La globalizzazione favorisce la crescita economica, la riduzione della disoccupazione, l'aumento della produttività

L'aumento del commercio influenza positivamente sulla crescita economica

Sul sito del Fondo Monetario Internazionale viene riportato un report intitolato Trade, Growth and Poverty, a firma di David Dollar e Aart Kraay, entrambi responsabili della Ricerca del Gruppo di Ricerca e Sviluppo della Banca Mondiale, pubblicato nel settembre del 2001, in cui, tra l'altro, si analizzano gli effetti della liberalizzazione del commercio internazionale sulla crescita in un gruppo di paesi in via di sviluppo tra gli anni Ottanta e Novanta. Una delle conclusioni del contributo pubblicato sul sito del Fondo Monetario Internazionale e redatto da economisti della Banca mondiale è la seguente: un aumento del commercio come quota del Pil di venti punti percentuali incrementa la crescita dallo 0.5 al 1 % all'anno. La liberalizzazione del commercio internazionale, pertanto, ha un effetto statisticamente significativo sulla crescita economica.

Nel report si legge che:

“Il mondo è diventato un posto troppo piccolo nel corso degli ultimi due decenni. Il commercio internazionale è cresciuto due volte più velocemente del reddito di tutto il mondo in questo periodo. Spinto dai progressi della tecnologia dell'informazione, una quota crescente di questo commercio è in servizi anziché in merci, in particolare tra i paesi ricchi. Le partecipazioni azionari sono cresciute enormemente durante lo stesso periodo.
Quali sono le implicazioni dell'integrazione internazionale — o globalizzazione —per la disuguaglianza e la povertà? In una recente ricerca (Dollar and Kraay, Trade, Growth, and Poverty, World Bank Policy Research Department Working Paper No. 2615, TdR), abbiamo esplorato tale questione studiando le esperienze di un gruppo di paesi in via di sviluppo che si sono aperti significativamente al commercio internazionale durante gli ultimi due decenni. Forniamo la prova che, contrariamente alle credenze più diffuse, l'aumento degli scambi ha fortemente incoraggiato la crescita e la riduzione della povertà e ha contribuito a ridurre il divario tra ricchi e poveri in tutto il mondo” (TdR).

 

I globalizzatori post-1980

“Noi illustriamo i punti principali della nostra ricerca focalizzandoci sulle esperienze di un piccolo gruppo di paesi in via di sviluppo che hanno visto grandi incrementi negli scambi nel corso degli ultimi vent'anni. Ci riferiamo a questi paesi come i globalizzatori post-1980 (“post-1980 globalizers”)". Per prima cosa abbiamo escluso i paesi membri dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), così come le tigri dell'Asia orientale (Hong Kong, la Repubblica di Corea, Singapore e Taiwan, la Provincia della Cina), e il Cile, le cui esperienza in merito alla liberalizzazione degli scambi nel 1960 e 1970 sono ben note. Abbiamo poi classificato il resto dei paesi in via di sviluppo in base ai loro incrementi nel commercio e selezionato i migliori come 'globalizzatori'. [...] I 24 globalizzatori contengono molti paesi che hanno liberalizzato il proprio commercio con l'estero tra cui Argentina, Cina, Ungheria, India, Malesia, Messico, Filippine e Tailandia. Perché la Cina, l'India, e molti altri grandi paesi sono compresi, oltre la metà della popolazione mondiale vive in via di sviluppo in questo gruppo” (Ibidem, TdR).

 

I tassi di crescita sono aumentati

“La crescita pro-capite del Pil nei globalizzatori post-1980 è cresciuta dal 1.4 % all'anno negli anni sessanta al 2.9 % all'anno negli anni settanta fino al 3.5 % negli anni ottanta e 5.0 % negli anni novanta. Questa accelerazione della crescita è ancora più notevole, dato che i paesi ricchi hanno visto cali costanti per quanto riguarda la crescita da un massimo del 4,7 % negli anni sessanta al 2,2 % nel 1990. Inoltre, i paesi in via di sviluppo che non hanno liberalizzato il commercio hanno fatto molto peggio dei globalizzatori, con tassi di crescita annuali che scendono da picchi del 3.3 % durante gli anni settanta al solo 1.4 % durante gli anni novanta. Questa rapida crescita tra i globalizzatori non è semplicemente dovuta alle forti performance di Cina e India negli anni 1980 e 1990 —18 dei 24 globalizzatori hanno sperimentato incrementi nella crescita, molti dei quali abbastanza consistenti” (ibidem, TdR).

 

