La globalizzazione aumenta le disuguaglianze

Analisi del Fondo Monetario Internazionale sulla disuguaglianza

Sul sito del Fondo Monetario Internazionale - un'organizzazione composta dai governi nazionali di 188 paesi tra i cui obiettivi prevede di promuovere sia l'espansione del commercio internazionale, sia la stabilità e l'ordine dei rapporti di cambio evitando svalutazioni competitive – viene riportato un report intitolato Trade, Growth and Poverty, a firma di David Dollar e Aart Kraay, entrambi responsabili della Ricerca del Gruppo di Ricerca e Sviluppo della Banca Mondiale, pubblicato nel settembre del 2001, in cui, tra l'altro, si analizzano gli effetti della liberalizzazione del commercio internazionale sulla distribuzione del reddito e il grado della disuguaglianza in un gruppo di paesi in via di sviluppo tra gli anni Ottanta e Novanta, detti globalizzatori post-1980.

In questo report, gli autori scrivono:

 

La disuguaglianza non è aumentata sistematicamente

“Anche se i benefici della crescita del commercio sono sempre più riconosciuti, molti analisti sono legittimatamente preoccupati per gli effetti della liberalizzazione del commercio sulla distribuzione del reddito. Nella nostra ricerca, tuttavia, documentiamo che i benefici della crescita dell'espansione del commercio sono, in media, ampiamente condivisi — non abbiamo trovato evidenze di una tendenza sistematica all'aumento della diseguaglianza se aumentano gli scambi commerciali internazionali. […] Questo dato riflette le esperienze di più di 100 paesi sviluppati o in via di sviluppo, con cambiamenti riguardo al commercio e alla disuguaglianza misurati su un periodo di almeno cinque anni, al fine di cogliere il rapporto di medio-lungo periodo tra il commercio e la disuguaglianza” (TdR).

Vi è una “sorprendente assenza di qualsiasi semplice correlazione tra i cambiamenti nel commercio e i cambiamenti nella disuguaglianza. Nelle nostre ulteriori ricerche, abbiamo esaminato la validità di questo semplice risultato in diverse dimensioni. Abbiamo preso in considerazione una vasta gamma di misure di apertura dei mercato, incluse quelle dirette di politica commerciale e sui flussi di capitali internazionali, così come gli stessi volumi commerciali. Abbiamo anche […] ammesso la possibilità che gli effetti del commercio sulla disuguaglianza sono differenti nei paesi ricchi e nei paesi poveri [...]”. La conclusione che emerge da ciò è che “non ci sono prove di una sistematica tendenza alla disuguaglianza né se il commercio internazionale aumenta né se decresce” (ibidem).

 

Cambiamenti nel commercio e nella disuguaglianza di reddito

“Questa evidenza è anche coerente con le esperienze dei globalizzatori post-1980. Mentre molti dei globalizzatori hanno visto aumenti di disuguaglianza (in modo particolare la Cina, dove il coefficiente Gini è aumentato da circa 32 nei primi anni Ottanta a 40 a metà degli anni Novanta), molti altri hanno visto una diminuzione (ad esempio, la Malesia, dove il coefficiente Gini è sceso da 51 a 48 durante lo stesso periodo). E, in molti paesi, grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito possono probabilmente essere collegati ad influenze che sono lontane dal commercio internazionale. In Cina, per esempio, la liberalizzazione interna, le restrizioni in materia di migrazione interna, e le politiche agricole hanno giocato un ruolo molto più grande degli incrementi del commercio internazionale” (ibidem).

 

La povertà è diminuita

“La combinazione di incrementi nella crescita e cambiamenti sistematici modesti nella disuguaglianza nei globalizzatori ha notevolmente incrementato gli sforzi per ridurre la povertà. In Malesia, per esempio, il reddito medio del quinto più povero della popolazione è cresciuto annualmente ad un robusto 5,4 per cento. Anche in Cina, dove la disuguaglianza è bruscamente aumentata e il tasso di crescita del reddito del quinto più povero sono rimasti indietro alla crescita media del reddito, i redditi del quinto più povero sono cresciuti annualmente ancora al 3,8 per cento. La frazione di popolazione di questi paesi che vivono al di sotto di $1 al giorno è scesa bruscamente tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta: dal 43 per cento al 36 per cento in Bangladesh, da 20 per cento al 15 per cento in Cina e dal 13 per cento al 10 per cento in Costa Rica, per citarne alcuni” (ibidem).

