Per godere dei vantaggi della globalizzazione è necessaria la libera circolazione planetaria dei fattori produttivi

La politica non deve ostacolare il libero mercato

Affinché le popolazioni possano godere dei vantaggi derivanti dalla globalizzazione economica, in termini di produttività, crescita economica e sviluppo sociale, è necessario che i decisori politici non ostacolino il progressivo affermarsi di un libero mercato di dimensioni globali e la libera circolazione planetaria dei fattori produttivi (le materie prime, i capitali, la forza-lavoro, le conoscenze tecnico-scientifiche) attraverso politiche economiche volte a proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza straniera limitando, mediante l'imposizione di alti tassi doganali, le importazioni rispetto alle esportazioni.
In tale prospettiva è catalogabile il lavoro di Robert Gilpin, influente politologo statunitense e professore di Affari internazionali all'Università di Princeton, esposta nel volume Global Political Economy. Understanding the International Economic Order (Princeton University Press, 2001).

 

Il funzionamento dell'economia mondiale è deciso sia dai mercati sia dalle politiche degli Stati nazionali

Robert Gilpin, dapprima, tratteggia il rapporto esistente tra Stati nazionali e mercati.

Da un lato, le forze economiche operano all'interno di rapporti politici, che si istituzionalizzano attraverso la rivalità e la cooperazione tra gli Stati. “Gli Stati impostano le regole che le singole imprese e le multinazionali devono seguire” (Global Political Economy, p. 4, TdR).
Dall'altro, le forze economiche e tecnologiche modellano le politiche e gli interessi dei singoli Stati e le relazioni politiche tra gli Stati: “in effetti, il mercato è una potente forza nel determinare gli affari economici e politici” (ibidem). Pertanto, “Il funzionamento dell'economia mondiale è deciso sia dai mercati sia dalle politiche degli Stati nazionali” (ibidem).
Successivamente, Gilpin chiarisce che l'economia politica tratta dell'interazione tra queste due componenti intrinseche al sistema sociale, tanto nazionale quanto internazionale: il mercato e gli attori potenti, gli Stati e le grandi imprese, che cercano di manipolare la logica del libero mercato a proprio vantaggio. (ibidem, p. 45). A tal proposito, senza tralasciare la componente teorica dell'economia politica neoclassica, Gilpin sottolinea che “è importante tenere a mente il fatto che le attività economiche si verificano all'interno di differenti strutture socio-politiche e che queste strutture influenzano notevolmente i loro risultati” (ibidem, p. 76).

 

L'interazione tra mercati e politica e le trasformazioni nell'equilibrio internazionale del potere

L'analisi di Gilpin si concentra poi sulla tematizzazione del nesso causale che è possibile rinvenire tra l'interazione fra il mercato e la politica e la trasformazione degli assetti di potere internazionali: “la concentrazione delle attività economiche in luoghi particolari e la diffusione della crescita economica e di attività economiche in nuove regioni sono elementi fondamentali nell'evoluzione dell'economia mondiale. Anche se le forze di mercato sono al centro di questi processi, attori potenti come Stati e multinazionali cercano costantemente di plasmare i mercati in modo da massimizzare i loro propri interessi nazionali o aziendali. […] Le interazioni tra le forze economico-tecnologiche e i potenti attori portano a cambiamenti nella distribuzione globale di attività economiche, a variazioni dei vantaggi comparati e dei modelli commerciali tra le economie nazionali: in definitiva, a trasformazioni nell'equilibrio internazionale del potere economico e militare” (ibidem, p. 128).

