L'approccio “genocentrico” è sbagliato e non solo in relazione al comportamento: una certa scienza abusa della spiegazione genetica

Ipostatizzazione di geni

I fautori del determinsimo genetico, teoricamente connesso alla Sintesi Moderna fra genetica delle popolazioni, biologia molecolare ed evoluzionismo darwiniano, amano presentare la loro particolare impostazione teorica come unica rappresentante della tradizione darwiniana, anzi come vera e propria riedizione delle originali intuizioni del naturalista britannico. Tuttavia, il panorama degli studiosi di evoluzione e biologia è decisamente più variegato.
Una critica all'impostazione geno-centrica del determinismo sociobiologico viene, dunque, dallo stesso complesso mondo delle scienze naturali e biologiche: tradizioni alternative a quella del neodarwinismo della Sintesi Moderna sottolineano con fastidio il ricorso automatico a spiegazioni di tipo genetico per ogni fenomeno. Una tendenza che porta a ipostatizzare la presenza di una causa genetica per ogni fenomeno rilevabile, anche quando tale presenza non è necessaria e il fenomeno in questione potrebbe essere spiegato attraverso il ricorso a spiegazioni alternative: “il determinismo genetico rappresenta il nucleo centrale della teoria sociobiologica; per far funzionare la teoria è necessario invocare l'esistenza di geni che abbiano esattamente le proprietà desiderate sia a livello fisiologico che nel corso dello sviluppo, in accordo con ciascun caso. Ma tutto quello che sappiamo attualmente sullo sviluppo degli organismi e la natura dei geni, ci dice che esistono alcune restrizioni sui possibili tipi di variazione genetica che possono presentarsi all'interno di ciascuna specie, e certamente nessuno ha la libertà di inventare geni con proprietà arbitrarie e complesse per il semplice fatto che ciò è conveniente con le sue teorie” (Steven Rose, Richard Lewontin, Leon Kamin, Il gene e la sua mente. Biologia, ideologia e natura umana, Mondadori, 1983, p. 260).

L'impostazione metodologica del determinismo genetico funziona come una sorta di ideologia che porta a non saper ricorrere ad altra spiegazione all'infuori dei geni, secondo un processo di cattiva inferenza: “fino a oggi nessuno è stato in grado di correlare un qualche aspetto del comportamento sociale umano con un qualche particolare gene o insieme di geni, né qualcuno ha mai suggerito un piano particolare sperimentale per verificare tale correlazione; così, tutte le asserzioni a proposito delle basi genetiche di caratteristiche sociali umane sono necessariamente solo speculative, per quanto concrete possano apparire. Cosa asserisce la sociobiologia a proposito delle relazioni tra la fenomenologia di caratteristiche evidenti, come l'aggressione, e i geni o i cromosomi umani? Talvolta si postula un singolo gene che codifica per una determinata caratteristica, più spesso si stabilisce la natura ipotetica del gene, ma poi si lascia cadere il 'se' dalla discussione successiva, trattando il modello ipotetico come fosse reale: in questo processo, un ipotetico gene semplice può diventare un insieme più ampio, non meglio specificato, di geni. La relazione tra gene e caratteristica è diretta e determinativa: coloro che possiedono una forma del gene manifestano la relativa caratteristica, mentre coloro che portano una forma differente del gene mancano della caratteristica o la posseggono in grado minore” (S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin, Il gene e la sua mente, cit., p. 255).

 