La crescita del PIL reale pro capite

“Anche se queste esperienze suggeriscono gli effetti di crescita del commercio, esse sono poco conclusive. In una recente ricerca, abbiamo studiato più sistematicamente gli effetti in termini di crescita del commercio utilizzando un ampio campione di paesi sviluppati e in via di sviluppo. Sebbene gran parte della letteratura ha esaminato gli effetti del commercio sulla crescita (e molti di questi studi hanno rinvenuto sostanziali effetti di crescita del commercio), queste prove, recentemente, sono state soggette a critiche [...]
In primo luogo, molti studi misurano l'apertura commerciale semplicemente come la quota del commercio di un paese in riferimento al suo Pil. Tuttavia, le differenze di quote commerciali dei paesi riflettono le loro caratteristiche geografiche (per esempio, i paesi più piccoli e vicini ai mercati principali tendono a commerciare maggiormente rispetto ai paesi che sono più grandi o più lontani) in misura molto maggiore rispetto alle loro decisioni riguardanti la politica commerciale. Di conseguenza, è difficile trarre conclusioni da molti di questi studi [...] circa gli effetti della liberalizzazione del commercio sulla crescita. Peggio ancora, la correlazione osservata tra il commercio e la crescita può semplicemente riflettere determinanti geografiche di crescita. I tentativi di utilizzare misure più dirette di politica commerciale (come tariffe medie o barriere non tariffarie) hanno mostrato risultati contrastanti, sebbene ciò potrebbe semplicemente riflettere le difficoltà nel misurare sistematicamente questi indicatori di politica commerciale.
In secondo luogo, è spesso difficile distinguere gli effetti della liberalizzazione del commercio da altre scelte di politica nazionale—dopo tutto, molti paesi che liberalizzano il commercio spesso intraprendono contemporaneamente altre riforme domestiche che possono anche avere considerevoli benefici in termini di crescita. Senza un controllo adeguato delle altre politiche, si rischia di confondere gli effetti della liberalizzazione del commercio con quelli delle altre politiche che favoriscono la crescita.
In terzo luogo, è difficile identificare la direzione della causalità in molti studi esistenti— È il commercio che causa una più veloce crescita oppure sono le economie in crescita che determinano anche un maggior commercio? Sebbene l'individuazione definitiva degli effetti causali del commercio sulla crescita è destinato a rimanere irraggiungibile per qualche tempo, è possibile valorizzare i molti studi esistenti che ignorano completamente la questione.

Nella nostra recente ricerca, abbiamo cercato di affrontare alcune di queste questioni. Al fine di eliminare la componente determinata geograficamente del commercio, abbiamo stimato l'effetto del commercio sulla crescita usando i cambiamenti decade-per-decade nel commercio dei paesi intesi come quote del loro Pil. Ciò, per definizione, rimuove l'effetto spurio della geografia sul commercio e la crescita (perché le caratteristiche geografiche dei paesi non cambiano nel tempo) e, a nostro avviso, dà una misura più chiara (sebbene ancora lontana dall'essere perfetta) della componente del commercio indotta politicamente. Per controllare gli effetti degli altri cambiamenti contemporanei nelle politiche e nelle istituzioni che possono influenzare la crescita, abbiamo incluso misure della stabilità della politica monetaria, dello sviluppo finanziario e di instabilità politica. Infine, abbiamo usato una tecnica econometrica per la quale i risultati sono meno propensi a riflettere una causalità inversa che va dalla crescita al commercio” (Ibidem, TdR).

 

La prova dell'influenza positiva del commercio sulla crescita

“L'evidenza che emerge da questa analisi è in linea con le esperienze dei globalizzatori post-1980. Abbiamo trovato un effetto statisticamente ed economicamente significativo del commercio sulla crescita: un aumento del commercio come quota del Pil di venti punti percentuali incrementa la crescita dallo 0.5 al 1 % all'anno” (Ibidem, TdR).

 

La Globalizzazione, i vantaggi comparati e le dinamiche mutevoli del commercio

L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è un'organizzazione economica internazionale, che raccoglie 34 paesi membri, e che è stata fondata nel 1961 con l'obiettivo di stimolare il progresso economico e il commercio globale. Si tratta di un forum di paesi che si descrivono come impegnati per la democrazia e per l'economia di mercato, fornendo una piattaforma per confrontare le esperienze politiche, cercando risposte ai problemi comuni, e coordinare le politiche nazionali e internazionali dei suoi membri.
Nel 2011, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico pubblica un volume collettaneo dal titolo Globalisation, Comparative Advantage and the Changing Dynamics of Trade, la cui prospettiva comune è ben sintetizzata nella prefazione scritta da Ken Ash, che è stato dal 1999 direttore dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico prima di diventare nel 2009 direttore per il commercio e l'agricoltura.

 

Preoccupazioni sugli effetti a lungo termine delle misure straordinarie adottate in risposta alla crisi globale

Scrive Ash nella prefazione al volume sopracitato:

“Le scosse di assestamento della crisi finanziaria ed economica del 2008-2009 continuano a scuotere l'economia mondiale. Mentre il prodotto interno lordo, il commercio e gli investimenti sono cresciuti in ciascun periodo successivo a partire dal secondo trimestre del 2009, i tassi di crescita non sono tornati ai livelli pre-crisi. Forse, l'impatto più duraturo della crisi è l'erosione della fiducia nei mercati finanziari e nella governance economica. Le preoccupazioni persistono per quanto riguarda gli effetti a lungo termine delle misure straordinarie adottate in risposta alla crisi, per quanto riguarda la sostenibilità del debito pubblico e la volatilità dei mercati finanziari e immobiliari.
La disoccupazione in tutta l'area dell'OCSE rimane sopra l'8% e la disoccupazione giovanile dovrebbe raggiungere il 18 % entro la fine del 2011. Mentre l'economia mondiale resta debole, vi sono limitate alternative politiche: la politica monetaria nella maggior parte dei paesi ECSE è rimasta la più espansiva possibile, dato l'avvento della crisi e la politica fiscale è vincolata dal livello di debito del settore pubblico” (TdR, p. 3)

 

La politica commerciale può essere la soluzione alla crisi

“Ma le riforme strutturali, in particolare quelle che possono generare immediati guadagni occupazionali senza significativi esborsi governativi restano ancora promettenti. La politica commerciale […] è una di queste politiche strutturali. Mentre né il commercio né la politica commerciale hanno causato la crisi, essi dovranno essere parte della soluzione” (ibidem).

