Gli Islamici rifiutano di integrarsi nella società occidentale

Integrarsi nella società ospite è un precetto dell'Islam

Per Dounia Ettaib, presidente dell'Associazione delle Donne Arabe in Italia (DARI), il problema dell'integrazione delle comunità musulmane nel nostro paese e nella civiltà occidentale è affrontato dalle associazioni che si occupano di questo problema in maniera controproducente, con affermazioni identitarie che insistono sulla differenza religiosa e non mirano a una reale integrazione. Intervistata da Astrit Sukni (L'islam in Italia: intervista a Dounia Ettaib, “informazionecorretta.com”, 4 aprile 2013), la Ettaib mostra tutto il suo scetticismo riguardo l'azione politica di gruppi come l'UCOII: “Con l'UCOII non è possibile una collaborazione perché credo che il loro atteggiamento sia sempre quello di contrastare l'impegno che gli altri portano avanti. A noi non interessa essere affermati come modello islamico. Il vero problema della comunità islamica è che loro si devono rendere conto di essere prima dei cittadini e solo dopo pensare alla religione”. La Ettaib rivendica come precetto coranico il dovere dell'integrazione nella comunità ospite e l'obbligo di seguire le sue regole: “l'Islam in sé dice: ‘se una persona migra in una comunità e ci rimane per oltre 40 giorni allora ha l'obbligo morale di comportarsi come nella nuova comunità’. Quindi l'integrazione è d'obbligo e fondamentale. L'integrazione viene imposta dalla stessa religione” (Ibidem).

 

La mancata integrazione dei musulmani è frutto dell'influenza occidentale

Dounia Ettaib afferma: “Secondo me l'Islam qui in Italia non esiste proprio, [è] un Islam tutto deviato che ha subìto moltissimo l'influenza occidentale. È un islam povero, che è rimasto senza le sue radici e tradizioni. Lo vediamo anche nella seconda generazione dove non si nota un vero processo di coesione sociale. Io non lo chiamerei integrazione, perché siamo proprio al di là dell'integrazione. Sono arrivata a Milano alla fine degli anni Ottanta, da bambina vedevo egiziani cristiani che convivevano tranquillamente con egiziani musulmani. Invece adesso se vai in una anagrafe milanese ti rendi conto che c'è stata una evidente spartizione del territorio, con i cristiani che vivono in una zona e i musulmani in un'altra, per esempio in via Padova o a San Siro. Invece, quando ero bambina non vedevo queste differenze: i musulmani festeggiavano il Natale insieme ai cristiani e i cristiani festeggiavano il Ramadan, non c'era differenza tra le due realtà” (Astrit Sukni, L'islam in Italia: intervista a Dounia Ettaib, cit.).

 

Euroislam: superamento della separazione tra Dar al Islam e Dal al Harb

Nella teorizzazione di Tariq Ramadan, nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani Hasan al Banna e docente di Islamologia all'Università di Friburgo, l'incontro dialettico tra Islam e Occidente produrrà un nuovo sistema di valori a vocazione universale, capace di colmare il vuoto ideologico della decadenza occidentale e di revitalizzare l'Islam.
Lo sviluppo di questo nuovo sistema di valori è possibile solo attraverso la pratica della politica attiva da parte dei musulmani, pratica attiva che è preclusa in gran parte del mondo islamico da sistemi politici autoritari e che al contrario trova la sua espressione più promettente nelle comunità islamiche che si trovano in Occidente.
Il progetto politico di Ramadan è quello di trovare una “terza via” tra quella battuta dai musulmani senza Islam, che si secolarizzano rapidamente e vivono la fede come mera appartenenza culturale e quelli che vivono in Europa come fossero fuori dall'Europa, isolandosi in veri e propri ghetti volontari all'interno di un ambiente nel quale non è applicabile il diritto islamico.
Il superamento di questa contrapposizione presuppone ed implica il superamento della dicotomia tra Dar al Islam (la “Casa dell'Islam”) e la Dal al Harb (la “Terra della Guerra”), territorio di conversione e proselitismo: superamento che è giustificato e invocato dal fatto che l'Europa protegge la libertà religiosa dei musulmani, rispettandoli come cittadini e come credenti.
Scrive dunque Renzo Guolo (L'islam è compatibile con la democrazia?, Laterza, 2004, p. 122): “[Per Ramadan] essere musulmano e cittadino è possibile. [Tale] doppia identità [presuppone una] religione non costringente”, che veda permessi il diritto all'esogamia religiosa  e alla conversione dall'Islam senza che essa sia vista come apostasia o abbandono, tradimento della fede.
I cittadini europei musulmani devono dunque integrarsi nel sistema politico occidentale senza rinunciare ai valori fondativi della propria religiosità e ciò per aprire la possibilità, nel lungo periodo, a un nuovo “progetto di società ispirato all'Islam, ma fondato sul diritto e sul ‘rispetto per il popolo’” (Ibidem, p. 121).

