Il nucleare è economico e competitivo

Una panoramica

I costi da considerare ai fini di una stima complessiva dell’economicità dell’opzione nucleare sono molteplici. Vanno infatti opportunamente considerati i costi di impianto (predisposizione del sito e realizzazione delle opere civili, messa in opera delle attrezzature, ottenimento di autorizzazioni e permessi), i costi di produzione, fissi (ad esempio la manutenzione programmata delle centrali, le assicurazioni) e variabili (consumo di combustibile, costi di esercizio), i costi del combustibile (dall’estrazione all’arricchimento, dalla trasformazione in barre al trasporto presso il sito), i costi di smantellamento del sito.
La variabilità dei costi mappati fa sì che le stime siano piuttosto eterogenee ma dagli studi che seguono emerge una sostanziale competitività economica del nucleare.
Così su “Il Sole 24 Ore”: “[Il nucleare] è una tecnologia molto costosa se si ha un solo reattore, ma diventa assai conveniente quando si costruiscono molte centrali-fotocopia, come in Francia” (Energia nucleare: le risposte ai tre quesiti fondamentali, “Il Sole 24 Ore”, 13 ottobre 2007).

 

Gli studi internazionali sui costi

Nel contributo di Kenneth B. Medlock III e di Peter Hartley del James A Baker III, Institute for Public Policy della Rice University, intitolato The role of nuclear power in enhancing Japan’s Energy Security (Il ruolo dell’energia nucleare nell’aumentare la sicurezza energetica del Giappone, TdR), viene stimato un costo di 75 Euro MWh (0,075 € kWh) e che esiste un livello di capacità nucleare in grado di minimizzare i costi di produzione.
Nel 2003 Risto Tarjanne e Kari Luostarinen della Lappeenranta University of Technology, redigono il report di ricerca Competitiveness comparison of the electricity production alternatives (Confronto di competitività tra le diverse modalità di produzione dell’energia elettrica, TdR). Dall’analisi emerge che i costi di generazione di un MWh di energia elettrica da fonte nucleare si attesti intorno a 23,7 Euro contro i 32,3 €/MWh della produzione da gas e i 28,1 €/MWh della produzione da carbone.
Ulteriori studi (Powering the nation: A review of electricity generating costs della PB Power, Levelised Unit Electricity Cost Comparison of Alternative Technologies for Base load Generation in Ontario del Canadian Energy Research Institute e Projected Costs of Generating Electricity: 2005 Update della Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica IEA/NEA) dimostrano che l’energia nucleare, a regime, è assolutamente competitiva con le altre fonti di energia.
Anche in Italia l’interesse per gli studi sull’economicità del nucleare è notevole. Nello studio I veri costi dell’Energia Nucleare (Paper di Ricerca NT1127, 2006) realizzato da Vincenzo Romanello, Guglielmo Lomonaco e Nicola Cerullo del Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Nucleare e della Produzione dell’Università di Pisa, emerge una netta convenienza della produzione dell’energia elettrica da nucleare rispetto a quella da fonti fossili (tre eurocents/kWh vs 6,88 eurocents/kWh).

Nel rapporto Impatto dell’energia nucleare su sostenibilità e economicità per varie opzioni di mix energetici, studio delle variabili macroscopiche energetico-ambientali realizzato nel 2012 per l’ENEA da Sara Boarin, Michele Mazzoccoli, Marco Ricotti del Politecnico di Milano, emerge un potenziale sostanziale valore aggiunto apportato dalla produzione di energia elettrica da nucleare. L’energia elettrica da nucleare, a differenza di quella derivante da altre fonti, assicura produzione e stoccaggio costanti che permetterebbero di contrastare le speculazioni che avvengono nella borsa elettrica, specie nelle fasce orarie di massimo consumo.