 

Il protezionismo danneggia la crescita

“Con l'aumento della globalizzazione, la linea di demarcazione tra la politica nazionale e la politica internazionale è sempre più sfocata. Alcune delle misure adottate per salvare settori di importanza sistemica (come quello bancario), per conservare posti di lavoro (come nel settore industriale dell'automobile) o per stimolare la crescita (come, ad esempio, sgravi fiscali su specifici settori del consumo), potrebbero diventare elementi di 'torbido' protezionismo e discriminare le tra le imprese e le merci nazionali oppure estere. Molti governi rimangono attivamente coinvolti in industrie selezionate che sono state particolarmente colpite durante la crisi. Mentre le misure straordinarie sono giustificate durante una crisi, esse potranno nel tempo distorcere i mercati, generare impatti anti-competitivi, invitare alle ritorsioni, e, perversamente, danneggiare la crescita e la produttività. Tali misure sono un alto prezzo da pagare per sostenere alcuni settori economici a scapito di altri. Una cosa è l'adozione di politiche volte a facilitare l'aggiustamento strutturale nel corso di una crisi, un'altra è il loro utilizzo per aumentare artificialmente la competitività di prezzo dei prodotti nazionali. Con l'adozione di aggiustamenti strutturali è necessario anche garantire che le economie rimarranno competitive e genereranno opportunità di lavoro nel futuro” (ibidem).

 

Il principio dei vantaggi comparati

“Il principio dei vantaggi comparati rimane il principio base del quale i responsabili politici possono fidarsi per guidare le economie attraverso questo aggiustamento. Il concetto di vantaggio comparato presuppone che tutte le economie abbiano opportunità commerciali da sfruttare e queste opportunità derivano da differenze nei fattori di dotazione tra i paesi. Come mostrato dal lavoro in questo volume, il principio dei vantaggi comparati continua ad essere una delle più potenti spiegazione della più alta crescita di reddito delle economie aperte. Molti paesi in via di sviluppo sono cresciuti più rapidamente e sono diventati più ricchi consentendo il cambiamento strutturale in risposta alle forze del vantaggio comparativo. Questi paesi continueranno a risalire la catena del valore aggiunto e ad ampliare il numero dei posti di lavoro nei rispettivi settori di commercio” (ibidem).

 

Politiche di apertura dei mercati

“Negli ultimi dieci anni, molti paesi sviluppati hanno sperimentato una crescita del prodotto [...] sia in settori del commercio sia altri settori. [...] I costi di trasporto più bassi, le nuove tecnologie dell'informazione, e il declino degli ostacoli agli investimenti diretti esteri e al commercio stanno trasformando alcuni beni non commerciabili [non-tradeables] in beni per il commercio. Continuare nell'aprire i mercati sia per i beni sia per i servizi ha un senso economico, indipendentemente dalla fase di sviluppo di un paese. Ma il cambiamento strutturale per migliorare il benessere richiede la contrazione dei settori inefficienti al fine di consentire la crescita in aree più efficienti. Questa riallocazione a volte può essere lenta, difficile e potenzialmente incompleta. I governi hanno un ruolo importante da svolgere per favorire e accelerare questo processo, oltre a proteggere i più vulnerabili.
Politiche economiche, sociali, educative, del mercato del lavoro correttamente progettate possono servire ad aumentare le opportunità a disposizione di coloro che stanno per guadagnare dall'apertura del commercio e per aiutare coloro che sono disoccupati a sviluppare nuove competenze e trovare nuove opportunità” (ibidem).

 

Aprire il mercato per la ripresa economica

“Nel complesso, le prove fornite in questo libro sottolineano ciò che è noto da tempo, ma non sempre invocato nella definizione delle politiche. Così come David Ricardo ha sostenuto due secoli fa, sono le differenze tra i paesi, che includono le differenze nell'impostazione dei criteri e dei risultati delle politiche, che creano differenze relative in termini di produttività e danno luogo a scambi e guadagni dallo scambio. Ma le politiche di prodotto o settoriali specifiche possono minare i guadagni che provengono dal commercio. Più di ogni altra cosa, ciò implica che l'apertura commerciale e la specializzazione guidata dai vantaggi comparativi non è un vincolo allo sviluppo economico, ma piuttosto il suo catalizzatore. L'apertura del mercato e la rimozione delle rimanenti distorsioni commerciali, attraverso approcci multilaterali, regionali, bilaterali o unilaterali, dovrebbe essere la chiave delle iniziative politiche strutturali in considerazione di una ripresa che sia equilibrata e sostenuta” (ibidem, TdR).