Gli islamici vogliono convertire la società occidentale, laica e cristiana

Secondo Renzo Guolo “L'Europa ha il diritto di respingere la prospettiva della propria islamizzazione, di difendere la sua identità e di rapportarsi all'Islam secondo una 'doppia strategia', imperniata sulla difesa e sul dialogo. [Dialogo che al contrario viene] concepito spesso dai musulmani come legittimazione della da'wa, la missione per la diffusione dell'Islam; come opportunità di occupazione di spazi culturali e religiosi funzionali alla riproduzione di comunità separate dalla società d'insediamento; come proselitismo teso, sia pure a lungo termine, alla conquista graduale di uno spazio territoriale. Modalità di rapporto, quelle implicite a da'wa e hijra, che non presuppongono il riconoscimento dei valori fondanti della democrazia” (Renzo Guolo, L'Islam è compatibile con la democrazia?, Laterza, 2004, p. 120).
Al contrario, anziché recepire quello che è un sentimento diffuso e che rappresenta un pericolo reale per la società democratica, i componenti delle èlite occidentali vengono denunciati come “pavidi o ideologicamente collusi” da parte di Magdi Cristiano Allam. Il giornalista lamenta come l'atteggiamento multiculturale e ipocrita delle classi dirigenti permetta che si stia “imponendo uno stato islamico all'interno del nostro traballante stato sovrano” (Magdi Cristiano Allam, Quei predicatori d'odio sono arrivati in Italia, “Corriere della Sera”, 4 settembre 2007).
Tale denuncia del troppo spinto “proselitismo” islamico è una costante del lavoro di Allam: “Ma l'abbiamo capito che stiamo subendo una guerra scatenata nel nome dell'islam in cui tutti i musulmani condividono l'obiettivo di islamizzarci, divergendo soltanto sui mezzi per perseguire lo stesso fine? Siamo consapevoli che in questa guerra o combattiamo per salvaguardare la nostra civiltà laica e liberale dalle radici cristiane o saremo sottomessi all'islam?” (Magdi Allam, I versetti dell'odio che insegnano come uccidere, “Il Giornale”, 9 gennaio 2015).

 

Gli islamici immigrati non hanno affatto intenzione di integrarsi

Edward Luttwak, intervistato da Gian Micalessin (Che illusi USA ed Europa. Questo è il vero Islam, “Il Giornale”, 23 agosto 2014), descrive la differenza tra l'immigrazione verso gli Stati Uniti, capace di stimolare nei migranti una volontà di assimilazione culturale (soprattutto, a detta dell'analista americano, in virtù della cultura di provenienza dei migranti, non totalmente aliena a quella occidentale, come è invece quella islamica rispetto all'Europa), da un'immigrazione caratterizzata dalla volontà di perpetuare la propria differenza e rifiutare l'integrazione. Così Luttwak: “Da noi chi entra dal Messico si chiama Jose Martinez è cristiano e sogna di diventare Joe Martin, americano. Da voi arriva Ahmed che vuole tenere la moglie coperta e i bimbi ignoranti. Il lassismo sentimentale di voi italiani è incredibile. Mi meraviglio che non vi buttino fuori da Schengen per mancata protezione delle vostre frontiere”.