Il DNA non “fa” nulla

La critica all'impostazione genocentrica non si ferma a considerazioni di carattere epistemologico-metodologico: essa non è una teoria da affinare, ma piuttosto una teoria da ribaltare completamente, perché fondata su di un assunto sbagliato, quello che vede centrale il ruolo del DNA, pensato come sede autonoma della replicazione che sta all'origine della vita degli organismi – e dunque identificato in tutto e per tutto con la base della vita. Chi si fa portatore di tale concezione tralascia sistematicamente di ricordare che il DNA, di per sé, non “fa” nulla e si può isolare in laboratorio solo in virtù della sua natura particolarmente inerte: in natura esso non è mai svincolato dalle strutture cellulari (e, dalle cellule in su, è integrato in sistemi sempre più complessi) che fanno da matrice per la sua replicazione: “i fatti nudi e crudi ci consentirebbero agevolmente di rovesciare questa concezione, affermando che il DNA è semplicemente un sistema di cui l'organismo si serve per fabbricare un altro organismo. Il DNA non 'fa' nulla, neanche se stesso. Il DNA non è autoreplicante, sebbene spesso lo si descriva come dotato di questa proprietà, ma viene fabbricato da un insieme assai complesso di sistemi enzimatici. Lo spermatozoo e la cellula uovo contengono, oltre al DNA, tutta una serie strutturata di proteine e di organelli cellulari, che fanno tutti parte integrante del sistema di trasmissione ereditaria. Qualsiasi organismo che trasmettesse solo molecole di DNA nei suoi gameti non avrebbe discendenza. Certo è vero che la struttura del DNA determina quale proteina verrà fabbricata, ma è il macchinario addetto alla sintesi proteica, tutta quanta insieme, che determina se una proteina sarà fabbricata o no; e in caso positivo, è lui che la produce. Quindi il ruolo egemone assegnato al DNA nelle descrizioni che riguardano l'eredità e lo sviluppo è la conseguenza di un particolare indirizzo ideologico del pensiero borghese, cioè dell'affermazione della superiorità del lavoro intellettuale su quello fisico. Il DNA contiene il piano, l'informazione per la produzione dell'organismo, mentre il macchinario enzimatico della cellula semplicemente procura la forza lavoro indifferenziata per attuare tale piano” (Steven Rose, Richard Lewontin, Leon Kamin, Il gene e la sua mente. Cit., p. 74).

 

Non ereditiamo solo geni fatti di DNA

Su queste tesi Lewontin ritorna, nel volume Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza (Laterza, 2002), soffermandosi con maggior precisione sugli errori concettuali passati sotto silenzio dai sostenitori del determinismo genetico: “il problema di tutta questa storia è che, benché sia corretta nella sua descrizione molecolare dei dettagli, è sbagliata rispetto a quello che pretende di spiegare. In primo luogo, il DNA non si autoriproduce; in secondo luogo, il DNA non fa niente; e in terzo luogo, gli organismi non sono determinati da esso. Il DNA è una molecola morta, una delle molecole meno reattive e chimicamente più inerti del mondo vivente. È per questo che può essere recuperato in condizioni abbastanza buone, tanto da poterne determinare la sequenza, delle mummie, da mastodonti congelati decina di migliaia di anni fa, e persino, nelle giuste circostanze, da piante fossili con un'età di una ventina di milioni di anni. L'uso giudiziario del DNA per collegare presunti criminali con le loro vittime dipende dal fatto che, raschiando, si riescono a recuperare molecole non degradate di sangue da tempo seccato sotto la pelle. Il DNA non ha il potere di riprodurre se stesso. È invece prodotto da materiali elementari tramite un meccanismo cellulare complesso di proteine. Mentre si dice spesso che il DNA produce proteine, in realtà sono le proteine (enzimi) che producono il DNA. Il DNA appena prodotto è senz'altro una copia del vecchio, e la struttura duale della molecola di DNA fornisce una sagoma complementare su cui il processo di copiatura si compie. Il processo di copiatura di una fotografia include la produzione di un negativo complementare che viene poi stampato, ma non per questo presentiamo la fabbrica Eastman Kodak come un luogo di autoriproduzione. Nessuna molecola vivente si autoriproduce. Solo le cellule intere possono contenere tutto il meccanismo necessario per la 'auto'-riproduzione e anch'esse, nel corso dello sviluppo, perdono questa capacità. Né gli interi organismi si autoriproducono, come la lettrice o il lettore scettico capirà subito non appena voglia verificarlo. Eppure, anche il sofisticato biologo molecolare, quando descrive il processo di copiatura del DNA, cade nella retorica dell''autoriproduzione'. Così Christopher Wills, nel corso di una descrizione meccanica della sintesi del DNA, ci dice che 'perché il DNA [si] duplichi, la doppia elica dev'essere districata in due catene separate'. La forma verbale riflessiva si insinua inavvertitamente. Non soltanto il DNA è incapace di fare copie di sé stesso, con o senza aiuto, ma è incapace di 'fare' alcunché. La sequenza lineare di nucleotidi del DNA è usata dal meccanismo della cellula per determinare quale sequenza di amminoacidi deve essere inserita in una proteina, e determinare quando e dove la proteina dev'essere prodotta. Ma le proteine della cellula sono fatte da altre proteine, e senza il meccanismo di costruzione delle proteine niente può essere fatto. Si ha qui l'impressione di un cammino all'indietro all'infinito ('che cosa produce le proteine necessarie per fare la proteina?), ma questa impressione è dovuta a un altro errore della biologia volgare, cioè che siano solo i geni ad essere trasmessi dai genitori alla prole. In realtà, un uovo, prima della fecondazione, contiene un apparato completo di produzione depositatovi nel corso del suo sviluppo cellulare. Noi ereditiamo non solo i geni fatti di DNA ma anche un'intricata struttura di meccanismo cellulare costituito di proteine” (Richard Lewotin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Laterza, 2002, pp. 111-113).