 

Globalizzazione, occupazione ed esternalizzazione

Robert T. Parry è un economista che ha fatto carriera nel settore bancario fino a rivestire dal 1984 al 2004 la carica di presidente e amministratore delegato della Federal Reserve Bank di San Francisco. In una comunicazione, presentata alla Hawaii Society of Investment Professionals in Honolulu il 29 aprile 2004 (riportata con il titolo Globalization: Threat or Opportunity for the U.S. Economy? sul sito della Federal Reserve Bank of San Franciso il 21 maggio 2004), Robert Parry affronta, brevemente, quattro temi distinti: la ragione per cui la maggior parte degli economisti è favorevole al libero mercato; il processo per cui, in una società, il settore dei servizi supera d'importanza il settore agricolo e quello industriale; se la globalizzazione è una minaccia oppure un'opportunità per l'economia americana; e, infine, se e quali politiche possono aiutare i lavoratori americani nell'era della globalizzazione.
Questa discussione è introdotta dall'esplicitazione dei timori di disoccupazione e impoverimento che, in genere, l'opinione pubblica e la classe media dei paesi economicamente sviluppati condivide. Secondo Parry, infatti: “Nella discussione in merito alle politiche per il lavoro, molta attenzione si è concentrata sul commercio e termini quali 'globalizzazione', 'terziarizzazione' e 'esternalizzazione'. La preoccupazione, naturalmente, è che un ambiente di libero scambio lasci che buoni posti di lavoro drenino dall'economia degli Stati Uniti e finiscano in Cina, in India e in altri paesi in cui i lavoratori richiedono salari più bassi. In casi stremi, alcuni vorrebbero vedere restrizione sul commercio per proteggere quei lavori e arrestare il trend verso la globalizzazione” (TdR).

 

Perché la maggior parte degli economisti sono favorevoli al libero mercato?

“In sostanza, l'argomento è che tutti traggono dei vantaggi quando i paesi si specializzano nel tipo di produzione in cui sono relativamente più efficienti. Considerate questa analogia con la famiglia: nessuna famiglia cerca di produrre tutto ciò che mangia, indossa, e utilizza se è più conveniente comprare qualcosa o avere qualcun altro che fa qualcosa: ciò è quello che una famiglia fa. Poi singoli membri della famiglia possono concentrarsi su come diventare bravi nel loro lavoro, al fine di pagare per quello che comprano.
Non è diverso per una nazione. Se produrre certi prodotti costa di meno all'estero che negli Stati Uniti, allora è difficile sostenere che i consumatori statunitensi e le imprese americane debbano pagare di più per i prodotti provenienti da produttori americani. Invece, ha più senso acquistare questi prodotti più a buon mercato dall'estero, se sono beni durevoli, come videoregistratori, o servizi, come call centers. Poi possiamo dedicare le nostre risorse per la produzione e l'esportazione di quei prodotti in cui abbiamo un vantaggio relativo. Il risultato è un duplice beneficio — maggiore efficienza e minori costi per le imprese e per i consumatori americani” (ibidem, TdR).

 

Cosa sono la “terziarizzazione” e la “esternalizzazione”?

“Nel suo senso più ampio, la terziarizzazione è semplicemente l'appalto di funzioni che erano svolte in passato, una pratica americana da lungo tempo. Quando una casa automobilistica in Michigan compra pastiglie dei freni da un fornitore intermedio in Ohio piuttosto che produrle in casa, questo è la terziarizzazione. Quando una società sostituisce i suoi lavori addetti alla pulizia e alla caffetteria con un appaltatore esterno che fa gli stessi servizi più a buon mercato, questo è terziarizzazione. Quando una società appalta le sue operazioni di busta paga, contabilità e software, questo è terziarizzazione. Chiaramente, la terziarizzazione può portare a perdite di posti di lavoro se il fornitore esterno è più efficiente e utilizza un minor numero di lavoratori.
L'esternalizzazione è stata indicata come il cugino globale della terziarizzazione. Invece di rivolgersi a fornitori nazionali, le imprese possono decidere di acquistare un prodotto o servizio da parte dei fornitori d'oltremare poiché hanno un costo minore. Anche l'esternalizzazione ha una lunga storia nel settore manifatturiero americano; per esempio, le imprese in Messico forniscono coprisedili e tergicristalli a case automobilistiche di Detroit. Ciò che sembra essere la novità riguardo alla esternalizzazione è che sta interessando i lavoratori nel settore dei servizi, che non si aspettavano di vedere la competizione straniera per i loro lavori – gestori di dati, programmatori di computer, e simili.
Quanto l'esternalizzazione si sta diffondendo? Questo è difficile da dire. Non abbiamo statistiche ufficiali, e ci sono molti problemi relativi all'instabilità delle misurazioni. Ma una coppia di stime che […] suggeriscono entrambe che gli Stati Uniti hanno perso tra il 2000 e il 20023 circa 100.000 -170.000 posti di lavoro a vantaggio dei lavoratori stranieri. Questi numeri suonano altisonanti fino a quando non vengono inseriti nel contesto del turn over che avviene ogni anno negli Stati Uniti. Ogni anno vengono persi circa 15 milioni di posti a causa delle ragioni più disparate —cambiamenti volontari di occupazione, licenziamenti, e così via. E in un'economia in crescita, vengono creati anche più posti di lavoro”(ibidem, TdR).

 

La globalizzazione è una minaccia o un'opportunità per l'economia americana?

“La risposta a questa questione metterà a fuoco tre importanti temi che sono talvolta trascurati nella discussione”.

 

L'attività economia scorre in entrambe le direzioni

“In primo luogo, la globalizzazione significa che l'attività economica scorre in entrambe le direzioni; anche se possiamo perdere posti di lavoro per i lavoratori stranieri, anche noi possiamo ottenere posti di lavoro e stimolare l'attività economica. Per esempio, i dati suggeriscono che, in termini di lavoro d'ufficio, gli Stati Uniti internalizzano molto più di quanto esternalizzano; cioè, così come le imprese statunitensi utilizzano i servizi di stranieri, le imprese straniere fanno un uso ancora maggiore dei servizi dei residenti negli Stati Uniti.