 

Ghetto volontario

Alexandre del Valle, docente di Geopolitica presso l'Università Europea di Roma, sul blog “Obamallah” riconduce le rivendicazioni di riconoscimento legale di prerogative culturali islamiche all'alveo di una vera e propria strategia politica volta a monopolizzare la leadership delle comunità islamiche nei paesi occidentali e ad insistere su di un sentimento persecutorio che spinga i musulmani europei a isolarsi in un “ghetto volontario”. In tal modo si rafforza un sentimento identitario e di risentimento nei confronti delle comunità ospiti: “Sconosciute prima degli anni Novanta, le rivendicazioni islamiche riguardo il velo, il burqa, i minareti e contro l’islamofobia (Jihad by court), sono sempre più esigenti. Ma questo fenomeno non è del tutto spontaneo: piuttosto è il frutto di una strategia concepita dai 'grandi poli mondiali dell’islam radicale' presenti in Europa. Che in meno di vent’anni sono riusciti a farsi riconoscere come i 'rappresentanti' dell’islam europeo, soppiantando i leader musulmani moderati. Il loro fine è palese: per impedire l’integrazione dei musulmani europei, hanno rafforzato il sentimento persecutorio nei confronti dei musulmani e promosso un 'ghetto volontario', cioè una coscienza d’appartenenza islamica europea separata. Per ottenere nuove concessioni, non hanno mostrato subito il loro volto intollerante, antisemita, cristianofobo e ostile all’integrazione, ma hanno strumentalizzato il malessere sociale degli immigrati e i valori tolleranti degli europei, 'islamofobi' colpevolizzati. Infine, hanno intimidito e fatto tacere i musulmani moderati” (Alexandre del Valle, Mappa dell'Islam europeo, “obamallah.wordpress.com”, 27 marzo 2010).
È questo il processo descritto dal sociologo Renzo Guolo: “Le moschee e le associazioni neotradizionaliste sono guidate da leadership che hanno rifiutato il silenzioso scambio politico avvenuto in passato tra migranti musulmani e società europee, e che aveva come oggetto l'accesso ai diritti di cittadinanza in cambio della riduzione dell'Islam alla sfera privata. Al contrario, le leadership islamiste rivendicano, in questa fase, una piena visibilità dell'Islam sulla scena pubblica; rifiutando sia l'assimilazione sia l'occultamento fuori dallo spazio collettivo” (Renzo Gualo, L'Islam è compatibile con la democrazia?, Laterza, 2004, p. 105).
“Occultamento” che si configura al contrario come “integrazione esternalizzata”, ovvero come “costruzione di uno spazio separato dalla società ospite, in cui si possano sviluppare relazioni 'non contaminate' [e che vede la negoziazione] su base collettiva, di uno statuto derogatorio di cittadinanza” che “consente alla comunità di ottenere alcuni diritti senza dover optare necessariamente per una maggiore integrazione culturale nella società d'insediamento” (Ibidem, pp. 102-103).

 

Non ci sono esempi storici di incorporazioni etico-politiche di popolazioni islamiche in Stati laici

Per dare una risposta intorno all'interrogativo della integrabilità dell’islamico nella società laica occidentale, secondo il politologo Giovanni Sartori (L'integrazione degli islamici, “Corriere della Sera”, 20 dicembre 2009): “Non serve leggere il Corano ma imparare dall'esperienza”. Sartori sostiene che bisogna chiedersi “se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico), in società non islamiche” (Ibidem).
Constata l'autore: “La risposta è sconfortante: no. Il caso esemplare è l'India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero paese. Si avverta: gli indiani 'indigeni' sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue. Conosco, s’intende, anche altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Turchia. Tutti casi che rivelano un ritorno a una maggiore islamizzazione, e non (come si sperava almeno per la Turchia) l’avvento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico” (Ibidem).