Il comportamento umano è interamente codificato dai geni. La natura umana è fissata per via genetica

La natura umana è fissata dai nostri geni

Lo zoologo Edward O. Wilson, una volta reso pubblico nel 1975 il suo modello di interpretazione naturalistica del comportamento umano con il fortunato libro Sociobiologia. La nuova sintesi (Zanichelli, 1975), si trovò al centro di un'accesa polemica, che vedeva numerosi studiosi di scienze sociali criticare compattamente l'approccio di rigido riduzionismo fisico-chimico del comportamento umano e delle scienze che tradizionalmente di esso si occupavano.
Tale approccio di riconduzione del comportamento alla dimensione biologica dell'essere umano e alla storia evolutiva che lo ha formato in un determinato modo tra i molti possibili è descritto lapidariamente dallo stesso Wilson in un articolo di carattere apologetico, pubblicato in Italia nella raccolta Sociobiologia e natura umana. Una discussione interdisciplinare, (Einaudi, 1980), intitolato, per l'appunto Che cos'è la sociobiologia?: “quanto io affermo è la realissima possibilità che tutti i componenti noti della mente, compresa la volontà, abbiano una base neurofisiologica subordinata all'evoluzione genetica per selezione naturale. Non vi è alcun motivo a priori per il quale una qualunque parte dei fondamenti del comportamento sociale umano debba venire esclusa dal campo dell'analisi sociobiologica” (Edward O. Wilson, Che cos'è la sociobiologia? In Sociobiologia e natura umana. Una discussione interdisciplinare, Einaudi, 1980, p. 13).

Tutti i componenti della mente e del comportamento trovano, dunque, una ragione d'essere nella capacità degli organismi di adattarsi all'ambiente. Secondo l’impostazione sociobiologica, ogni tratto del comportamento umano rappresenta l'esito di una storia evolutiva filogenetica e va interpretato, a tutti gli effetti, come ciò che in biologia viene chiamato “adattamento”.
Wilson ricostruisce la genesi di quest'ipotesi, ricordando come “fino al 1977 più di 1200 loci erano stati localizzati su cromosomi umani mediante la prima analisi di mutazioni biochimiche e di altra natura. Molte di queste mutazioni puntiformi, come pure un crescente elenco di aberrazioni cromosomiche, influiscono sul comportamento. Nel più semplice dei casi riducono la capacità mentale e l'abilità motoria, ma almeno due […] alterano il comportamento in un ristretto numero di manifestazioni riconducibili a specifici meccanismi neuromuscolari” (Edward O. Wilson, Che cos'è la sociobiologia? Cit., p. 8).

A partire da casi di studio come questi i sociobiologi come Wilson estendono la teoria a tutto il complesso del comportamento della specie umana (quello che in etologia si chiama biogramma) e inferiscono che “forme più complesse di comportamento umano sono quasi certamente sotto il controllo di poligeni (geni sparsi su più loci cromosomici) i quali, a turno, producono i propri effetti mediante l'alterazione di un'ampia serie di dispositivi intermediari, dal circuito elementare di neuroni alla coordinazione muscolare alla 'disposizione mentale' indotta dai livelli ormonali” (Ibidem).

 

Somiglianze fra Homo sapiens e i suoi parenti geneticamente contigui

Se tale concezione era nell'aria all'epoca in cui Wilson codifica e rende pubblico il programma sociobiologico, il biologo americano riconosce come specificamente propria la teoria per la quale “i nostri assetti sociali sono estremamente simili a quelli delle scimmie e delle scimmie antropomorfe che per motivi anatomici e biochimici sono i nostri più stretti parenti viventi”. “Questo è un risultato scontato”, specifica Wilson, “se ammettiamo di condividere la nostra discendenza con tali primati, il che sembra essere una fatto assodato, e se il comportamento sociale umano è ancora governato in qualche misura da predisposizioni genetiche nello sviluppo comportamentale” (E. O. Wilson, Che cos'è la sociobiologia, cit., p. 7).