Il 'lavoro d'ufficio' si riferisce alla categoria di servizi di business, professionali e tecnici che includono la programmazione informatica, le telecomunicazioni, i servizi legali e bancari, l'ingegneria, la consulenza di gestione, i call centers, l'immissione di dati e altri servizi privati. Nel 2003, abbiamo comprato circa 77 miliardi dollari di questi servizi da stranieri, ma il valore dei servizi che abbiamo venduto agli stranieri era di gran lunga superiore, oltre 130 miliardi dollari.

Ecco un'altra serie di numeri interessanti. Tra il 1991 e il 2001, le multinazionali statunitensi hanno creato quasi 3 milioni di posti di lavoro all'estero. Ma hanno anche creato 5,5 milioni di posti di lavoro in America —un incremento di circa il 30 % degli occupati. Ciò rappresenta un tasso significativamente più veloce di crescita di posti di lavoro rispetto a quello generato da aziende puramente domestiche. E mostra che non si può presumere che un posto di lavoro creato all'estero significa necessariamente che quel posto di lavoro non si è creato all'interno. Per esempio, l'espansione di una rete estera significa spesso che si deve assumere più lavoratori negli Stati Uniti, ancora — persone nella gestione, nella logistica, in ricerca e sviluppo e tecnologie informatiche.

Infine, ecco un'altra serie di numeri. Secondo il Dipartimento del Commercio, anche se gli Stati Uniti 'perdono' posti di lavoro quando le proprie compagnie inviano operazioni off-shore, noi 'guadagniamo' posti di lavoro quando le multinazionali straniere investono qui. In particolare, le imprese straniere hanno impiegato quasi 6.5 milioni di lavoratori negli Stati Uniti nel 2001—rispetto ai circa 5 milioni nel 1991; questi lavoratori includono i ben pagati lavoratori della Honda e della Mercedes-Benz nell'industria automobilistica. Ci sono molti altri esempi. Nel 2006, Toyota impiegherà 2.000 persone nella fabbricazione di auto a San Antonio. Samsung investirà $500 milioni per espandere il suo impianto di semiconduttori ad Austin, in Texas. E Novartis sta spostando la sua divisione in ricerca e sviluppo dalla Svizzera al Massachusetts” (Ibidem).

 

Il libero commercio stimola la competitività

“Il secondo punto è che il libero commercio crea opportunità negli Stati Uniti per aiutare le economie straniere a diventare più forti. Così come i redditi crescono in altri paesi, così cresce la loro domanda di beni e servizi, molti dei quali questi paesi non saranno in grado di produrre, proprio come gli Stati Uniti non sono in grado di produrre altri beni e servizi. Questo aumento della domanda estera per le importazioni è un'opportunità per le imprese di competere per la fornitura di tali prodotti. E sarebbe un peccato perdere questa opportunità a causa delle barriere commerciali che i nostri politici ergono. Significherebbe esportazioni perse e posti di lavoro persi in tali settori”.

 

La globalizzazione stimola la produttività dell'economia nazionale

“In terzo luogo, la globalizzazione può aiutare ad aumentare la crescita della produttività negli Stati Uniti. L'esempio dell'effetto di esternalizzazione sulla diffusione delle tecnologie informatiche negli Stati Uniti e, dunque, sulla nostra crescita economica illustra questo punto. Secondo una stima, la produzione globalizzata di hardware —cioè, l'esternalizzazione della produzione informatica, come ad esempio le fabbriche di computer in Cina—riducono i prezzi dei computer e delle apparecchiature per le telecomunicazioni di circa il 10% - 30%. Queste diminuzioni dei prezzi potenziano la diffusione di tecnologie informatiche in tutta l'economia statunitense e accrescono la produttività e la crescita.
L'esternalizzazione offre il potenziale per abbassare i prezzi dei software, come pure dei servizi. Ciò promuoverà l'ulteriore diffusione delle tecnologie informatiche — e di nuovi processi di business che ottengono vantaggi dalla convenienza delle tecnologie informatiche. Si creeranno anche posti di lavoro per i lavoratori per progettare e implementare pacchetti di tecnologie informatiche per una vasta gamma di industrie e aziende. Sebbene alcuni posti di lavoro sono a rischio, i medesimi trends che rendono possibile l'esteriorizzazione stanno creando nuove opportunità — e nuovi posti di lavoro — in tutta l'economia americana” (Ibidem).

 

Produttività, creazione di posti di lavoro ed elevati standard di qualità della vita

“Finora ho menzionato più volte la produttività, e voglio brevemente concentrami su di essa, perché penso che giochi un ruolo significativo nella discussione riguardo ai posti di lavoro in America. Negli ultimi due anni, la produttività degli Stati Uniti nel settore delle imprese non agricole è cresciuto ad un tasso annuo del 4,8 %. A breve termine, questo incremento di produttività ha permesso alle aziende di soddisfare la domanda per la loro produzione senza dover assumere nuovi lavoratori. Quindi, sembra che questa straordinaria ondata di maggiore efficienza nella nostra economia illumini maggiormente la questione della situazione dei posti di lavoro che non quanto possa fare il riferimento alla terziarizzazione, alla esternalizzazione o alla globalizzazione.