 

Il caso della Germania

Recenti sono i dati sull’impatto del phase out della Germania; la Repubblica Federale Tedesca sull’onda emotiva del disastro di Fukushima del marzo 2011 ha scelto con l’Energiewende di rinunciare all’apporto del nucleare a favore di enormi investimenti nelle rinnovabili. Una scelta giudicata da Umberto Veronesi “legata a un evento specifico che non deriva da alcuna valutazione razionale sul tema” (La Germania dice addio al nucleare, “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011).
A distanza di soli due anni la svolta energetica, eletta a manifesto per l'Europa durante la prima campagna della Merkel, è sotto accusa. Una commissione di esperti nominati dal Parlamento certifica gli elevati costi della strategia e boccia in sostanza il dietrofront sul nucleare.
Secondo Barbara Ciolli: “Non è possibile smettere di inquinare senza ridimensionare lo stile di vita e rinunciare ai comfort acquisiti negli anni d'oro. Fare i virtuosi, investendo sulle energie alternative dopo mezzo secolo di eccessi e avvelenamento del pianeta, non basta. Neppure se, a scommettere sul cambiamento, è un Paese programmato, determinato, risparmiatore e in genere vincente come la locomotiva d'Europa” (Barbara Ciolli, Germania, l'energia rinnovabile ha fallito, “Lettera43”, 28 febbraio 2014).

Dal rapporto emerge che l’Energiewende “non è uno strumento dai costi efficienti per difendere il clima, né è capace di creare un'effettiva innovazione, al di là di risultati molto bassi. […] Per entrambi i motivi non esiste alcuna giustificazione per continuarne l'applicazione. […] L'energia verde costa. Dal 2006, in media, il prezzo di elettricità, gas e altri combustibili si è alzato di quasi il 24%. E nonostante le promesse della Merkel di non far gravare gli incentivi sui contribuenti, […] centinaia di gestori dell'energia elettrica hanno annunciato rincari del 3,4% sulla corrente. Il calo di produzione da nucleare e gli incentivi alle alternative hanno fatto lievitare le bollette delle famiglie tedesche. La stima è di un carico di oltre cinque centesimi a chilowattora (Kwh) per le rinnovabili, per aumenti netti di decine di euro l'anno sul bilancio familiare. Con una spesa, per un nucleo di tre persone, di un migliaio di euro annuo per l'elettricità (circa 3.500 Kwh), la Germania è il paese dell'Ue con le bollette più salate” (Ibidem).
I dati sul caso tedesco sono confermati anche da un rapporto del World Energy Council, (cui fa riferimento Andrea Tarquini, La politica energetica tedesca è un flop: 'addio al nucleare costerà mille miliardi, “La Repubblica”, 20 marzo 2013), un'associazione internazionale dei produttori d'energia, che prevede un’ulteriore crescita dei prezzi dell’energia elettrica con un sostanziale indebolimento dell’economia tedesca dovuta anche alla necessità di accrescere la quota di energia importata. 

 

Innovazione e costi

La ricerca scientifica sta tra l’altro compiendo enormi passi avanti anche in termini di gestione dei costi. Come riportato su “La Repubblica.it” il 17 luglio 2014: “al forum nucleare Atomexpo 2014, svoltosi a Mosca, è stato presentato l'ultimo sviluppo nell'ingegneria atomica russa ad opera della compagnia Niaep-Ase: Multi-D. Si tratta di una tecnologia innovativa capace di garantire un effettivo controllo sui progetti ingegneristici complessi. Alla base di tale tecnologia vi è un software intelligente di disegno tridimensionale che non tiene conto solo dei parametri spaziali, ma anche di quelli finanziari e temporali, permettendo di realizzare qualsiasi oggetto ingegneristico entro il tempo programmato, nei costi previsti e con i materiali stabiliti” (Se il nucleare entra nell’era green, “repubblica.it”, 17 luglio 2014).

 

L’opinione di Claudio Scajola

Secondo l’ex ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola: “Quella energetica è l'emergenza più grande che dobbiamo affrontare per lo sviluppo del Paese. L'Italia ha dormito per vent'anni, con il risultato che paghiamo l'energia il 30% in più rispetto agli altri Paesi europei […]. Per troppi anni abbiamo puntato su poche fonti provenienti da aree geografiche instabili. Inoltre il referendum del 1987, a ridosso dell'incidente di Chernobyl, ha favorito una scelta emotiva e un pregiudizio ideologico che ci hanno privati degli impianti nucleari” (Luca Salvioli, Scajola: “I vantaggi del nucleare arriveranno prima delle centrali”, “Il Sole 24 Ore”, 28 settembre 2008). Nel suo intervento all’ Italian Energy Summit 2008 organizzato dal “Sole 24 Ore” Scajola affermava che un mix ideale di fonti energetiche fosse costituito dal 25 % di fonti rinnovabili, dal 25 % di nucleare ed il restante 50 % da combustibili fossili con un netto taglio alla bolletta energetica. “I primi benefici [di un] progetto di 'rinascimento nucleare' [si avrebbero] in anticipo rispetto al completamento del nucleare: [...] quando i tempi di realizzazione e di entrata in esercizio degli impianti nucleari sono definiti con sufficiente certezza, diventa possibile, per le imprese energivore, definire contratti di approvvigionamento di lungo periodo, che anticipano riduzioni di prezzo a fronte dell'impegno delle stesse imprese a partecipare al finanziamento degli impianti” (Ibidem).