 

La politica economica degli Stati determina l'economia mondiale

Una prima conclusione delle riflessioni di Gilpin è la seguente: “i governi e le loro politiche sono e rimarranno di cruciale importanza per il funzionamento dell'economia internazionale. Nonostante il significato crescente del mercato e della globalizzazione economica, i risultati economici non sono determinati solo dalle forze economiche ma sono determinati anche dai governi e dalle loro politiche. Tuttavia, le società nazionali si differenziano in maniera determinante per il grado con il quale i loro governi giocano un significativo ruolo nell'economia e nei modi in cui tentano di gestire le loro economie” (ibidem, p. 147).
Sarebbe scorretto leggere i processi di globalizzazione economica come l'irresistibile affermarsi del dominio delle forze del libero mercato. Al contrario, i processi di globalizzazione economica sono possibili solo presupponendo, da parte degli Stati nazionali, l'adozione di determinate politiche economiche finalizzate a non ostacolare gli scambi commerciali interfrontalieri.
La prova di ciò si ha quando si considerano gli ostacoli che le differenti politiche economiche e commerciali degli Stati pongono all'affermazione planetaria e onnipervasiva di un'economia di mercato mondiale. Scrive significativamente Gilpin: “Nei primi anni successivi alla fine della guerra fredda, vi era l'opinione prevalente secondo cui lo scontro tra il capitalismo e il comunismo sarebbe stato sostituito da uno scontro tra forme rivali del capitalismo. Tale credenza, almeno finora, si è dimostrata errata. Eppure è evidente che la crescente interdipendenza delle economie nazionali ha reso le differenze legali, politiche e strutturali tra le società nazionali più importanti e spesso anche fonte di tensione e di occasionali conflitti politici. Differenti sistemi nazionali di politica economica costituiscono un serio ostacolo al movimento verso una sempre più aperto e multilaterale economia globale. Le differenze in materie come la concorrenza politica, le pratiche commerciali e le strutture aziendali sono diventate le principali preoccupazioni del commercio internazionale e di altri negoziati” (ibidem, p. 195).

 

I benefici della globalizzazione economica ostacolati dagli interessi nazionali

Gilpin non omette di sottolineare i benefici che la riduzione delle barriere doganali e l'adozione di politiche economiche e commerciali orientate al libero mercato hanno apportato sia ai paesi sviluppati sia a quelli in via di sviluppo:

“Il regime commerciale è stato uno dei risultati più importanti della seconda metà del ventesimo secolo. Le otto diverse sessioni di negoziati commerciali del GATT, a partire dalla sessione Kennedy nei primi anni 1960, hanno ridotto le tariffe nei paesi industrializzati in media sotto il 4 per cento, un decimo di quello che erano nel 1940; […] molti sussidi sono stati ridotti o eliminati. Ci sono stime secondo cui la riduzione delle le barriere commerciali hanno messo annualmente $ 1.000 aggiuntivi nelle tasche dei consumatori americani. Le economie dei paesi meno sviluppati hanno anche guadagnato maggiormente quando questi paesi hanno ridotto le loro barriere commerciali. Nonostante intense polemiche su alcune delle sue decisioni, il meccanismo delle controversie dell'Organizzazione Mondiale del Commercio finora ha funzionato bene. Il numero dei membri del GATT / WTO [Organizzazione Mondiale del Commercio] è aumentato da 23 a 135, e una trentina di altri stati desiderano unirsi nel 2000. Lo spostamento di tutto il mondo dal 1980 a politiche economiche più orientate al mercato è indicato da tutti questi sviluppi” (ibidem, p. 233).

Gilpin, al contempo, esprime preoccupazione rispetto alla contraddizione che oppone, da un lato, la spinta verso una sempre più profonda interdipendenza tra le economie e, dall'altro, i timori, da parte degli attori locali, di non riuscire più a tutelare adeguatamente i propri interessi:

“Tuttavia, così come il commercio si è ampliato ed è penetrato più profondamente nelle economie nazionali, si è ampliata in modo significativo l'agenda commerciale, così il commercio stesso è entrato in conflitto con potenti interessi locali ed è quindi è diventato sempre più controverso. Lo scontro tra le forze della globalizzazione economica e le preoccupazioni nazionali ha innescato una reazione contro la globalizzazione che rischia di minare le fondamenta politiche del regime commerciale” (ibidem).