Anche se, chiaramente, la produttività crea sofferenza per i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro, la maggior parte degli economisti concordano sul fatto che una maggiore produttività è un fatto positivo per l'economia. Perché? Perché, nel lungo periodo, una maggiore produttività è l'unico modo per creare più elevati standard di vita in tutta l'economia” (Ibidem).

 

Economia flessibile

“La capacità del lavoratore americano di produrre più bene e servizi per ora è stata la chiave del sorprendente successo dell'economia statunitense nel corso della sua storia. Si consideri il settore manifatturiero e quello agricolo, dove si possono attualmente produrre più beni con meno lavoratori. La stessa tendenza si è verificata nel settore dei servizi: Gli Stati Uniti avevano molti operatori telefonici, cassieri di banca, benzinai, ma ora i progressi tecnologici hanno preso il posto di molti questi posti di lavoro. Allo stesso modo, Internet ha sostituito molte operazioni di routin di agenzie di viaggio, agenti di borsa e contabili. E, con l'alta velocità di trasmissione dei dati, molta parte del lavoro d'ufficio può essere fatto in maniera più economica all'estero.
Cosa succede ai lavoratori sostituiti? Si spostano in altri settori dell'economia quando emergono nuovi posti di lavoro. Per esempio, secondo una stima, circa un quarto dell'attuale forza lavoro svolge occupazioni che non esistevano nel 1967.
L'emergere di nuovi posti di lavoro e la capacità dei lavoratori di trasferirvisi sono i tratti distintivi di un'economia flessibile — cioè, un'economia in cui sia le risorse del lavoro sia quelle del capitale si muovono liberamente attraverso le aziende e le industrie. E tale flessibilità è un punto di forza dell'economia americana. Noi operiamo in mercati competitivi, e la concorrenza, sia da parte dei competitors nazionali sia da parte di quelli stranieri, induce al cambiamento. Per adattarsi a questo cambiamento, e per alleviare l'onere dell'aggiustamento ad esso, mercati di lavoro flessibile sono di fondamentale importanza” (Ibidem).

 

Cosa possono fare le politiche per aiutare i lavoratori statunitensi?

“In termini di economia globale, politiche monetarie e fiscali adeguate sono in grado di garantire che la domanda aggregata mantenga l'economia su solide basi, che aiuti a generare posti di lavoro per sostituire quelli che sono stati persi.
Ma le parole circa la domanda aggregata possono sembrare una magra consolazione per i singoli lavoratori i cui uffici ed impianti stanno chiudendo perché i loro posti di lavoro stanno andando all'estero. E la preoccupazione per questi lavoratori, naturalmente, è il motivo per cui non c'è interesse nel cercare di limitare il commercio con tariffe, quote o altre barriere. Infatti, tali misure possono effettivamente avere successo nel rallentare temporaneamente le perdite di posti di lavoro nelle industrie colpite. Ma, come spero di aver illustrato, alla fine, tali misure impongono costi significativi sul resto dell'economia che sono molto più grandi dei loro benefici” (ibidem).

 

Non protezione dei posti di lavoro, ma protezione delle persone:

“Ecco perché credo che sia molto più opportuno disporre di politiche che si concentrino sulla protezione delle persone a rischio, non sulla protezione dei posti di lavoro. Tali politiche dovrebbero mirare a raggiungere due obiettivi durante le transizioni difficili: aiutare i lavoratori a superare i momenti difficili e aiutare i lavoratori a diventare più flessibili in modo che possano adattarsi quando dovranno far fronte a questo tipo di cambiamenti. In effetti, abbiamo politiche come queste — assicurazione di disoccupazione, per esempio. Abbiamo anche politiche specificamente per i lavoratori manifatturieri che hanno perso posti di lavoro a causa della competizione estera. Questi programmi di assistenza di aggiustamenti commerciali offrono sia un sostegno finanziario per un periodo di tempo sia l'occasione per la formazione, in modo tale che i lavoratori possano riorganizzare le proprie competenze e trovare nuovi posti di lavoro. Quindi, al fine di aiutare i lavoratori dei servizi che hanno perso il lavoro a causa dell'esternalizzazione, potrebbe essere opportuno estendere a loro tali programmi.
Mi rendo conto del dibattito circa l'efficacia di questi programmi, ma l'idea su cui si fondano, a mio parere, è proprio l'obiettivo di dare ai lavoratori una rete di sicurezza e la formazione e gli strumenti per qualificarsi per i posti di lavoro creati negli Stati Uniti. Infatti, tali programmi possono anche essere adatti per i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro in seguito allo slancio produttivo guidato dalla tecnologia”.

 

Istruzione e la produzione di lavoratori flessibili

“Nel lungo periodo, naturalmente, la soluzione è semplice da dire, ma difficile— e costosa — da implementare. E tale soluzione sta migliorando le performance del sistema educativo americano. L'istruzione è il fondamento del nostro attuale vantaggio di tecnologia e produttività. È la chiave per produrre lavoratori con la flessibilità di imparare nuove abilità in base all'evoluzione delle condizioni del mercato. Ed è la speranza e la promessa che dobbiamo fornire alle future generazioni di americani”.

Globalizzazione: un tendenziale peggioramento

Nel libro Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza, 2003), Luciano Gallino, uno dei più autorevoli sociologi italiani e tra i maggiori esperti del mercato del lavoro, attraverso una puntuale esposizione di dati statistici, cerca di confutare la tesi di coloro che propagandano il processo storico di globalizzazione come l'opportunità irrinunciabile per ottenere una più sostenuta crescita economica, una drastica riduzione della disoccupazione economica, un decisivo aumento della produttività. Al contrario, Gallino nota che, con l'avvento della globalizzazione, per ognuno di questi tre parametri, le statistiche mostrano un tendenziale e rilevante peggioramento.