Da sinistra, già nel novembre 2007, l’allora vicepremier Massimo D’Alema intervenendo al Word Energy Council e commentando le proposte contenute nella terza direttiva dell’Unione Europea in materia energetica, riapriva la questione nucleare affermando la giusta direzione intrapresa dall’Unione che avrebbe determinato una “apertura del mercato […] a vantaggio dei consumatore” (Gabriele Dossena, D’Alema: il nucleare non è più un tabù. E i francesi si muovono, “Corriere della Sera”, 16 novembre 2007).

Una panoramica

Secondo Legambiente, come riportato nel rapporto I costi nascosti del nucleare (“legambiente.it”, 2008 e ripreso anche da “La Repubblica”): “Nella migliore delle ipotesi, quando tra 10-12 anni si iniziasse a generare elettricità nucleare sarebbe lo Stato, attraverso la fiscalità generale o gli utenti attraverso le bollette a cofinanziare il nucleare. Questo perché il costo è estremamente oneroso: oltre 5 miliardi di euro per una centrale” (Antonio Cianciullo, Manifesto degli imprenditori. Il governo ci ripensi, in “La Repubblica”, 5 dicembre 2010). In L’opzione nucleare John M. Deutch ed Ernest J. Moniz, professori presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) affermano: “Basandosi sulle esperienze precedenti oggi l’elettricità prodotta da nuovi impianti nucleari è più costosa di quella di nuovi impianti a carbone o a gas. […] In confronto si stima che a parità di condizioni un nuovo impianto a carbone produrrebbe a costo di 4,3 centesimi per kilowattora, a gas 5,2 ma il prezzo varia dalle quotazioni” (John M. Deutch, Ernest J. Moniz, L’opzione nucleare, “Le Scienze”, 2009, n. 459, pp. 72-79).

 

Lo studio del MIT

Il primo studio a sostegno dell’anti-economicità del nucleare (The Future of Nuclear Power: An Interdisciplinary MIT Study, “web.mit.edu/nuclearpower”, luglio 2003) vede un gruppo di studiosi afferenti al Massachusetts Institute of Technology (MIT) mappare un complesso sistema di costi giungendo alla conclusione che la produzione di elettricità tramite nucleare è di circa il 45% più costosa di quella ottenuta tramite gas e del 35% di quella ottenuta tramite carbone. Dallo studio emerge che anche riducendo i costi di costruzione a dodici mesi e i costi di investimento del 10% il nucleare sarebbe ugualmente non competitivo.

In un rapporto dettagliato (The economics of nuclear power, “greenpeace.org.uk”, giugno 2007) Greenpeace ricostruisce punto per punto le cause dell’assoluta antieconomicità dell’investimento nel nucleare. I costi fissi incidono in maniera pesante sia in termini di tempi e costi di costruzione sia in termini di remunerazione del capitale. Ulteriori eccessivi e spesso imprevedibili costi sono quelli di smantellamento e relativi alla gestione della sicurezza dell’impianto (assicurazioni e manutenzione), decisamente più elevati rispetto a quelli che riguardano gli altri sistemi di produzione di energia elettrica.

 