 

Il gap tra ricchi e poveri si è ridotto

“La globalizzazione lascia in dietro i paesi poveri e aumenta il divario tra i paesi più ricchi e quelli più poveri? Le nostre evidenze sulla performance di crescita dei globalizzatori relativa ai paesi ricchi e ai paesi in via di sviluppo che non globalizzano suggerisce il contrario. La rapida crescita dei globalizzatori relativamente ai paesi ricchi significa che i globalizzatori stanno restringendo il gap relativo al reddito pro-capite. Inoltre, poiché la maggior parte dei globalizzatori — specialmente Cina, India e Bangladesh— vent'anni fa erano tra i paesi più poveri del mondo, la loro crescita è stata una forza per restringere la disuguaglianza in tutto il mondo” (ibidem).

 

I globalizzatori e la disuguaglianza in tutto il mondo

“La disuguaglianza interpersonale a livello mondiale è stata abbastanza stabile negli ultimi quarant'anni, mostrando al massimo una debole tendenza al ribasso che è improbabile che sia statisticamente significativa, date le immense difficolta inerenti a queste valutazioni. Più interessante per i nostri scopo è l'effetto della rapida crescita dei globalizzatori post-1980 in questa misura della disuguaglianza. [...] La maggior parte della disuguaglianza di reddito interpersonale a livello mondiale può essere attribuita alle grandi differenze di reddito medio tra i paesi, piuttosto che alle disuguaglianze nella distribuzione del reddito all'interno dei paesi. E poiché molti dei globalizzatori erano inizialmente poveri, la loro rapida crescita nel corso degli ultimi vent'anni ha contribuito a ridurre le disparità di reddito tra i paesi. [...] La maggior parte del calo della componente della disuguaglianza tra paesi può essere interpretata in relazione alla rapida crescita dei globalizzatori, in particolare Cina ed India, le cui vaste dimensioni economie gli hanno dato un peso sostanziale in queste stime” (ibidem).

 

Conclusioni

“L'integrazione dell'economia mondiale nel corso degli ultimi venti anni è stata drammatica. Le esperienze dei globalizzatori post-1980 mostrano che il processo può avere grandi benefici, contribuendo alla crescita dei redditi e al crollo della povertà e permettendo che alcuni dei paesi più poveri nel mondo si mettessero al passo con i paesi più ricchi. I veri perdenti della globalizzazione sono quei paesi in via di sviluppo che non sono stati in grado di cogliere le opportunità di partecipare a questo processo” (ibidem).

 

 

Luciano Gallino: le caratteristiche della stratificazione nelle società contemporanee

Luciano Gallino, uno tra i sociologi italiani più autorevoli e influenti, nel libro Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza 2009), espone quelle che considera le caratteristiche della “stratificazione” nelle società contemporanee.

 

Potere “sovrano” di grandi imprese, banche centrali, organizzazioni internazionali

La prima caratteristica che Gallino sottolinea è la progressiva perdita di potere decisionale da parte dei governi nazionali a favore del potere economico concentrato nelle grandi imprese, nelle banche centrali e nelle organizzazioni internazionali.

“Il potere economico e politico degli alti dirigenti di grandi imprese, di banche centrali, di organizzazioni internazionali è diventato un potere mondiale, assai superiore a quello di molti governi. Le direttive della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale in tema di aggiustamento strutturale dell'economia, o dell'Organizzazione mondiale per il commercio in tema di tariffe e libertà degli scambi, condizionano tasso e modello di sviluppo nonché il bilancio pubblico di decine di paesi indebitati con l'Occidente. In vista dell'introduzione della moneta unica, le banche centrali europee, ovvero i loro dirigenti, hanno avuto maggior peso dei singoli governi nell'anteporre i parametri della stabilità monetaria ai tassi di sviluppo e di occupazione, con conseguenze di prima grandezza a carico delle popolazioni dell'Unione Europea” (Globalizzazione e disuguaglianze, cit., p. 70).

 

Crescita delle disuguaglianze a livello mondiale

Il secondo punto sottolineato da Gallino riguarda la forte polarizzazione del reddito a livello mondiale.