 

Necessità di una cooperazione politica tra le maggiori potenze

Date le tendenze in atto, Gilpin sottolinea la necessità, a lungo termine, di realizzare sia una maggiore cooperazione economica tra gli Stati Uniti, il Giappone e l'Europa occidentale sia la stabilità monetaria internazionale. A tal fine è inevitabile promuovere una maggiore cooperazione politica tra i tre blocchi valutari egemoni:

“Nonostante lo scetticismo giustificato degli economisti di dollarizzazione e una drastica riduzione del numero delle monete nazionali, sembra inevitabile che, a lungo termine, le economie più piccole collegheranno strettamente le loro valute ai loro principali partner commerciali. Entro la fine del XX secolo, i paesi meno sviluppati avranno già legato le loro valute al dollaro, all'euro o allo yen. Tuttavia, questo lento sviluppo non significa necessariamente né che i tre blocchi valutari emergeranno né che l'economia globale si fratturi. Tuttavia, la possibilità che i blocchi valutari possano emergere rende evidente la necessità di migliorare la politica e la cooperazione monetaria tra gli Stati Uniti, il Giappone ed l'Europa occidentale. Nel frattempo, i funzionari pubblici, i banchieri centrali e gli economisti dovrebbero e devono continuare a cercare un compromesso in grado di raggiungere l'obiettivo dichiarato da Keynes per un sistema monetario internazionale: cioè, la stabilità monetaria internazionale con flessibilità politica interna. Anche se la letteratura economica è piena di schemi per raggiungere questo duplice obiettivo, ciò può avvenire solo se prima viene raggiunta tra le maggiori potenze economiche una cooperazione politica” (ibidem, p. 260).

 

Libera circolazione dei capitali e gestione dell'economia mondiale

Gilpin affronta più nel dettaglio le contraddizioni, sopra richiamate, tra globalizzazione economica e interessi nazionali. Una di queste è il nesso tra la libera circolazione dei capitali, imprescindibile condizione di un libero mercato unico mondiale, e la capacità dei singoli governi di controllare le proprie economie e di impedire massicce acquisizioni da parte di capitali esteri di imprese nazionali:

“La liberalizzazione dei movimenti di capitale e l'integrazione dei mercati finanziari di tutto il mondo hanno avuto diverse conseguenze importanti per l'economia globale. La libertà dei movimenti di capitali ha complicato e, alcuni credono, ha ridotto l'autonomia politica macroeconomica e la capacità dei singoli governi di controllare le proprie economie. I flussi finanziari internazionali sono diventati anche un fattore determinante: molti economisti credono che i flussi finanziari internazionali siano il più importante fattore dei tassi di cambio (almeno nel breve periodo) e una delle cause dei movimenti irregolari in valore corrente. Il movimento verso un unico mercato integrato a livello mondiale è il risultato di un aumento dei flussi finanziari, e questo ha notevolmente facilitato le fusioni e le acquisizioni oltre i confini nazionali e l'integrazione dell'economia mondiale da parte delle imprese multinazionali. Complessivamente, il riemergere della finanza internazionale ha aumentato l'interdipendenza commerciale e monetaria dell'economia internazionale. La necessità di connettere questi domini precedentemente separati degli affari economici internazionali ha complicato il compito di gestire l'economia mondiale” (ibidem, p. 277).