 

Eredità epigenetica e altri meccanismi di trasmissione

Oggi l'avversario più autorevole del determinismo genetico viene dalla corrente evoluzionistica della Nuova Epigenetica: nell'articolo del 2008 Le cinque madri: eredità e evoluzione da una prospettiva di sviluppo, Eva Jablonka, docente di Storia e Filosofia della Scienza e delle Idee al Cohn Institute di Tel Aviv, riassume la sua teoria pluralista dell'ereditarietà presentata insieme al collega Marion Lamb nel libro L'evoluzione in quattro dimensioni (Utet, 2007): secondo la scienziata l'approccio geno-centrico dello studio dell'ereditarietà non è più sostenibile alla luce dei progressi delle scienze naturali e in particolare di quella che chiama la Nuova Epigenetica, ovvero una nuova teoria che spiega i meccanismi di ereditarietà non-culturale e non codificata dai geni.

Jablonka presenta la situazione della “scienza normale” che per quasi tutto il Novecento ha tenuto campo in biologia: “a partire dai tardi anni Trenta e per la maggior parte dei successivi 60 anni, il gene è stato l'inizio e la fine del pensiero su eredità e evoluzione. Cambiamenti nei geni portano a cambiamenti nei caratteri, così si può iniziare trattando il gene e le sue varianti, l'unità di base dell'eredità, e finire con i cambiamenti con l'evoluzione nelle frequenze geniche delle popolazioni. Ogni altra cosa – l'ambiente interno e esterno del gene – per quanto importante, è considerato solo come un contesto in cui si realizzano gli effetti del gene. Il gene ha dunque avuto uno status esplicativo centrale e unico, che in molti sensi è meritato. Comunque, la visione gene-centrica ha portato a una concezione molto ristretta di eredità, sviluppo e evoluzione. Meccanismi evoluti di variazione-generazione non sono stati considerati, e tipi di processi ereditari che sono indipendenti dalla variazione genetica sono stati esclusi o sottovalutati. Il cambiamento evolutivo biologico (non-culturale) è stato ristretto ai cambiamenti che potevano essere spiegati da modificazioni nelle sequenze geniche. Alla luce della nostra comprensione dell'ereditarietà di oggi, che Marion Lamb e io descriviamo nel nostro libro Evolution in Four Dimensions, questa non è più una concezione sostenibile” (Eva Jablonka, Le cinque madri: eredità e evoluzione da una prospettiva di sviluppo, in Il futuro di Darwin. L'individuo, UTET, 2008, p. 3).

Per quanto fosse chiaro che l'ambiente produce cambiamenti negli organismi, sottolinea Jablonka, si riteneva che queste pressioni ambientali non determinassero cambiamenti che fossero anche ereditari, che passassero di generazione in generazione: studi recenti hanno mostrato come si possa parlare di trasmissione ereditaria di caratteri alle generazioni successive in almeno quattro maniere diverse da quella genetica, che è solo la prima delle cinque “madri” teorizzate da Jablonka; a questa segue quella che fornisce informazioni ereditabili nella cromatina e nel materiale citoplasmatico, esterno al DNA; la terza è quella che si occupa dello sviluppo embrionale, a cui segue quella che fornisce le prime informazioni nel periodo post-natale, ovvero l'insieme delle cure parentali mostrato dall'immensa varietà del regno animale; la quinta “madre” è invece prerogativa di Homo sapiens, ed è quella che trasmette conoscenze per via simbolica.