“Sono fortemente cresciute, con una forte accelerazione negli ultimi vent'anni, le disuguaglianze di reddito ai due estremi della piramide della stratificazione. Secondo i dati via via riportati dai rapporti annuali del United Nations Development Programme, nel 1960 il quinto più ricco della popolazione mondiale, che si può stimare includa i primi quattro-cinque strati superiori, si divideva il 70,2 % del PIL del mondo, mentre al quinto più povero, formato all'incirca dai quattro strati inferiori, toccava il 2,3 %: il rapporto tra il primo e l'ultimo quintile era dunque di 30:1. Nel 1991 la disuguaglianza di PIL tra i due quintili era salita a 61:1. Il primo quintile disponeva, infatti, dell'84,7 % del reddito totale prodotto nel mondo; all'ultimo quintile restava l'1,4 %. Infine nel 1997, cui si riferiscono i dati del Rapporto 1999, il primo quintile è giunto a disporre dell'86 % del PIL mondiale, mentre il quintile più povero è sceso all'1 %. Non occorre quindi nemmeno una calcolatrice per stabilire che il rapporto tra i più ricchi e i più poveri, a livello mondo, è ora, in riferimento al PIL disponibile, pari a 86:1. Entro determinate società si possono osservare disuguaglianze ancora più marcate tra singoli strati. Negli Stati Uniti, per esempio, il reddito medio dei dirigenti esecutivi di massimo livello, ammontava nel 1975 a 326.000 dollari l'anno, contro gli 8.000 dollari in media degli operai e impiegati; donde un rapporto di 41:1 tra il reddito dei primi e il reddito dei secondi. Ma a metà degli anni Novanta il reddito medio di un dirigente esecutivo di massimo livello era giunto a toccare i 3.700.000 dollari, laddove quello degli operai e impiegati toccava appena i 20.000, per cui il rapporto tra i due redditi risultava salito a 187:1” (ibidem, pp. 71-72).

 

Precarizzazione del lavoro

Il terzo punto che Gallino individua come caratterizzante la stratificazione sociale nelle società contemporanee è rappresentato dalla progressiva precarizzazione del lavoro e dalla riduzione delle tutele per il lavoratore.

“Sono comparse o ricomparse nuove forme di disuguaglianza, sia in assoluto (nel senso che quasi nessuna società avanzata le conosceva), sia localmente (nel senso che disuguaglianze già esistenti in altre società sono ora osservabili in società dov'erano pressoché ignote). Nuova, per esempio, è la diseguaglianza manifestatasi nelle società europee tra i lavoratori stabili, assunti con un contratto a tempo pieno e di durata indeterminata, e i lavoratori definibili a vario titolo come precari o flessibili: operai e impiegati assunti a tempo parziale, tecnici con contratti a tempo determinato, dipendenti di società che forniscono prestazioni interinali, quadri e dirigenti licenziati e utilizzati saltuariamente come consulenti ecc. In Gran Bretagna i lavoratori privi di occupazione stabile formano da tempo oltre il 50 % delle forze di lavoro entrate in azienda nel decennio Novanta. In Germania i lavoratori che si trovano in condizioni 'non normali' quanto a sicurezza, salario e qualificazione hanno superato nello stesso periodo un terzo del totale. In Italia, secondo i dati ISTAT, i nuovi ingressi al lavoro in forma atipica – tempo parziale, durata determinata ecc. - superano ogni anno, dal 1996 in avanti, il 65 % del totale. In ciò si riflette un programmatico trasferimento di rischio dalle imprese e dallo stato agli individui” (ibidem, p. 73).

 

Lavoratori poveri nelle società avanzate

Gallino evidenzia inoltre il ripresentarsi nelle società economicamente più sviluppate di un fenomeno che richiama i primi sviluppi del processo di industrializzazione: l'aumento dei lavoratori poveri.

“Strati sociali di cui si preconizzava nelle società avanzate una forte riduzione, se non anzi la scomparsa, hanno conservato le stesse dimensioni o le hanno accresciute. Tra gli altri lavoratori poveri, così definiti perché il loro reddito si colloca al disotto della soglia della povertà assoluta pur derivando da un lavoro stabile, sembrano un retaggio delle prime fasi dell'industrializzazione. Per contro essi sono in forte aumento sia in Europa sia negli Stati Uniti. In questi ultimi, ponendo la soglia di povertà a 12.500 dollari di reddito l'anno (in moneta odierna) per una famiglia di 4 persone, essi sono aumentati dall'8,4 % del 1969, sul totale della popolazione attiva, al 23,2 % del 1994. Nel Regno Unito la quota dei poveri è salita tra gli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta. In Italia l'ISTAT ha rilevato la presenza di 4 milioni di persone che si collocano sotto l'80% della soglia di povertà relativa – ovvero sono prossime alla soglia della povertà assoluta” (ibidem, p. 73).