 

I problemi dei paesi meno sviluppati devono essere risolti dalla comunità internazionale

Gilpin non nega che lo sviluppo economico diretto dal libero mercato non crei problemi nei paesi meno sviluppati. Tuttavia, non suggerisce né di rallentare lo sviluppo né di ridurre il grado di interdipendenza delle varie economie del globo. La soluzione ai problemi dei paesi meno sviluppati non è trovata nella rinuncia a politiche economiche orientate al libero scambio nel commercio internazionale, ma, senza mettere in discussione queste politiche, in un maggiore impegno e in una maggiore cooperazione da parte della comunità internazionale:

“la comunità internazionale non ha ancora fatto i conti con gli immensi problemi dello sviluppo economico. […] In un'epoca di neoliberismo con lo stress sul mercato libero, un regime di sviluppo è fuori questione. D'altra parte, il libero scambio e l'apertura economica non costituiscono di per sé una soluzione adeguata al problema del sottosviluppo o ai i problemi delle economie in transizione. Un compromesso deve essere trovato da qualche parte tra i due estremi costituiti dall'abbandono del neoliberismo e dalla dipendenza totale dal mercato. Jeffrey Sachs si volge in questa direzione con la tesi secondo cui la soluzione a lungo termine dei problemi dei paesi meno sviluppati richiede che i problemi fondamentali che si trovano ad affrontare vengano risolti dalla comunità internazionale: sia l'agricoltura delle aree aride sia quella delle aree tropicali devono essere migliorate, la scienza e la tecnologia devono essere mobilitate verso lo sviluppo, e i gravi problemi di degrado ambientale e di salute pubblica (HIV, malaria e altre malattie tropicali) devono essere ridotti o, meglio, eliminati. Dalla risoluzione di questi problemi beneficerebbero sia i ricchi sia i poveri” (ibidem, p. 340).

 

Regionalismo economico come strategia per accrescere la propria forza politica

Un' esemplificazione dell'interazione tra mercato e politica è data dal progressivo affermarsi del regionalismo economico, che mira a sfruttare le leggi del libero mercato per accrescere la forza politica di gruppi di Stati. Un esempio di questo fenomeno è il processo di integrazione economica e monetaria dell'Unione Europea. Scrive Gilpin:

“In Europa occidentale, in Nord America e in Asia-Pacifico come altrove, i poteri dominanti ed i loro alleati all'interno di una regione hanno unito le forze per risolvere i problemi regionali e aumentare il loro potere contrattuale nei negoziati economici globali. I paesi dell'Unione Europea partecipano già ai negoziati commerciali internazionali come un blocco regionale. Il regionalismo economico è diventato anche un mezzo per aumentare la competitività internazionale delle imprese regionali. Varie forme di regionalismo economico (unioni doganali, zone di libero scambio e singoli mercati) forniscono, in una certa misura, i vantaggi del libero scambio, quali un aumento della concorrenza e le economie di scala e contemporaneamente negano questi vantaggi a terzi, a meno che non investano nel mercato interno e intercettino le richieste dei paesi-membri riguardanti gli interessi locali, il trasferimento tecnologico e la creazione di posti di lavoro. Il regionalismo facilita anche la condivisione delle risorse economiche e la formazione di alleanze societarie regionali. Per tutti questi motivi, il regionalismo è diventato una strategia centrale, utilizzata da gruppi di Stati, per aumentare la loro forza economica e politica, e quindi è diventato una caratteristica estremamente importante dell'economia globale” (ibidem, p. 361).

 

La speranza di nuovo ordine globale più umano

Gilpin conclude così il suo lavoro, sottolineando che il pieno dispiegamento del libero mercato a livello globale, l'effettivo affermarsi della globalizzazione economica, la distribuzione dei vantaggi che questa arreca, non può essere svincolata dalla costruzione di una comune identità politica che abbia sempre meno un radicamento nazionalistico e che abbia come collante i valori dei “diritti umani”: proprio i diritti umani rappresentano quell'insieme di ideali che devono guidare il perseguimento, guidato in particolare dai paesi più ricchi, di un ordine globale che sia più umano.