 

Le metafore tratte dall'etologia in sociobiologia sono perfettamente lecite

L'estensione di categorie e metafore tratte dallo studio del comportamento animale a quello umano è, tuttavia, un processo che nasconde delle difficoltà: il pericolo di umanizzare comportamenti e atteggiamenti che non hanno nulla in comune con quelli umani è un rischio concreto, perché dietro a somiglianze solo apparenti possono nascondersi in realtà storie evolutive fra loro distanti; secondo Wilson, però, quest'aspetto di difficoltà della teoria non può impedire completamente ogni estensione delle metafore etologiche al comportamento umano: “alcuni critici hanno sollevato obiezioni contro lo stabilire analogie fra il comportamento animale e quello umano, specialmente quando ciò comporti l'uso della stessa terminologia per descrivere fenomeni comuni alle varie specie. Questa riserva mi ha sempre colpito per la sua inconsistenza […] noi già parliamo dell'occhio del polpo e dell'occhio umano, della copulazione in un insetto e della copulazione nell'uomo, dell'apprendimento nel lombrico e dell'apprendimento nell'uomo, anche se in ciascuno di questi casi le due specie appartengono a due diversi superphyla e i tratti elencati si sono evoluti indipendentemente. Gli interrogativi interessanti sono, in pratica, i gradi di convergenza e i processi di selezione naturale che resero tale convergenza così stretta. Quando i biologi confrontano l'altruismo dell'ape operaia mellifica con l'altruismo umano, nessuno pensa seriamente che essi siano basati su geni omologhi o che siano identici nei dettagli” (E. O. Wilson, Che cos'è la sociobiologia, cit., p. 14).

 

La reazione contro la sociobiologica è ideologica

La maggior parte delle critiche all'impianto sociobiologico venivano, almeno all'epoca in cui Wilson presentava il suo programma, dagli studiosi di scienze sociali e dagli scienziati legati all'area del marxismo progressista statunitense: le implicazioni politiche della sociobiologia e alcune esplicite affermazioni di Wilson (“gli scienziati e i cultori delle discipline umanistiche dovrebbero considerare insieme la possibilità che sia giunto il momento di togliere temporaneamente l'etica dalle mani dei filosofi e di biologizzarla” (Edward O. Wilson, Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, 1979, p. 569) hanno provocato una levata di scudi da parte di quegli intellettuali che vedevano nel determinismo genetico un mezzo per conferire autorità ad argomentazioni politiche di stampo conservatore, se non reazionario.

Ricostruendo la vicenda, Wilson ammette di “avere del tutto sottovalutato la forza e il potere del pregiudizio antigenetico che ha prevalso come dogma di fatto dalla caduta del darwinismo sociale. Non avevo nemmeno pensato ai marxisti”, e di avere in qualche modo trascurato le conseguenze politiche cui avrebbe potuto portar il suo programma di ricerca: non è però a partire da tali sgradevoli conseguenze che si possono respingere i contenuti di quella che è, in effetti, una linea di ricerca foriera di ottimi risultati, anzi: “quando la sociobiologia venne attaccata da Science for the People, il gruppo alla guida della sinistra radicale nel mondo scientifico americano, ero impreparato a un dibattito in larga misura ideologico. Ora mi è chiaro che avevo inavvertitamente toccato qualcosa di fondamentale: la mitologia. La teoria evoluzionistica applicata ai sistemi sociali è un'estensione delle grandi tradizioni occidentali di materialismo scientifico. In quanto tale essa minaccia di trasformare le supposizioni sulla natura umana formulate da alcuni filosofi marxisti in ipotesi suscettibili di verifica. Il suo primo ordine di testimonianze non è favorevole a tali supposizioni in quanto gran parte dei marxisti tradizionalisti aderisce ad una visione della natura umana come fenomeno relativamente privo di struttura, trascinato da forze economiche estranee alla biologia umana. In precedenza il marxismo e altre ideologie laiche stavano al sicuro come incontrastate satrapie del materialismo scientifico; ora hanno corso il rischio di venire soppiantate da altre spiegazioni biologiche meno governabili” (E. O. Wilson, Che cos'è la sociobiologia, cit., pp. 3-4).

