais piuttosto che pascolare sull'erba[…] le fabbriche agricole sono ad alta intensità energetica perché gli animali vengono allevati in un modo che va contro natura […]i cicli, ciclo idrologico, il ciclo minerale con gli annidamenti di idrogeno, i cicli ci carbone e calcio sono stati distrutti dall'attività umana dell'agricolltura, un'attività più simile alla guerra di molte altre” (ibidem, p.104, TdR). Su questi presupposti si reggono le conclusioni dell'autrice: “il cibo che i vegetariani dicono che ci salverà è il cibo che distrugge il mondo”.