La posizione di Legambiente

Dello stesso avviso Legambiente che nel rapporto I più diffusi luoghi comuni sull’energia nucleare semplici da sfatare sintetizza le posizioni di numerosi esperti del settore: “Il nucleare è fuori mercato, per questo in Usa nessuno ci investe (Gianni Silvestrini); Mi basta solo riferire una semplice, ma assai significativa, notizia che a fine dicembre ha dato la Reuters circa l’unico nuovo reattore, da 1600 MW, in costruzione in Europa e precisamente in Finlandia (a Olkiluoto). La sua messa in esercizio era stata garantita dalle due ditte costruttrici, la francese Areva e la Tedesca Siemens, per il 2009, ma soprattutto, a detta del governo finlandese, questa centrale avrebbe garantito ai finlandesi energia elettrica a basso costo. La notizia che la nota agenzia ci dà è che nel 2009 non entrerà in funzione nulla, perché la messa in esercizio è stata posticipata al 2011 e soprattutto che i KWh che questa centrale produrrà costeranno molto cari visto che il costo della centrale è lievitato in pochi anni dai due ai tre miliardi di euro, più o meno quattro volte il costo di una centrale a gas metano a ciclo combinato di pari potenza (Massimo Serafini); Nemmeno l’introduzione di una carbon tax di 50 dollari per ogni tonnellata di anidride carbonica emessa da centrali a carbone, potrebbe rendere vantaggioso il nucleare” (Leonardo Maugeri)” (I più diffusi luoghi comuni sull’energia nucleare semplici da sfatare, “risorse.legambiente.it”, consultato il 23 febbraio 2015).

 

Lo studio di Marcello Cini

La continua frenata degli investimenti nella costruzione di nuove centrali dimostra l’insostenibilità della economicità dell’atomo. Il fisico Marcello Cini, professore emerito di Istituzioni di Fisica Teorica e Teorie Quantistiche all'Università "La Sapienza" di Roma, intervistato da Giorgio Parisi già nel 2008 affermava: “Nei paesi dell’Occidente non si costruiscono più centrali nucleari da 30 anni. Negli USA, dove gli investimenti sono privati, non si costruiscono più centrali […] la ragione sono i costi. Se si calcolano bene i costi, come deve fare un bravo capitalista, [devono essere considerati i costi di costruzione, i costi del combustionamento, i costi per essere messa in sicurezza ed i costi di gestione delle scorie]. In Finlandia c’è in costruzione una centrale che ha già sforato del 35% i costi previsti” (Giorgio Parisi, Marcello Cini, Il miraggio nucleare tra interessi e propaganda, “temi.repubblica.it/micromega-online”, 30 maggio 2008).

In 100 e più buone ragioni sul nucleare si afferma: “Negli ultimi 20 anni dove ha regnato l’economia di mercato, non è stata praticamente costruita nessuna centrale nucleare. Ciò nonostante la potenza elettrica installata nello stesso periodo è aumentata di molte centinaia di migliaia di megawatt. Ciò dimostra che nuove centrali nucleari non sono convenienti. [Inoltre] le [già esistenti] centrali atomiche garantiscono sempre più forza sul mercato alle imprese del nucleare. In sintesi, i costi di installazione delle nuove centrali, nonostante le curve di esperienza maturate, rimangono elevatissimi, ed inoltre le fette di mercato già “occupate” dall’industria nucleare consentono ad essa di speculare sui prezzi dell’elettricità” (E.W.S., Giorgio Ferrari, a cura di, 100 e più buone ragioni contro il nucleare, Bes Edizioni, 2011, p. 57).

Nello stesso testo si afferma che se la politica energetica investisse sulle rinnovabili, in particolare sull’eolico, i consumatori risparmierebbero ogni anno svariati miliardi di euro (il cosiddetto “effetto merit-order”): se “venissero a mancare le attuali enormi agevolazioni per il nucleare (attraverso l’introduzione di una realistica somma di copertura nelle assicurazioni contro terzi delle centrali nucleari, una tassazione dei fondi, o una tassa sul combustibile), la corrente prodotta con l’energia nucleare sarebbe inaccessibile” (Ibidem).

 

Il caso della Francia

Anche la Francia ha deciso di ridurre la spesa per il nucleare. Vittorio da Rold su “Il Sole 24 Ore” del 19 giugno 2014 riferisce come l’allora ministro dell’Ambiente Segolène Royal abbia annunciato di voler ridurre la produzione di energia elettrica dall’atomo dal 75% al 50% entro il 2025. Dopo mesi di intenso dibattito la Francia di Hollande definisce un piano che secondo la Royal “rappresenta ‘una grande sfida per il paese’ e ‘l’occasione per abbassare la bolletta energetica’, della Francia […] ‘per valorizzare nuove tecnologie per l’efficienza energetica’ e per ‘migliorare la competitività delle imprese’” (Vittorio Da Rold, La Francia mette un tetto al nucleare: dal 75 al 50% della produzione di energia entro il 2025, in “Il Sole 24 Ore”, 19 giugno 2014).