 

Globalizzazione economica e lotta internazionale “tra” i lavoratori

Ulteriore elemento individuato da Gallino come caratterizzante le dinamiche globali del mercato del lavoro è la competizione internazionale tra i lavoratori a bassa qualificazione delle società più sviluppate rispetto ai lavoratori del paesi in via di sviluppo.

“Accade con il nuovo secolo che i sistemi di stratificazione delle società avanzate siano influenzati, più che dai modesti tassi di sviluppo nazionali, dalla globalizzazione dell'economia. Essa ha posto in competizione gli strati dei lavoratori a bassa qualificazioni ma con salari relativamente alti, ancora presenti nei paesi avanzati, con i larghissimi strati di lavoratori aventi a un tempo basse qualifiche e bassi salari che esistono nei paesi in via di sviluppo. Quasi ovunque ha ridotto i redditi reali (cioè ricondotti a una moneta costante) dei membri delle classi medie, che hanno reagito aumentando il numero di occupati per famiglia. Ha però acconsentito a una frazione minoritaria dei medesimi soggetti di accrescere sostanzialmente il proprio reddito, nel mondo sempre più competitivo e mobile di un'economia in cui gli scambi finanziari eccedono da 50 a 100 volte gli scambi di beni e servizi, facendoli così salire verso il culmine della stratificazione” (ibidem, p. 80).

 

L'istruzione non promuove più mobilità sociale

Gallino sottolinea anche il fatto che il grado di istruzione non è più un fattore decisivo per la mobilità sociale degli individui.

“Un comune fattore individuale di mobilità è stato, ed è tuttora nei paesi in via di sviluppo, il grado di istruzione. Famiglie di operai, di contadini, di piccoli commercianti, spingono i figli a conseguire un diploma di scuola superiore, o la laurea, favorendone così la promozione sociale e l'inserimento negli strati sovrastanti. D'altra parte nelle società avanzate l'influenza positiva del fattore educazione sulla mobilità tende ad annullarsi, sia perché diminuiscono per ragioni strutturali le aperture negli strati medio-alti, sia perché l'elevata disponibilità di diplomati e di laureati accresce la competizione tra gli individui e motiva le organizzazioni a chiedere titoli di studio sempre più elevati, anche per lavori di qualificazione media o bassa. In tale situazione gli individui sono comunque spinti a conseguire un titolo di studio elevato, perché senza di esso non avrebbero alcuna speranza di ottenere o conservare un posto di lavoro qualsiasi” (ibidem, pp. 81-82).

 

Esclusione dei giovani dal sistema produttivo

Gallino sottolinea anche come l'affermarsi, a livello ideologico, della logica delle competenze per la selezione dei lavoratori, ha prodotto una progressiva esclusione dei giovani dal sistema produttivo:

“Agli individui si richiede che facciano fronte alle sfide dell'economia mondializzato mostrando capacità di rapido adeguamento ai mutamenti tecnologici e organizzativi, spirito di iniziativa, disposizione alla mobilità professionale e territoriale, assunzione di responsabilità per il proprio futuro. Chi mostra di non possedere in elevata misura tale pluriforme competenza, o viene sospettato di non possederla – che è il caso frequente, da un lato, dei giovani in cerca di prima occupazione, dall'altro degli occupati appena sopra i quarant'anni, siano essi operai, quadri o dirigenti – ha elevate probabilità di essere escluso dal sistema produttivo, o perché è costretto a uscirne, o perché non riesce a entrarvi. I principi in base ai quali avviene l'esclusione non hanno qui uno stato giuridico, ma costituiscono delle norme di comportamento cui gli attori economici collettivi e lo stato si adeguano in modo generalizzato e sistematico, legittimati dalla cultura del primato della 'logica della competenza'. Allorché si possono 'identificare dei gruppi aventi uno status definito che li colloca in una posizione speciale, tale da sanzionare la loro esteriorità in rapporto alla società normale', sembra legittimo parlare di esclusione” (ibidem, pp. 88-89).