Anche secondo l'economista Kenneth Boulding, fra i fondatori della Teoria Generale dei Sistemi, la reazione contro la sociobiologia è prevalentemente di natura ideologica e le critiche a essa mosse in questo senso infondate: “la sociobiologia è stata accusata di razzismo, particolarmente dai marxisti. Tale accusa appare del tutto ingiustificata. Possiamo accusare i sociobiologi di dare eccessivo risalto agli elementi biogenetici nell'evoluzione dei sistemi sociali e di sottovalutare gli elementi noogenetici, ma ciò non ha nulla a che fare col razzismo nel senso corrente del termine. Il razzismo postula che la struttura biogenetica di differenti gruppi di esseri umani sia molto più differente di quello che è in realtà. I biologi sanno benissimo, e così i sociobiologi, che le differenze razziali (quindi il colore della pelle e caratteristiche facciali secondarie) sono una piccolissima parte dell'effettiva capacità genetica d'informazione e istruzione del genoma umano […] Identificare l'interesse per il pool genetico e per le combinazioni genetiche della razza umana col razzismo è semplicemente assurdo. Coloro che vogliono distruggere le ricerche di genetica umana in nome di un supposto razzismo non sono amici della razza umana. Nello stesso modo in cui il darwinismo sociale fu un profondo travisamento di Darwin e del processo evoluzionistico, in particolare se applicato alla selezione, così il razzismo, nel senso comunemente accettato, può basarsi solo su un profondo travisamento della scienza genetica. Il solo rimedio contro tale travisamento consiste, che io sappia, in una conoscenza più approfondita” (Kenneth Boulding, Sociobiologia o biosociologia?, in AA.VV., Sociobiologia e natura umana, Einaudi 1980, pp. 64-65).

La sociobiologia, o etologia pop, è in realtà una pseudoscienza

L'economista Kenneth Boulding, fra i fondatori della Teoria Generale dei Sistemi, rileva quello che è il maggior punto critico della comprensione pubblica del programma sociobiologico: mentre dal punto di vista degli specialisti essa è una linea teorica passibile di miglioramenti ma sostanzialmente esatta, è la sua versione pop a essere ampiamente criticabile.
Egli parla in tale proposito di “biosociologia”, ovvero di una sorta di sociologia ingenua che abusa di argomentazioni di stampo biologico, come se il solo fare riferimento a una storia evolutiva o all'indiscutibile potere dei geni portasse automaticamente a un'autorevolezza decisamente maggiore rispetto a quella delle scienze umane, come la psicologia o l'etnologia: “la sociobiologia, una disciplina totalmente rispettabile nell'ambito della biologia, sebbene tenda innegabilmente a sottovalutare gli elementi noogenetici della biologia preumana, non dovrebbe essere confusa con quella che si potrebbe chiamare 'biosociologia', che è l'uso arbitrario dell'analogia biologica nei sistemi sociali. Purtroppo esso è stato frequentissimo, specie in opere del genere che potremmo chiamare 'giornalismo pseudoscientifico', come quelle di Robert Ardrey. Anche i biologi che nel loro campo hanno conseguito risultati di rilievo, come Konrad Lorenz o Lionel Tiger, sono inclini a compiere gravi errori quando tentano di generalizzare dai sistemi biologici a quelli sociali che sono molto più complessi. Vi sono alcune importanti somiglianze tra l'evoluzione biologica e l'evoluzione sociale, ma queste non dovrebbero rendere ciechi alle enormi differenze, e ciascun sistema deve essere analizzato in base ai propri meriti e secondo le sue peculiari proprietà e principi” (Kenneth Boulding, Sociobiologia o biosociologia?, in Sociobiologia e natura umana, Einaudi 1980, pp. 66-67)

 

Ideologia scientifica

Un aspetto di questa dimensione pop e biosociologica della disciplina sociobiologica è quella di rappresentare una vera e propria ideologia scientifica: il ricorso all'argomentazione genetica per ogni aspetto dello studio del vivente ha portato a una vera e propria ipertrofia, che l'antropologo S. L. Washburn stigmatizza scherzosamente con il nome di “genite”: “i sociobiologi sono costretti a postulare l'esistenza di geni comportamentali perché se non lo facessero si priverebbero della loro scienza. Il postulare l'esistenza di geni comportamentali ha avuto una tale diffusione nel pensiero europeo (eugenetica, teorie razziste, geni per il crimine, geni per il cambiamento storico) che merita un nome particolare. Suggerisco genite (gene-ite, la malattia del gene). Tale malattia consiste nel postulare l'esistenza di geni a spiegazione dei comportamenti, senza compiere nessun importante tentativo di verificare la ragionevolezza delle ipotesi formulate” (S. L. Washburn, Comportamento animale e antropologia sociale, In AA.VV., Sociobiologia e natura umana. Una discussione interdisciplinare, Einaudi, 1980, p. 88).

 

Il determinismo comportamentale è un paradigma antico, quello genetico è solo la sua versione più recente.