Jablonka si rifà innanzitutto agli studi di Robin Holliday, che negli anni Ottanta coniò il termine “eredità epigenetica” per indicare l'insieme di informazioni trasmissibili per via ereditaria che non dipendono da variazioni di frequenze nel DNA. Un esempio molto importante di questo meccanismo ereditario in funzione è il caso della specializzazione cellulare per divisione mitotica all'interno di un corpo pluricellulare: “una regione particolare di DNA con esattamente la stessa sequenza di basi di DNA può avere configurazioni di cromatina potenziali diverse. Se guardiamo cellule diverse del nostro corpo, per esempio cellule della pelle e cellule del rene, vediamo che sebbene abbiano lo stesso DNA, sono molto diverse d'aspetto e funzione, e, quando si riproducono - 'breed true' come si dice - e cioè: trasmettono le loro peculiarità di sviluppo alle cellule figlie. Ciò che si trasmette da una generazione alla successiva sono variazioni nella cromatina come pure in altre componenti della cellula che risiedono nel citoplasma” (Eva Jablonka, Le cinque madri: eredità e evoluzione da una prospettiva di sviluppo, cit., p. 8). “Queste variazioni sono associate a molecole di DNA identiche”, sottolinea Jablonka, per evidenziare come questo tipo di variazione non possa essere attribuito causalmente a una variazione genetica.

La “terza madre”, fornisce informazioni durante il periodo dello sviluppo prenatale – dall'ambiente uterino e attraverso la placenta negli animali, attraverso l'endosperma materno nelle piante – e la sua influenza è stata osservata in recenti studi sulle preferenze alimentari o sul rapporto maschi-femmine nella prole. Jablonka riporta casi di studio di conigli abituati a nutrirsi di bacche di ginepro la cui prole viene separata alla nascita dalla madre naturale e allevata da un esemplare che non manifesta tale preferenza: nonostante non possano evidentemente aver imparato dalla madre adottiva a nutrirsi di bacche di ginepro, essi mostrano comunque questa tendenza. Un altro caso, diverso ma altrettanto significativo sotto altri aspetti, è quello dei gerbilli della Mongolia: in questi piccoli mammiferi, la madre ospita nel grembo parecchi embrioni alla volta; le femmine nate in cucciolate composte prevalentemente da maschi (e che quindi sono maggiormente esposte alla presenza dell'ormone testosterone nell'ambiente uterino) mostrano un comportamento più aggressivo rispetto alle femmine della stessa specie e al momento di riprodursi generano in media più cuccioli maschi rispetto alla media.
Da ciò si può concludere che “attraverso meccanismi che non sono ancora del tutto chiari”, caratteri comportamentali (e non, come lo sbilanciamento nel rapporto fra sessi della prole) vengono trasmessi alle generazioni successive attraverso una linea materna non genetica.

Un'ulteriore sistema di trasmissione di caratteri è quello dell'immediata cura post-natale: prima ancora che attraverso il linguaggio o altre forme di comunicazione, i genitori trasmettono alla prole svariati “input cruciali per lo sviluppo, e a volte anche informazioni che si ereditano” (Eva Jablonka, Le cinque madri: eredità e evoluzione da una prospettiva di sviluppo, cit., p. 12); attraverso il latte si trasmettono preferenze alimentari, ma, ancora più significativamente, anche l'immunità passiva e attiva. In molte specie animali le feci della madre vengono consumate dai piccoli, fornendo in eredità dei “pacchetti” di batteri simbionti che colonizzeranno vari organi (soprattutto l'intestino) partecipando in maniera indispensabile al metabolismo.

La “quinta madre”, è, infine, quella “culturale-simbolica”: dei caratteri che essa trasmette “i comportamenti modellati da religioni e ideologie sono ovvi esempi, ma anche comportamenti e preferenze che sembrano molto simili a quelle di altri animali (quale cibo preferiamo, cosa troviamo attraente e cosa repellente, amichevole o minaccioso) sono, negli umani, influenzati da norme e abitudini culturali, codificate in simboli. Il trasferimento di norme culturali simbolicamente codificate e di prodotti delle culture incide sullo sviluppo fisiologico e comportamentale degli umani e molto spesso si trasmette da una generazione alla successiva. Le diverse lingue umane sono i prodotti dell'evoluzione linguistica culturale, e la letteratura antropologica ed etnologica è una vasta testimonianza registrata della ricchezza e diversità dell'evoluzione culturale umana. Non vi è dubbio che ci sia un asse storico non-genetico dell'eredità e dell'evoluzione delle culture umane basate su simboli, e c'è anche poco dubbio che questo processo evolutivo culturale abbia interagito con l'evoluzione genetica, per esempio nel caso dell'evoluzione della capacità linguistica umana” (Eva Jablonka, Le cinque madri: eredità e evoluzione da una prospettiva di sviluppo, cit., p. 15).