 

Rappresentazioni collettive individualiste' e assenza di proteste

Infine, Gallino individua un legame tra l'affermarsi di rappresentazioni collettive che esaltano l'incidenza, per la mobilità sociale, del merito individuale e l'assenza di proteste contro la crescente disuguaglianza prodotta dai processi di globalizzazione economica.

“Le rappresentazioni collettive della stratificazioni non sono semplicemente un riflesso passivo di quest'ultima, più o meno semplificato. Influiscono fortemente sull'agire sociale degli individui e sono così atte a modificare struttura e mutamento di un sistema di stratificazione. Se gli individui sono convinti che non avranno mai i mezzi per salire nella scala sociale, non compiranno sforzi per conseguire tal fine, e la mobilità ascendente in quel sistema sarà ridotta. Nei casi in cui la loro immagine della società è radicalmente dicotomica, saranno più inclini, in funzione della situazione, da aderire a movimenti sociali estremisti, di sinistra o di destra. Infine, allorché le disuguaglianze esistenti in una società, sebbene considerevoli, sono interpretate come sostanzialmente eque, esse motiveranno gli individui a comportamenti sociali e politici diversi rispetto al caso in cui, benché siano oggettivamente meno marcate, esse vengano percepite come ingiuste.

È il caso delle abissali disuguaglianze che la globalizzazione ha scavato tra paesi e strati sociali nel mondo intero. Esse hanno dato finora origine a limitati movimenti di protesta, perché non solo gli strati che più ne beneficiano, ma anche la massa degli strati intermedi le considera eque. Eque in quanto dovute, essi credono, unicamente a differenze individuali di merito, di impegno, di propensione al rischio. Qualora tali interpretazioni e credenze dovessero venir meno, detti movimenti di protesta potrebbero rapidamente assumere una ampiezza incontenibile in molte parti del mondo” (ibidem, pp. 93-94).

 

Amartya Sen: attuare una più equa distribuzione delle risorse a livello globale

Amartya Sen, economista e filosofo indiano, Premio Nobel per l'economia nel 1998, Lamont University professore presso la Harvard University, nel saggio Dieci punti sulla globalizzazione, raccolto nel libro Globalizzazione e libertà (Mondadori, 2002, p.4-7), partendo da un giudizio neutro sul processo di globalizzazione, evidenzia come il problema sia il crescente livello di disuguaglianza materiale e invita ad attuare politiche finalizzate a ridurre tale disuguaglianza e a realizzare una più equa distribuzione delle risorse a livello globale.

 

La globalizzazione di per sé non è una follia

“La globalizzazione ha arricchito il mondo dal punto di vista scientifico culturale, così come ha recato benefici economici a molti popoli. Pochi secoli fa, una povertà pervasiva e una vita 'nasty, brutish and short' (brutta, bestiale e breve) rappresentavano la regola nel mondo, con poche e rare eccezioni. Sia la tecnologia moderna sia le interrelazioni economiche hanno avuto un ruolo importante nel superamento di quella miseria. Le difficili condizioni economiche in cui versavano i poveri del mondo non possono essere rovesciate privandoli dei grandi vantaggi della tecnologia contemporanea, della collaudata efficienza del commercio e degli scambi internazionali, e dei benefici, economici così come sociali, di vivere in società aperte piuttosto che chiuse. Quello di cui c'è bisogno è una distribuzione più equa dei frutti della globalizzazione”.

 

Il tema centrale, direttamente o indirettamente, è la disuguaglianza.

“La sfida principale ha a che fare, in un modo o nell'altro, con la disuguaglianza, sia tra le nazioni sia nelle nazioni. Le disuguaglianze rilevanti comprendono le differenze nella ricchezza, ma anche le macroscopiche asimmetrie nel potere politico, sociale ed economico. Una questione cruciale è la divisione, tra paesi ricchi e paesi poveri o tra differenti gruppi in un paese, dei guadagni potenziali generati dalla globalizzazione”.

 

La preoccupazione principale è il livello della disuguaglianza, non la sua variazione agli estremi.