“La governance a qualsiasi livello, sia nazionale che internazionale, deve basarsi su convinzioni condivise, valori culturali, e, soprattutto, su una comune identità. Purtroppo, non viviamo ancora in una cultura civica globale, e pochi valori comuni uniscono tutti i popoli del mondo. Identità e lealtà sono ancora un carattere nazionale o locale, etnico e razziale. […] Il valore dei diritti umani sembra essere condiviso da molte persone in tutto il mondo; tutti i governi - anche coloro che violano i diritti umani - credono di dover almeno dargli un rispetto almeno verbale. Anche se si sono verificati alcune importanti vittorie dei diritti umani, gli ideali nazionalistici prevalgono ancora. Gli stati moderni sono molto egocentrici e raramente guardano al benessere di altri popoli. Ad esempio, c'è poca condivisione da parte dei ricchi con i poveri. In tali circostanze, discutere sul sostituire la governance globale al primato degli stati-nazione è vano. Si può solo sperare è che le maggiori potenze, nel loro stesso interesse così come nell'interesse del mondo in generale, collaboreranno alla costituzione di un ordine politico ed economico internazionale più stabile e umano” (ibidem, p. 402 ).

Global Protectionism

Le politiche di progressiva liberalizzazione dei mercati mondiali coesistono con pratiche economiche, adottate dai paesi militarmente ed economicamente più forti, volte a proteggere la produzione nazionale.
In questa direzione è rivolto il libro Global Protectionism (Palgrave Macmillan, 1991), curato da David Greenaway, professore di Economia, vice-rettore dell'Università di Nottingham Greenaway e direttore del Centro di ricerca su Globalizzazione e Politica Economica. Nonostante la loro professione di fede nei principi dell'economia di mercato, le grandi potenze industriali nazionali, e le aggregazioni regionali, come l'Unione Europea e il NAFTA (North American Free Trade Agreement), che alle grandi potenze industriali afferiscono (per esempio, in Europa, la Germania) adottano e praticano complesse strategie nelle quali si congiungono la competizione mercantilistica fra gli Stati, il regionalismo economico e il protezionismo settoriale, in particolare nel settore agricolo.

Scrive a tal proposito, Danilo Zolo, professore di Filosofia del Diritto internazionale all'Università di Firenze, nel libro Globalizzazione. Una mappa dei problemi (Laterza, 2004): “L'apertura ai mercati è massima nei settori dove la concorrenza globale va a vantaggio dei più forti – tipico è il caso del mercato finanziario e delle manifatture high tech -, mentre altrove regna il new protectionism che discrimina i paesi più deboli, fra l'altro afflitti da un indebitamento estero crescente. La discriminazione assume la forma tradizionale delle tariffe doganali, in particolare sui beni provenienti dai paesi esportatori di materie prime che siano già parzialmente elaborate. Ma assume, in misura assai più ampia, la forma delle barriere 'non-tariffariÈ che consentono di aggirare i principi della non discriminazione e della multilateralità che erano alla base del regime internazionale del commercio istituito dal GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), poi sostituito dalla World Trade Organization (WTO)”.

Continua poi Danilo Zolo, riportando una serie di dati statistici riguardanti il livello di protezionismo nei paesi dell'OCSE:

“Dei ventiquattro paesi dell'OCSE, almeno venti sono oggi più protezionisti di quanto lo fossero un decennio fa e circa il 30 % delle loro importazioni provenienti da paesi non industrializzati è affetto da vincoli non-tariffari. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso solo il 7 % del commercio mondiale rispettava i principi liberali del GATT: settori come quello agricolo, dei prodotti tropicali, dei tessili, dei servizi, della proprietà intellettuale e degli investimenti si sottraevano alle regole del 'mercato globale' provocando una perdita annuale di non meno di mille miliardi a carico dei paesi economicamente più deboli. Complessivamente le restrizioni commerciali e le dissimmetrie contrattuali sono costate in questi anni ai paesi non industrializzati attorno al 20 % del loro PIL e più di sei volte di quanto essi investono nello 'sviluppo umano' a favore delle loro popolazioni”.

 

Il fatto del protezionismo contro la retorica globalista

Emiliano Brancaccio, professore di Economia politica presso l'Università del Sannio, assume una posizione critica rispetto alla dottrina del libero commercio mondiale, che rappresenta uno dei punti cruciali della nozione di globalizzazione economica.