La “genite”, di cui scrive Washburn, non rappresenta però che un caso particolare di un più generale biologismo diffuso nella discussione pubblica su etica e politica: secondo molti critici la sociobiologia non è che la riedizione di quello che è un influente schema di pensiero affermatosi almeno a partire dalla metà dell'Ottocento, che vede le qualità morali e intellettuali degli individui legati a fattori ereditari e innati; questa critica viene mossa, in particolare, da un gruppo di intellettuali afferenti all'associazione progressista statunitense Science for the People, guidati dal genetista Richard Lewontin, che, ricapitolando le sue tesi ai microfoni della CBC (Canadian Broadcasting Corporation), in un ciclo di conferenze tenute nel 1990, denuncia come il significato politico del determinismo genetico sia quello di “legittimare le strutture della disuguaglianza nella nostra società dando loro una veste biologica e propagando una incessante confusione tra ciò che può essere influenzato dai geni e ciò che può essere cambiato attraverso modificazioni sociali e ambientali. Il volgare errore di confondere ereditabilità e fissità è stato, per anni, l'arma più potente che gli ideologi biologici hanno avuto per legittimare una società della disuguaglianza” (Richard Lewontin, La biologia come ideologia. La dottrina del DNA, Bollati Boringhieri, 1993, p. 37).

Nel lavoro collettivo icasticamente intitolato Not in our genes (letteralmente “non nei nostri geni”, edito in Italia con il titolo Il gene e la sua mente. Biologia, ideologia e natura umana, per i tipi di Mondadori) pubblicato nel 1983 assieme al neurobiologo Steven Rose e allo psicologo Leon Kamin, già protagonista di una campagna scientifica contro l'utilizzo politico degli studi sull'ereditarietà del quoziente intellettivo attraverso i quali venivano giustificate razionalmente l'estrema povertà delle minoranze afroamericane degli Stati del Sud e la loro esclusione dai diritti civili, Richard Lewontin scrive: “la stessa affermazione, cioè che la biologia segna il destino, si ritrova nel XIX secolo nell'antropologia criminale di Lombroso. Oggi, evidentemente, nessuno prenderebbe in considerazione l'idea di Lombroso di poter riconoscere un assassino o un'assassina dall'esame della testa, tuttavia ora si dice che il riconoscimento può avvenire in base all'esame dei cromosomi. Quindi vi è una linea ininterrotta di elaborazione dall'antropologia criminale del 1876 alla citogenetica criminale del 1976, tuttavia le prove a favore delle affermazioni biodeterministiche restano deboli oggi come un secolo fa” (Steven Rose, Richard Lewontin, Leon Kamin, Il gene e la sua mente. Biologia, ideologia e natura umana, Mondadori, 1983, p. 36).

Anche la studiosa di epistemologia e storica della scienza Susan Oyama condivide l'idea secondo la quale il determinismo genetico non è che una variante di un paradigma più ampio, di un tentativo di inquadrare la natura umana e le disuguaglianze sociali entro la cornice di una giustificazione razionale di immodificabilità fondata in maniera naturalistica: “il cinismo può avere una sua attrattiva. Esso appare sofisticato e intellettualmente avanzato, come segnale di una testa quadrata e non di un cuore tenero. Alcuni scritti evoluzionistici possono essere letti sotto questa luce […] I neodarwinisti si presentano di frequente come scienziati realisti, capaci (a differenza degli scienziati sociali, per non parlare di chi opera nel campo umanistico) di affrontare fatti biologici sgradevoli. Questo disincanto autocosciente, e non una qualsiasi particolare politica, può aiutarci a comprendere alcuni ritratti delle vicende umane proposti dagli evoluzionisti. E così MacDonald caratterizza la lezione della sociobiologia per gli psicologi come l'aspettativa che gli esseri umani massimizzeranno il proprio interesse personale, inganneranno sé stessi e gli altri, e crederanno in ciò che è nel loro interesse credere. Il ragionamento morale, egli afferma, è epifenomenico, si limita a 'mascherare l'interesse egoistico' e, aggiunge, a questa intuizione erano già pervenuti i comportamentisti. Quest'ultimo aspetto è importante: l'individualismo egoistico non ha avuto origine con la sociobiologia, ma è un tema dominante nel pensiero occidentale. Prima che comparisse la sociobiologia, il calcolatore razionale delle preferenze si poteva trovare in economia. E beni cercati dall'uomo economico possedevano un valore intrinseco, che veniva invece attribuito da ciascuna persona. Oggi, i sociobiologi hanno fornito quel valore intrinseco: è il vantaggio riproduttivo. Si sostiene talvolta che i desideri più terreni di ricchezza e potere ci motivano, presumendo che massimizzino a loro volta la fitness. Questa mancanza di chiarezza su obiettivi e intenzioni, coscienti e inconsci, rivela la confusione proprio sui tipi di asserzioni relative ai processi psicologici. Tuttavia, per quante incertezze esistano, questi studiosi sembrano nutrire pochi dubbi sull'egoismo fondamentale della nostra specie” (Susan Oyama, L'occhio dell'evoluzione. Una visione sistemica della divisione fra biologia e cultura, Giovanni Fioriti Editore, 2004, pp. 164-165).