Scrive Gallino:

“Della globalizzazione i media, le organizzazioni internazionali, gli esperti economici che aderiscono alla prima posizione concordano nel dire che essa favorisce a) la crescita economica, b) la riduzione della disoccupazione, c) l'aumento della produttività. In realtà, se si esaminano le serie storiche di questi indicatori, riferiti all'OCSE o più restrittivamente ai paesi oggi parte dell'UE, si constata che esse non sorreggono affatto simili affermazioni. A tal fine assumeremo come punto di svolta il 1980, poiché per diversi motivi è lecito affermare che giusto dall'inizio degli anni Ottanta il processo di globalizzazione ha registrato una forte accelerazione. In base alle suddette affermazioni si dovrebbe quindi osservare che, sia pure tra alti e bassi, i tre indicatori miglioreranno in modo significativo negli anni successivi. Tuttavia le statistiche dicono che è avvenuto il contrario: dopo il 1980 tutt'e tre gli indicatori peggiorano in misura rilevante rispetto ai venti o trent'anni precedenti” (L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze..., cit., pp. 99-100).

 

Rallentamento della crescita economica

“Per quanto riguarda la crescita del prodotto interno lordo, possiamo notare che l'insieme dei paesi OCSE ha conosciuto una crescita molto più lenta nel periodo successivo al 1980 che non durante gli anni '50 e '60. Il tasso tendenziale di crescita nel periodo post-1980 è stato soltanto poco più della metà di quello del periodo precedente. Durante gli anni '60, i paesi OCSE crescevano a un tasso di circa il 5 % annuo, mentre tra il 1981 e il 1990 il loro tasso di crescita è sceso al 3,2 %, e per buona parte degli anni '90 non ha superato l'1,5 %. Nell'insieme il tasso medio di crescita di questi paesi, per tutti gli anni '90, è stato poco sopra il 2 %. In Italia, tra il 1992 e il 1998, è stato addirittura la metà. In sintesi, la dinamica economica dei paesi industriali è stata significativamente più vivace prima, e non dopo, il momento in cui hanno proceduto alla cosiddetta liberalizzazione o de-regolazione dei loro mercati interni. Ciò vale tanto per la finanza quanto per i prodotti, i servizi destinati alla vendita e il mercato del lavoro. Inoltre la minor crescita economica nel periodo più recente non appare dovuto alla modesta prestazione di alcuni grandi paesi, tra i quali rientra certo l'Italia, ma è stata una costante tra i paesi membri dell'OCSE. Infatti, diciotto di essi su venti hanno registrato, nel periodo 1980-91, un tasso di sviluppo inferiore a quello del periodo1960-71. Nè sarebbe corretto asserire che sul rallentamento della crescita in tale decennio hanno pesato gli aggiustamenti strutturali del bilancio pubblico in vista della creazione della moneta unica poiché essi hanno avuto luogo solo più tardi” (ibidem, p. 100).

 

L'aumento della disoccupazione in Europa

“Per quanto riguarda la disoccupazione, l'epoca della globalizzazione è stata contrassegnata nell'Europa occidentale dal massiccio ritorno alla disoccupazione di massa. Nel dicembre 1999 Eurostat ha annunciato che negli 11 paesi dell'Euro la disoccupazione era scesa per la prima volta dopo sette anni sotto la soglia critica del 10 %. I commentatori che hanno salutato con enfasi questo dato positivo avrebbero dovuto ricordare che negli anni Sessanta i medesimi paesi avevano un tasso di disoccupazione medio cinque volte più basso, cioè il 2 %. Nei 15 paesi UE, si legge peraltro nel medesimo comunicato, 15,4 milioni di persone erano nell'autunno 1999 in cerca di lavoro” (ibidem, p. 101).

 

Declino della produttività

“Per quanto riguarda la produttività, nei paesi industriali essa ha segnato negli ultimi due decenni un forte declino a confronto degli anni '50 e '60. Tra il 1980 e il 1995, i paesi sviluppati hanno conosciuto una crescita del PIL reale pro-capite di poco più del 2 % l'anno, laddove nel periodo 1950-73 il suo incremento annuo sfiorava il 4 %. Perfino negli Stati Uniti, paese guida della globalizzazione, il tasso di incremento della produttività si è dimezzato dopo il 1973, passando da 2 all'1 %, e ha cominciato a risalire solamente nella seconda metà degli anni '90” (ibidem, p. 100).