“Quando affermano che i ricchi stanno diventando sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, come abbastanza spesso accade, i critici della globalizzazione scelgono il terreno di scontro sbagliato. Sebbene la situazione di una parte consistente dei poveri nel mondo sia peggiorata (per ragioni diverse, di ordine sia locale sia internazionale), è difficile stabilire una tendenza generale e netta. Molto dipende dagli indicatori scelti e dalle variabili in funzione delle quali vengono valutate povertà e disuguaglianza. Questo dibattito, tuttavia, non dovrebbe essere posto come una precondizione per occuparsi del tema davvero centrale, vale a dire degli enormi livelli di disuguaglianza e povertà nel mondo. La preoccupazione principale è legata ai livelli di disuguaglianza e povertà, non alla loro variazione agli estremi. Se anche i sostenitori dell'ordine economico contemporaneo avessero ragione affermando che, in linea di massima, i poveri hanno fatto dei piccoli passi avanti (il che, di fatto, non è generalmente vero), l'urgenza di rivolgere immediatamente e completamente l'attenzione alle terribili privazioni e alle sconvolgenti disuguaglianze mondiali non verrebbe meno”.

 

La questione non è semplicemente se tutte le parti guadagnino qualcosa, ma se la distribuzione dei guadagni sia equa

“Quando la cooperazione genera guadagni, possono esistere molti accordi reciproci che, diversamente da quanto accade in assenza di cooperazione, prevedano benefici per tutte le parti. È però necessario chiedersi non soltanto se esistano guadagni per tutte le parti (il che è vero per molti accordi possibili), ma anche se la distribuzione dei benefici sia equa o accettabile. Come ha argomentato oltre mezzo secolo fa il matematico e teorico dei giochi John Nash, in presenza di guadagni generati dalla cooperazione il tema centrale non è se un particolare risultato comune sia per tutti migliore rispetto all'assenza di cooperazione, ma se si traduca in una divisione equa dei benefici. Allo stesso modo, per sostenere che una struttura famigliare oltremodo sessista e disuguale è ingiusta non è necessario provare che la situazione delle donne sarebbe migliore se le strutture famigliari non esistessero affatto, è sufficiente mostrare che la divisione dei benefici in tale sistema famigliare è gravemente disuguale e ingiusta rispetto alla struttura famigliare attuale”.

 

Growth is good for the poor: un mito neoliberista

Richard Douthwaite, un ex-economista del Department of the Environment, è l'autore di The Growth Illusion: How Economic Growth Enriched the Few, Impoverished the Many and Endangered the Planet (Green Books, 1990) (L'illusione della crescita: come la crescita economica ha arricchito i pochi, ha impoverito i molti e ha minacciato il pianeta, TdR). Il 14 giugno 2000, Richard Douthwaite pubblica, su “The Guardian”, un articolo polemico intitolato Growth is good for the poor, che risponde a un rapportodella Banca mondiale secondo cui esistono equazioni matematiche che provano che quando i ricchi diventano più ricchi, anche i poveri diventano più ricchi. Secondo Douthwaite, tale tesi è un mito. La posizione di Douthwaite è la seguente:

 

Manifestazione di Seattle e riconoscimento che libero commercio comporta disuguaglianza

“I manifestanti contro i colloqui sul commercio mondiale a Seattle lo scorso dicembre e contro la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale nel mese di aprile sono riusciti ad ottenere un ampio riconoscimento al loro principale argomento: ovvero, che il libero commercio globale sta aumentando il divario tra ricchi e poveri, sia all'interno dei singoli paesi sia tra i vari paesi.
Ci sono prove statistiche schiaccianti per questo punto di vista. Il Progetto di Sviluppo delle Nazioni Unite lo va dicendo da diversi anni. Il Rapporto sullo sviluppo umano del 1999 ha dichiarato che il divario di reddito tra il quinto della popolazione mondiale che vive nei paesi più ricchi e il quindi della popolazione mondiale che vive in paesi più poveri era di 74-1 nel 1997, 60-1 nel 1990 e 30 a 1 nel 1960.
All'interno dei paesi – si è detto – la disuguaglianza è in aumento dal 1980, e si cita come esempio di ciò, la Cina, i paesi dell'Europa orientale, della Comunità degli Stati Indipendenti e, in particolare, 'la Svezia, il Regno Unito e gli Stati Uniti'” (TdR).