 

Le ragioni per le quali il determinismo è attraente sono politiche, non scientifiche

Secondo il gruppo di Science for the People la principale ragione del successo popolare del programma sociobiologico si spiega con quella che è, in realtà, il suo maggior punto di debolezza, quella “fallacia naturalistica” già descritta dal filosofo scozzese David Hume, che spinge a “inferire dall'essere il dover essere”, ovvero dall'assumere come norme prescrittive quelle che sono interpretazioni descrittive: “di certo le conseguenze politiche ripugnanti che si sono ripetutamente fatte discendere dalle argomentazioni deterministiche non sono criteri per giudicare della loro verità obiettiva: cioè noi non possiamo derivare il 'dovrebbe essere' dal 'così è', o viceversa; né ci proveremo (anche se i deterministi lo fanno a ogni piè sospinto, come per esempio nell'istanza di E. O. Wilson per un 'codice di etica geneticamente esatto e pertanto completamente giusto'). Da un lato gli errori che i biodeterministi compiono nella loro spiegazione del mondo possono essere illustrati e compresi senza far riferimento ai loro usi politici […]; dall'altro, tuttavia, ove si ometta ogni riferimento agli eventi politici non si può comprendere né come si sia arrivati a questi errori, né perché gli schemi biodeterministici siano entrati nella coscienza comune oltre che scientifica in un particolare periodo storico, né perché dovremmo occuparcene”. (S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin, Il gene e la sua mente, cit., p. 39).

Secondo il gruppo di Science for the People, la dimensione politica dello studio della natura umana non può e non deve essere passata sotto silenzio, poiché preferisce rendere esplicita la cornice ideologica della loro ricerca, negando la validità di una pretesa separazione tra fatti e valori: la scienza lungi dal costituire una dimensione immateriale è piuttosto una pratica condotta da soggetti viventi e con determinate (a volte inconsce) finalità politiche; è, anzi, essa stessa una pratica decisamente orientante nell'esperienza del mondo: “coloro che criticano il determinismo biologico sono spesso accusati di pura e semplice antipatia verso le sue conseguenze politiche. Ora noi non esitiamo a dichiarare la nostra antipatia per tali conclusioni: infatti pensiamo che sia fondare una società migliore di quella in cui attualmente viviamo; crediamo cioè che le ineguaglianze di ricchezza, di potere e di condizione sociale non siano 'naturali', ma costituiscano ostacoli imposti al livello sociale contro la costruzione di una società in cui il potenziale creativo di tutti i cittadini possa essere impiegato per il bene comune. Riteniamo inoltre che il nostro lavoro scientifico non sia separabile dallo sforzo per la costruzione di tale società diversa, così come non sono separabili scienza e politica nello sforzo di quei biodeterministi che qui critichiamo. La differenza tra noi e loro è che noi siamo consci di tali legami come parte necessaria del fare scienza in un determinato contesto sociale, ed esplicitamente li dichiariamo, mentre essi li negano o ne deplorano l'esistenza. A nostro avviso tale affermazione di una scissione tra fatti e valori, tra pratica e teoria, tra 'scienza' e 'società', fa essa stessa parte di quella frammentazione della conoscenza sostenuta dal pensiero riduzionista, quindi della mitologia creata nell'ultimo secolo sul 'progresso scientifico'”. (Ibidem, p. 47).