In particolare, tra le misure del complesso disegno di legge vi sarebbero: “l'obbligo di rinnovamento energetico in caso di ristrutturazione, […] l’ambizione di installare sette milioni di punti di ricarica per veicoli elettrici entro il 2030. […] il dimezzamento del consumo energetico finale nel 2050 in rapporto al 2012, riduzione del 30% nel 2030 del consumo delle energie fossili in rapporto al 2012” e la copertura con fonti rinnovabili del 32% del consumo energetico finale” (Ibidem).

 

Il caso della Gran Bretagna

Un segnale degli eccessivi costi del nucleare proviene anche dall’altro lato della Manica. Come riportato in un articolo di Federico Rendina su “Il Sole 24 Ore” del 2013: “Il segnale, inequivocabile, viene dall'Inghilterra: l'accordo raggiunto a Londra tra le autorità britanniche e gli artefici del nuovo reattore di Hinkley Point, ovvero le francesi Edf (Électricité de France, NdR) e Areva e i cinesi Cng e Cnnc, segnano infatti una vera debacle, almeno dal punto di vista della compatibilità economica. L'energia prodotta dalla centrale, che comunque sfornerà il primo elettrone non prima del 2023, verrà pagata almeno l'equivalente attualizzato degli attuali 109 euro a megawattora (92,5 sterline), il doppio del valore di mercato dell'elettricità britannica. E tutto il maggior costo sarà prelevato dai consumatori con le bollette” (Federico Rendina, Nucleare inglese, l'ostacolo dei costi, “Il Sole 24 Ore”, 18 novembre 2013).

Inoltre la rete di sicurezza necessaria per scongiurare un nuovo disastro ambientale presenta costi tali da impedire qualunque progetto economicamente realistico sul nucleare: il nuovo piano nucleare inglese che prevede a regime ben dodici nuove centrali sarà realizzabile solo attraverso un pesante sistema di incentivi. Il contract for difference, che si fonda appunto su un prezzo d'acquisto "pubblico" dell'elettricità atomica garantito per quarant'anni dall'inizio dell'operatività dell'impianto (stroke price) fa parte di un sistema di garanzie pubbliche che garantisce al 65% del colossale investimento da sedici miliardi di sterline necessario al progetto. Ancora più controversa è la scelta tecnologica operata: “l'impianto che sarà realizzato nel Somerset prevede due nuovi reattori, […] la controversa soluzione francese per il nucleare di ‘terza generazione e mezzo’ [la stessa adottata per l’ormai noto impianto finlandese di Okiluoto, tristemente famigerato per il, NdR] problematico ritardo e con i costi in continuo decollo [...]. Sta di fatto che la Gran Bretagna, già dipendente dal nucleare per una buona quota della sua energia e con le vecchie centrali avviate all'obsolescenza, ha grossi problemi di equilibrio energetico” (Ibidem).

 

Il caso della Germania

Emblematico è anche il caso della Germania, il primo paese industrializzato del vecchio Occidente che dal maggio 2011 ha scelto il phase out. Come riportato dal “Corriere della Sera” (La Germania dice addio al nucleare, “Corriere della Sera”, 30 maggio 2011) per la cancelliera Angela Merkel è necessario “seguire una nuova strada. Vogliamo che l'elettricità del futuro sia sicura, affidabile ed economicamente sostenibile. Le forniture energetiche in Germania hanno bisogno di una nuova architettura”. In Germania entro il 2022 saranno completamente ed irreversibilmente disattivati i diciassette reattori nucleari che garantiscono il 22% del fabbisogno di energia elettrica. Secondo il piano energetico tedesco “servono vasti sforzi per promuovere le energie rinnovabili, il miglioramento dell'efficienza e la revisione della rete elettrica” (Ibidem).

 