 

Secondo la neoliberista Banca Mondiale la globalizzazione è buona per i poveri

“Ma i fautori del libero commercio, guidati dalla Banca Mondiale, cercano di combattere questa posizione. La loro nuova arma, ampiamente acclamata dalla stampa finanziaria la scorsa settimana, è un dettagliato e lungo paper, pieno di equazioni e di teoria, intitolato Growth is Good for the Poor [la crescita è buona per i poveri] e firmato da David Dollar e Aart Kraay, che sono membri del gruppo di ricerca della Banca Mondiale.
Il Financial Times ha detto che il paper 'fornisce ciò che sembra essere l'evidenza incontestabile' che la crescita sostenuta aumenta i redditi reali dei poveri e che la crescita è 'favorita solo attraverso le politiche a cui molti dei dimostranti si oppongono: per la stabilità macro-economica e l'apertura al commercio'.
Anche il The Guardian è entrato in questa discussione. Mark Atkinson ha scritto sulle pagine economiche che il rapporto ha illustrato 'il danno che verrebbe inflitto ai poveri se i governi dovessero ascoltare troppo i manifestanti a Seattle e ritirarsi dai mercati aperti'” (Ibidem).

 

Uno dei miti del nostro tempo

“Dal momento che le presunte conclusioni di Dollar e Kraay sembrano destinate a diventare uno dei miti del nostro tempo, per essere usate trionfalmente ogni volta che scoppiano discussioni sulla globalizzazione, vale la pena guardare a ciò che il loro rapporto dice effettivamente, e a ciò che davvero mostrano i suoi dati, piuttosto che alla amplificazione che viene basata su di essi”.

 

I dati

“Etichettato come 'preliminare e incompleto', il loro paper sostiene che 370 osservazioni da 125 paesi per oltre quattro decenni mostrano che:
Quando un paese cresce economicamente, i redditi dei poveri – la parte inferiore del 20% della popolazione sulla scala di reddito – tendono a crescere allo stesso tasso percentuale di quelli di tutti gli altri;
durante le crisi economiche i redditi dei poveri proporzionalmente non scendono di più di quelli dei più ricchi. Questo vale tanto per i paesi poveri quanto per quelli più ricchi;
il rapporto non è cambiato negli ultimi anni, quando i paesi si sono progressivamente aperti alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali;
l'apertura al commercio internazionale beneficia i poveri nella stessa misura in cui beneficia tutti gli altri;
la spesa pubblica per l'istruzione primaria e per le istituzioni democratiche non fa nulla per aumentare la quota del reddito nazionale che va ai poveri;
il taglio della spesa pubblica e l'arginamento dell'inflazione aumenta il tasso di crescita. […];
la spesa sociale dello Stato non aumenta il tasso di crescita né aumenta la quota di reddito nazionale che va ai poveri”.

 

La crescita solleva i redditi dei poveri tanto quanto quelli di tutti gli altri?

“Le ultime tre notevoli conclusioni sono state accolte con gioia dai fondamentalisti economici e richiedono un'indagine a parte. Nello spazio qui disponibile, il meglio che possiamo fare è guardare all'affermazione posta come titolo del documento, che la crescita è buona per i poveri, perché solleva i loro redditi tanto quanto quelli di tutti gli altri”.

 

Dati non sufficientemente accurati

“Dal momento che il quinto più povero della popolazione di ogni paese ottiene solo una piccola frazione del reddito nazionale totale – negli Stati Uniti, per esempio, il quinto più povero ottiene il 4.2% - una spiegazione per i risultati di David Dollar e Aart Kraay può essere che i loro dati non sono sufficientemente accurati per raccogliere i reali cambiamenti in atto. Un errore dell'1%, per esempio, può significare che il povero ha perso un quarto del suo reddito, senza che questo appaia nei risultati. 'C'è molta approssimazione' - afferma Ray Thomas, che insegna statistica presso la Open University. 'Stimare il reddito del quinto più basso (c'è che hanno fatto Dollar e Kraay) [...] non è davvero buono se lo scopo dell'esercizio è fare generalizzazioni circa il livello medio dei redditi del quinto più basso.'
In particolare, secondo anche quanto hanno scritto Dollar e Kraay, loro sanno molto poco di ciò che è successo alla distribuzione del reddito all'interno del quinto più basso. Thomas pensa che qualora la maggior parte dei redditi percepiti dal quinto più basso vada ai membri più ricchi di esso, i dati di Dollar e Kraay potrebbero benissimo mancare di cogliere ciò che sta accadendo ai più poveri tra i poveri.
Quindi la spiegazione più probabile del conflitto tra le statistiche del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e quelle di Dollar e Kraay è da rintracciare nell'inadeguatezza dei dati. 'Per la maggior parte dei paesi, sono disponibili sono una o una manciata di osservazioni', ammettono nel loro paper”.