Dunque, chiariscono Lewontin, Rose, e Kamin, bisogna rendere chiaro perché una visione del mondo così determinista e cinica viene propagandata e con enorme successo, suonando plausibile tanto nel mondo scientifico quanto, se non ancora di più, presso l'opinione pubblica non specialista. La sociobiologia, a detta del gruppo di Science for the People, rappresenta la più verosimile messa in atto del “Sistema filosofico” del dottor Pangloss, il personaggio del Candide di Voltaire che, ridicolizzando il pensiero di Leibnitz secondo il quale l'attuale è “il migliore dei mondi possibili”, giustificava ogni misfatto con spiegazioni ad hoc che ne spiegassero il carattere indiscutibilmente benevolo: “Il fascino della sociobiologia, al livello accademico così come a quello popolare, emana direttamente dal suo semplice programma riduzionista e dalla sua pretesa che la società umana, come noi la conosciamo, è l'inevitabile risultato di un processo adattativo. L'attrattiva generale della sociobiologia risiede insomma nella sua legittimazione dello status quo: se le organizzazioni sociali attuali sono l'ineluttabile conseguenza del genotipo umano, allora nulla di qualche rilevanza [politica] può essere modificato […] L'affermazione che l'organizzazione sociale geneticamente determinata rappresenta un prodotto della selezione naturale, ha l'ulteriore conseguenza di suggerire che la società è in qualche senso ottima in quanto adattativa […] la sociobiologia è il pensiero del Dottor Pangloss reso scientifico dall'autorevolezza di Charles Darwin” (ibidem, pp. 241-242).

La forza della banalità delle affermazioni panglossiane della sociobiologia non si giustifica però di per sé stessa, senza prenderne in considerazione il suo negativo complementare, ovvero l'utopistica convinzione dei movimenti utopistici radicali per i quali la natura umana è completamente plastica e passibile di qualsivoglia modificazione, secondo la dottrina del potenziale assoluto: “sarebbe facile dimostrare che il successo del determinismo biologico e di chi se ne serve a livello politico costituisce una riaffermazione dell''ovvio', a fronte di quel diniego della biologia che ha caratterizzato diverse elaborazioni di tipo utopistico nel corso degli scontri ideologici degli ultimi anni. Nel post-sessantotto queste concepivano la natura umana come infinitamente plastica, cioè mentre negavano i fattori biologici riconoscevano esclusivamente il ruolo di quelli sociali […] Ma questa negazione della biologia […] a favore di un determinismo culturale in contrasto con la realtà dell'esperienza vissuta, ha reso molta gente più vulnerabile sotto il profilo ideologico agli appelli 'di senso comune' lanciati dal determinismo biologico nuovamente emergente” (Ibidem, p. 48).

Un giudizio sostanzialmente accolto da Susan Oyama, che al tema della dualità tra nature, ovvero natura, e nurture – termine col quale nella letteratura antropologica e biologica si descrive il complesso di pratiche che fanno capo alla cultura e all'educazione, a tutto ciò che nella società umana deve essere appreso, contrapposto a ciò che è innato – ha dedicato una raccolta di saggi, intitolata L'occhio dell'evoluzione. Una visione sistemica della divisione fra biologia e cultura (Giovanni Fioriti Editore, 2004). Scrive Oyama: “In aggiunta alle sue connotazioni dualistiche, la pura ambiguità del complesso di natura e nurture provoca danni. Quando la natura è identificata mediante un qualche criterio, è facile concludere che sia intrattabile o fissa, che deve essere. Si tratta probabilmente dell'inferenza più comune sulla biologia, un'inferenza spesso non giustificata” (Ibidem, p. 158).

Oyama porta in proposito l'esempio dello studio del fenomeno dello stupro in ambito sociobiologico, prendendo in considerazione gli studi condotti dai coniugi Thornill (1987) e dagli Shields (1983), i quali ipotizzano “l'esistenza di un substrato poligenico che genera un programma comportamentale chiuso, il quale connette ostilità e vulnerabilità della femmina con la copulazione coatta” e concepiscono questa connessione come “cablata” e “il substrato genetico che la codifica come essenzialmente fisso nella popolazione umana”. Di conseguenza, essi concepiscono “lo stupro come un universale umano, e, a questo livello, probabilmente restio a essere riprogrammato attraverso l'esperienza individuale. [...] Gli autori dichiarano che il loro modello di soglia innata dello stupro implica che cambiamenti nella mentalità degli uomini o nella condizione della donna avranno modesti effetti nella riduzione dello stupro. Gli autori, che pure disapprovano il sessismo, sostengono che siano scarse le probabilità di modificare gli stupratori: 'se fosse vera l'ipotesi evoluzionistica di un substrato geneticamente fisso che predispone fortemente gli uomini allo stupro nelle adeguate condizioni immediate, allora la riabilitazione educativa potrebbe essere difficile, se non impossibile'” (Susan Oyama, L'occhio dell'evoluzione. Cit., p. 161).