L’analisi di Romano Prodi

Sugli enormi costi di un possibile ritorno al nucleare in Italia, si riporta un’analisi di Romano Prodi. Così l’ex premier ed economista: “Io sono stato fra i pochi che hanno votato a favore del nucleare. L’ho fatto in piena coscienza, per la convinzione che un Paese come l’Italia non potesse e non dovesse uscire da un settore in cui aveva investito tante risorse e in cui, tramite migliaia di tecnici e scienziati, aveva accumulato un’esperienza e posizioni di eccellenza invidiate nel mondo. Di tutto ciò è rimasto poco o nulla. Non abbiamo più, checché se ne dica, un’industria capace di costruire una centrale. Abbiamo smantellato la più parte delle scuole specializzate in materia di tecnologie nucleari e gli studenti di ingegneria nucleare sono ridotti a poche decine in tutto il paese. Per decenni infatti non avevano alcuna possibilità di trovare un lavoro in questo campo in Italia. Abbiamo infine cancellato tutte le strutture pubbliche deputate a controllare la sicurezza […] non abbiamo più le competenze nelle istituzioni responsabili per le licenze e le procedure di costruzione. Abbiamo, in sintesi, distrutto quasi tutto il sapere scientifico, gestionale, industriale e istituzionale necessari per costruire una filiera nucleare. Tutto ciò lo possiamo certo ricostruire. Se se ne vuole fare una scelta strategica dobbiamo però avere chiaramente in mente tempi e costi di questa operazione. I tempi: dai 5,3 anni mediamente necessari per costruire le 160 centrali realizzate fra il 1965 e il 1976, si è passati ai 7,5 anni per le 260 centrali realizzate tra il 1977 e il 1988, a punte di circa 10 anni per le 28 centrali realizzate tra il 1996 e il 2000. Non meno significativo è il fatto che tra il 1970 e il 1990 si sono realizzate 17 centrali nucleari ogni anno, mentre tra il 1990 e il 2005 se ne sono costruite appena 1,7 centrali all’anno. Sarebbe necessario riflettere su questi dati e di capire le ragioni economiche che nell’Occidente tutto (a cominciare dagli Stati Uniti) hanno di fatto bloccato lo sviluppo nucleare. L’unica grande centrale in costruzione oggi in Europa al di fuori dalla Francia (precisamente in Finlandia) si trova di fronte ad aumenti dei costi e dei tempi di costruzione che non erano nemmeno immaginabili e che sono fonte di controversie giuridiche e finanziarie senza fine. A volere essere seriamente ottimisti, non è pensabile, anche correndo, che una centrale nucleare possa entrare in esercizio prima di 10-12 anni, fra i tempi dei processi autorizzativi, quelli di costruzione, i più rigorosi controlli dei siti e il reperimento dei luoghi dove confinare le scorie radioattive. Tutto ciò influisce pesantemente sui costi di costruzione delle centrali che, seguendo le iniziative in corso, sono fortemente crescenti nel caso del nucleare e sensibilmente in calo nel caso delle energie alternative. A questo si aggiunge il prezzo del combustibile, scarso nell’offerta mondiale anche quando il numero di centrali attive è complessivamente stazionario, come negli ultimi anni. Teniamo inoltre conto che, nel caso dell’Italia, non solo non abbiamo barre di combustibile pronte, ma non abbiamo più alcuna catena nazionale per la produzione di elementi di combustibile. Il nucleare è insomma una scelta tecnologica di grande complessità. Tutto si può fare, ma tutto ciò ha un costo enorme e margini di incertezza altrettanto grandi, soprattutto per un paese che non è stato ancora in grado di risolvere il problema dei rifiuti radioattivi ospedalieri. […] Mi sembra quindi di dovere concludere che o si comincia davvero questa strategia complessa, difficile e di dubbio risultato economico o è meglio lasciare perdere. Quando si è perso un treno è molto faticoso corrergli dietro” (Romano Prodi, Nucleare: tempi, costi e strategia. La sfida di un treno che deve correre forte, “Il Messaggero”, 28 febbraio 2010).

 

L’opinione di Emma Bonino

Come riportato da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del giugno del 2010 l’allora vice presidente del Senato Emma Bonino espone le ragioni economiche dell’illogicità di un ritorno al nucleare: “’Per quanto ci riguarda […] il treno del nucleare è passato vent'anni fa. Si parla di investire tra i venticinque e i trenta miliardi di euro senza conoscere lo scenario energetico nazionale’. […] ‘Questa rivoluzione copernicana annunciata dalla maggioranza corrisponde in definitiva a un misero 4,5% del consumo nazionale. In termine di benefici non è conveniente’. […] ‘I costi poi […] aumentano perché cambiano gli standard di sicurezza. Allora il nostro treno è quello dell’efficienza energetica, ma forse per qualcuno è meno glamour’” (Nichi Vendola: in Puglia né una centrale atomica né un rigassificatore, “La Gazzetta del Mezzoggiorno”, consultato il 21 gennaio 2015).