 

Il numero assoluto dei beni che i ricchi possono permettersi è cresciuto molto più velocemente rispetto a quello dei poveri

“Inoltre, anche se accettiamo l'affermazione del paper secondo cui i redditi dei poveri sono cresciuti allo stesso ritmo di quelli dei ricchi in termini percentuali, ciò che questo significa nella vita reale è che il numero assoluto dei beni che i ricchi possono permettersi è cresciuto molto più velocemente rispetto a quello dei poveri. Se inizialmente il primo 80 % della popolazione possiede il 96 % dei redditi e il quinto più basso ne possiede solo il 4 %, una crescita del 25% avrebbe consentito ai poveri di acquisire un altro bene per ogni 20 beni acquisiti dal primo 80%”.

 

L'aumento dei redditi non implica miglioramento delle condizioni di vita

“Ma ciò – misurare tutto in termini di denaro – significa giocare lo stesso gioco degli economisti. Questo è un errore perché […] anche se i redditi aumentano bruscamente è impossibile dire, senza un esame sociale dettagliato, se la popolazione del paese interessato ha migliorato le sue condizioni di vita.
Ad esempio, poiché le statistiche di crescita misurano solo le parti monetizzate dell'economia, loro ignorano quello cose che che la gente fa per sé. Quindi, se un bambino è curato da sua madre a casa, ciò non contribuisce al reddito nazionale e quindi alla crescita. Se il bambino è curato da una baby-sitter, questo contribuisce alla crescita. Un pasto al McDonald aggiunge più al prodotto interno lordo che un pasto cucinato a casa. La crescita può quindi essere generata rendendo le persone meno autosufficienti. Se questo indica che stanno meglio è un'altra questione.
Supponiamo, per esempio, che quando un paese del terzo mondo ha aperto la sua economia al mondo ai suoi lavoratori agricoli è stato richiesto di diventare più meccanizzati. Se, di conseguenza, sono stati necessari meno lavoratori in campagna e loro si sono trasferiti nei bassifondi delle città, è possibile che tale cambiamento abbia potuto generare crescita ed è possibile che il reddito delle persone che si sono trasferite nei bassifondi delle città sia più alto di quello che era quando le medesime persone vivevano nei villaggi.
Tuttavia, poiché avrebbero poi dovuto acquistare tutto il loro cibo e carburante invece che produrlo da sé, e potrebbero dover pagare l'affitto e le tariffe per la prima volta, per loro ciò potrebbe facilmente essere molto peggio”.

 

Il paper della Banca mondiale non è una ricerca ma un documento politico

“L'articolo di Dollar e Kraay non è una pura ricerca. È un documento politico scritto, così come Dollar mi ha detto, perché 'noi avevamo paura che l'attuale dibattito sulla globalizzazione avrebbe fatto perdere di vista il fatto base che lo stato dei poveri è legato alla salute generale dell'economia. Se l'economia non cresce, è molto improbabile che ciò faccia bene ai poveri'.
Questo è vero, ma solo perché abbiamo un sistema economico che, qualunque sia il danno che sta facendo alla vita delle persone e all'ambiente, deve continuare ad espandersi, altrimenti vi è il collasso, che prende con sé sia il povero sia tutto il resto.
Invece di agire come promotori della crescita, Dollar e Kraay avrebbero fatto meglio nell'occuparsi ad indagare come il sistema deve essere cambiato cosi che la crescita possa essere arrestata senza che ciò costi ai milioni di poveri quel piccolo reddito che loro hanno”.

 

La crescita fallisce nel migliorare le condizioni dei più poveri

“Infatti, se ci rivolgiamo alle conclusioni, ciò che mostra il loro articolo è che l'impoverimento viene usato come pretesto per continuare con un processo di crescita che è fallisce nel migliorare in termini relativi le condizioni dei più poveri. Dopo tutto, se il reddito dei poveri aumenta solo 1 a 1 rispetto alla crescita complessiva, loro non saranno mai in grado di colmare il gap” (TdR).