Una netta separazione tra scienza e politica rimane dunque qualcosa di lontano se non irraggiungibile, perlomeno quando la posta in gioco è la natura umana. Secondo quanto scrive il biologo e antropologo Jonathan Marks, il sistematico richiamo all'onnipotenza del gene ha la doppia natura ideologica di una scienza preconcetta e di un mero uso strumentale del biologismo per fini politici: “genetica comportamentale, dove le scienze naturali e sociali si fronteggiano e impariamo che la 'natura' batte sul serio la 'cultura'. Perlomeno se credete ai genetisti comportamentali. È ovvio che lo dicono: sono genetisti comportamentali, in fondo. E le loro ricerche, per quanto confuse o irrilevanti, possono essere invocate acriticamente dalle persone che hanno idee politiche consonanti riguardo la natura innata dei problemi sociali, dato che tali studi sembrano confermarle scientificamente. Quindi è nell'interesse di entrambi i gruppi convincerci che il comportamento è ereditario, come è nell'interesse del concessionario della Buick convincerci che le sue sono le migliori auto in circolazione. E forse hanno ragione. Ma del resto ce lo direbbero se non ce l'avessero? La genetica comportamentale è il luogo in cui scienza e politica convergono. The Bell curve, il citato bestseller, sosteneva che, essendo innato il quoziente di intelligenza, dovremmo tagliare i programmi sociali visto che non possono migliorare il potenziale intellettivo delle persone. Gli autori del libro vedevano di sicuro un rapporto significativo tra ereditarietà e politica. Se l'ereditarietà del comportamento è politicamente connotata, allora ha di sicuro bisogno di essere sottoposta a una disamina speciale, altrimenti le ricerche di qualità discutibile potrebbero essere usate per influenzare le politiche sociali e quindi di colpire la vita della gente. E se la storia dell'antropologia ci ha mostrato qualcosa è sicuramente che la scienza può essere invocata con disinvoltura in modo da rendere naturali le disuguaglianze sociali, perché sembri che siano tutta colpa della natura (e non di persone avide e malvagie) e quindi scoraggiare ogni tentativo di migliorare il mondo. E questo è negativo sia per la gente sia per la scienza” (Jonathan Marks, Che cosa significa essere scimpanzé al 99%, Feltrinelli, 2003, pp. 103-104).

 

L'apparente sensatezza della sociobiologia viene dall'utilizzo indebito di categorie economiche con le quali il pubblico ha dimestichezza

Uno degli strumenti attraverso il quale un paradigma scientifico è entrato prepotentemente nel discorso pubblico è l'utilizzo che esso fa di categorie ben conosciute dall'uomo della strada: le dinamiche tipiche della società capitalista vengono prima trasferite nella sfera dei rapporti sociali animali e da queste vengono poi reimportate nel discorso pubblico come dinamiche “naturali”: “la visione del mondo di tipo riduzionista integrato presentata negli scritti deterministi come quelli di E. O. Wilson 'Sociobiologia: la nuova sintesi' o di Richard Dawkins, 'Il gene egoista', attinge esplicitamente al dogma centrale della biologia molecolare per definire il proprio impegno a sostegno della rivendicazione che il gene è ontologicamente precedente all'individuo e l'individuo alla società. Altrettanto esplicitamente essa attinge a un insieme di concetti economici sviluppati attraverso una gestione della società capitalista divenuta sempre più complessa negli anni Sessanta e Settanta. Così termini come analisi costo-beneficio, costi delle opportunità di investimento, teoria dei giochi, ingegneria e comunicazione dei sistemi, e altri analoghi sono tutti sfacciatamente trasferiti all'area della natura. Tratti dalla nomenclatura dell'ordine sociale umano, tali termini definiscono la visione che del mondo ha la sociobiologia. Come possiamo aspettarci in base a quanto già accaduto in precedenza col darwinismo essi sono successivamente rinviati come da uno specchio per giustificare quello stesso ordine sociale: ad esempio, quando gli economisti descrivono le teorie monetariste come accordantisi con la condizione biologica dell'umanità” (Steven Rose, Richard Lewontin, Leon Kamin, Il gene e la sua mente, cit., pp. 75-76).