In un'intervista a cura di Marco Berlinguer, pubblicata da “Micromega” il 22 ottobre 2012, con il titolo Protezionismo, liberoscambismo e neopopulismo, Emiliano Brancaccio nota, innanzitutto, che sono i fatti e le evidenze a smentire la retorica globalista della liberalizzazione dei mercati. Afferma lo studioso: “Tra il 2008 e il 2012 la Commissione europea ha registrato 534 nuove misure protezionistiche. Non solo l’Argentina, ma anche colossi come Cina, India, Brasile e Stati Uniti hanno introdotto restrizioni. La stessa Russia ha posto in essere 80 nuove misure protezionistiche, il che la dice lunga sul modo in cui intenderà gestire la recente adesione al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. L’unica potenza che ancora resiste alla tentazione di introdurre controlli sui movimenti di capitali e di merci è proprio l’Unione europea. Dietro ci sono gli interessi del paese più forte, la Germania, che dal libero scambio trae grandi vantaggi. Tuttavia, man mano che la crisi avanza, anche in Europa e in Italia aumentano i consensi verso misure di controllo dei commerci, di limitazione delle acquisizioni estere e di ripristino della sovranità nazionale sulla moneta. E’ un’illusione pensare di contrastare quest’onda con la solita vuota retorica europeista”.

 

Non il protezionismo, ma l'incondizionato liberoscambismo alimenta le pulsioni nazionaliste

Successivamente, contro la tesi secondo cui politiche economiche protezionistiche alimenterebbero la recessione economica, il sorgere di nuovi pericolosi nazionalismi e di conflittualità tra i paesi, Brancaccio fa notare che questo “È un convincimento tanto diffuso quanto privo di evidenze. Il premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. È dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste”.

Solo una minaccia neo-protezionista da parte della “periferia” può salvare l'Unione Europea

In conclusione, Brancaccio prende in considerazione la crisi dell'eurozona e argomenta che solo una minaccia neo-protezionista da parte degli Stati del sud Europa può salvare l'unità dell'Unione Europea. L'idea di Brancaccio è che i soggetti politici eredi della tradizione del movimento operaio dovrebbero, prima che mettere in discussione la moneta unica in sé, criticare il principio della libera circolazione di capitali e di merci in Europa: “L’Europa può ritrovare coesione interna solo se mette un freno alla competizione salariale al ribasso e attiva un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Per adesso, tuttavia, ci stiamo muovendo in direzione contraria. La Germania ha imposto ai paesi periferici della zona euro una ricetta a base di depressione, disoccupazione e fallimenti aziendali. La stessa Banca centrale europea segue questa linea: è disposta a difendere i paesi periferici dalla speculazione solo a condizione che questi comprimano ulteriormente la spesa pubblica e il costo del lavoro e si dispongano a vendere i capitali nazionali, incluse le banche. Questa violenta ristrutturazione a guida tedesca trasformerà vaste aree del Sud Europa in deserti produttivi, destinati solo a fornire manodopera a buon mercato alle aree più forti. I gruppi d’interesse prevalenti in Germania sanno che questi processi potrebbero scatenare tensioni tali da indurre i paesi del Sud ad abbandonare l’euro, ma questa eventualità non li spaventa. L’unica vera paura dei tedeschi è che con la moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la loro egemonia: cioè temono che i paesi del Sud introducano limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. In Francia si discute da tempo di opzioni simili, ma il governo socialista non sembra disposto a esplicitare una minaccia protezionista. In Italia, per evitare tentazioni, abbiamo addirittura messo un irriducibile liberoscambista ai vertici del governo. La crisi però avanza, i nodi verranno al pettine. Se la sinistra insiste con il suo liberoscambismo acritico, a scioglierli verranno chiamate forze completamente estranee alla tradizione del movimento dei lavoratori”.