 

La situazione in Italia

Se “in Italia, [il tasso medio di crescita] tra il 1992 e il 1998, è stato addirittura la metà”, anche l'aumento della disoccupazione e il declino della produttività sono confermati dalla situazione italiana.
Scrive Gallino: “Nel periodo 1960-75 le persone in cerca di occupazione, stando alle rilevazioni dell'ISTAT, sono oscillate tra 1 e 1,2 milioni. In 8 anni su 15, si può aggiungere, il loro numero è stato ancora più basso: tra 0,9 e 1,1 milioni. Val la pena di notare che nel 1975, con una popolazione cresciuta di quasi 6 milioni di unità, il numero di persone in cerca di occupazione rilevato dall'ISTAT era quasi identico al 1960: 1.226.000 rispetto a 1.215.000. I corrispondenti tassi di disoccupazione erano del 5,6 e del 5,9 per cento: poco meno della metà del tasso odierno. Nell'anno che per convenzione si può considerare di svolta quanto a sviluppo della globalizzazione, il suaccennato 1980, il numero dei disoccupati supera i 2 milioni, per stabilizzarsi poi, durante tutto il successivo ventennio, tra i 2,5 e i 2,8 milioni. Nell'ottobre 1999 le persone in cerca di occupazione rilevate dall'ISTAT – sebbene, va notato, con criteri differenti rispetto al periodo precedente il 1992 – erano 2,6 milioni, pari all'11, 1 per cento”. (ibidem, p. 101)

 

I dati americani

Secondo quanto riportato da Gallino, anche i dati americani smentiscono la tesi dei fautori della globalizzazione secondo cui la globalizzazione comporterebbe un aumento della crescita, dell'occupazione e della produttività. Scrive Gallino in relazione agli Stati Uniti: “Se si divide il secondo dopoguerra in due periodi, 1945-73, e 1973-fine anni Novanta, si osserva che il primo è stato un periodo in cui i redditi sono rapidamente cresciuti, mentre i benefici della crescita economica erano ampiamente distribuiti. In tale periodo il salario reale dei lavoratori dipendenti è cresciuto di oltre l'80 %. Dal 1973 alla seconda metà degli anni '90, per contro, esso è diminuito del 20 per cento. Se l'aumento delle retribuzioni delineatosi nella seconda parte del decennio proseguirà, i lavoratori americani possono sperare di recuperare verso il 2010-2015 il medesimo potere d'acquisto di cui disponevano all'inizio degli anni '70”.

Continua poi Gallino: “La povertà e la disuguaglianza negli Stati Uniti sono considerevolmente aumentate negli ultimi decenni. Con una novità: non soltanto i disoccupati di lungo periodo, ma anche i salariati a tempo pieno sono scesi in gran numero sotto la soglia della povertà relativa. Di fatto, il 30 % dei salariati americani percepiva nel 1999 un salario inferiore ai due terzi del salario mediano. Ciò spiega verosimilmente come mai, grazie anche agli interventi ricompresi nella cosiddetta 'guerra alla povertà', il tasso di bambini al di sotto della soglia di povertà fosse sceso dal 27 % del 1960 al 14 % nel 1973, mentre nel 1993 esso era risalito al 23 %. Inoltre, quasi tutti gli aumenti di reddito derivanti dalla crescita economica nell'ultimo decennio sono andati al 5 % più ricco delle famiglie americane. In tal modo, il reddito di detto 5 %, che nel 1980 superava di 6,8 volte il reddito del 20 % più povero tra le famiglie americane, nel 1998 è arrivato a superarlo di 8,2 volte. La polarizzazione delle condizioni di vita, in effetti, sembra essere l'effetto più comune della globalizzazione” (Ibidem, pp. 102-103).

 

La situazione dei paesi non avanzati

“Il Bureau International du Travail stima che al volgere del secolo su circa 3 miliardi di individui che rientrano in totale nelle forze di lavoro, oltre 1 miliardo è disoccupato o sotto-occupato. Tra le concause della disoccupazione a livello planetario si indicano la crescita della popolazione, combinata alla diffusa e capillare espansione dell'economia monetaria a scapito di quella informale indotta proprio dalla globalizzazione. Il meccanismo è semplice quanto brutale. Le persone sono forzate a lasciare le campagne e a inurbarsi, un processo che deriva dalla brusca esposizione alla concorrenza di comunità che per secoli avevano contato solamente sulle produzioni locali; dalla razionalizzazione dell'agricoltura; dalla meccanizzazione; dall'impiego di sementi selezionate; dal ricorso a esperti delle organizzazioni internazionali, e da altri dispositivi. Ma quando 1000 persone uscite dall'economia informale dei villaggi, dove in qualche modo trovavano mezzi di sussistenza, accorrono nelle città per cercare lavoro, non più di 100-200 lo trovano; le altre che lo cercano senza trovarlo, né hanno alcun mezzo di sussistenza, sono allora registrate come disoccupati, così come richiede l'economia monetaria” (ibidem, p. 104).

 

Effetti perversi, imprevisti e duraturi, della globalizzazione

“Se questi sono i risultati della globalizzazione quale si è affermata dopo gli anni '80, due implicazioni paiono evidenti. In primo luogo, quali che fossero le intenzioni che verso la metà degli anni '70 diedero avvio al progetto politico ed economico denominato 'globalizzazione', occorre riconoscere che esso ha generato effetti né previsti né desiderabili dal punto di vista dei suoi stessi promotori. I sociologi parlano al riguardo, senza sottintendere alcuna connotazione morale, di 'effetti perversi'. In secondo luogo, non esiste alcun indice continente o tendenziale il quale autorizzi a pensare che gli automatismi in essere della globalizzazione porteranno quanto prima ad annullare o minimizzare tali effetti. Di fatto, non si vede come potrebbero i medesimi automatismi mettere in condizione le imprese e le persone di cogliere le potenzialità positive della globalizzazione, far ritornare l'occupazione ai livelli pre-1980, o mantenere le disuguaglianze sotto quella soglia superata la quale si mette in pericolo la stabilità sociale entro i singoli paesi, non meno che a livello mondo” (L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, cit., pp. 105-106).