In questo modo, attraverso la forza dell'immutabilità della natura, si giustifica il cinismo della società della diseguaglianza, scrive Lewontin, riprendendo ancora una volta, in anni recenti, le sue tesi: “quello che io sono, le differenze tra me e gli altri esseri umani, e le somiglianze fra gli esseri umani che li distinguono, poniamo, dagli scimpanzé, sono determinati dall'esatta composizione chimica del DNA che costituisce i miei geni. Nelle parole di un bardo popolare della leggenda, i geni 'ci hanno creato corpo e mente' [la citazione è tratta da Richard Dawkins, Il gene egoista, Zanichelli 1979, NdR]. Così una volta che sapremo esattamente come sono fatti i geni, sapremo che significa essere uomini, e sapremo anche perché alcuni di noi leggono 'The New York review' mentre altri non possono spingersi oltre il 'New York Post' […] Il successo o il fallimento, la salute o la malattia, la follia o la sanità, la nostra capacità di cogliere occasioni o di perderle – sono tutti determinati, o sono fortemente influenzati, dai nostri geni” (Richard Lewotin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Laterza, 2002, p. 109).

 

La sociobiologia estende indebitamente all'uomo osservazioni su altri animali – fallacia dell'etimologia inversa

Nel suo saggio su Comportamento animale e antropologia sociale, l'economista statunitense S. L. Washburn, fra i fondatori della Teoria Generale dei Sistemi, osserva come l'analogia con forme di vita altre da Homo sapiens sia una pratica scientifica già esplorata e giustificata, se compiuta con l'attenzione verso la reale parentela tra le strutture che vengono messe l'una accanto all'altra in uno studio comparativo: “[Konrad] Lorenz fa osservare che le comparazioni fra forme più strettamente imparentate sono quelle che hanno le maggiori probabilità di essere utili […] Questa saggia opinione” – constata però Washburn a proposito degli studi dei sociobiologi a lui contemporanei – “non viene quasi mai seguita quando il comportamento umano viene comparato con quello di altri animali” (S. L. Washburn, Comportamento animale e antropologia sociale, cit., p. 84).
Un esempio di queste cattive analogie sono rappresentate, per Washburn, dai lavori dello psicologo Richard Alexander: “Lorenz è stato criticato per il libro sull'aggressività ma il problema, qui, non è l'autore, ma il metodo. Richard Alexander, per esempio, mescola in un suo lavoro informazioni su insetti, uccelli e contadini tibetani – una trattazione priva di senso se la comparazione ha da essere seria. L'ultimo capitolo di Sociobiologia, la nuova sintesi, di Wilson, è un esempio estremo di cattivo uso delle informazioni comparative. Il concetto può essere illustrato confrontando la trattazione di Wilson del comportamento degli insetti con quella del comportamento umano. Quando parla degli insetti (argomento su cui possiede dati) egli non chiama in causa gli esseri umani, ma quando parla dell'uomo (sul quale possiede dati minimi) si serve degli insetti per affermare punti essenziali. E, incidentalmente gli si potrebbe far osservare che, nonostante gli innumerevoli riferimenti bibliografici, le caste in India non sono geneticamente determinate, e non hanno alcuna somiglianza con le caste degli insetti” (ibidem, pp. 82-83).

Per concludere, scrive Washburn, che pure simpatizza con l'intento di una descrizione puramente fisiologica del comportamento animale e umano, compiere analogie tra la vita sociale e psichica dell'essere umano e forme di vita troppo semplici e differentemente strutturate porta a risultati osservativi falsati: “mentre i risultati della ricerca etologica sono affascinanti, e mentre Ethology, the biology of behaviour (1975) di Ebl-Eiblesfeldt [trad. it. I fondamenti dell'etologia, Adelphi, Milano 1976] è più che degno di un'attenta considerazione, il capitolo sull'etologia dell'uomo dimostra quanto fuorviante l'approccio etologico possa essere. Indagando sul comportamento umano con gli interrogativi e le tecniche adatti ad animali dotati di un sistema nervoso molto semplice, se ne perde l'intera natura. Esso non può venire compreso mediante la sola osservazione, e anche quando si prendono in considerazione bambini non ancora in grado di parlare, la madre è partecipe di un modo di vivere basato sul discorso, su un complesso comportamento sociale e sulla tecnologia. L'idea di catalogare il comportamento umano in un etogramma o biogramma scaturisce dallo studio del comportamento di alcuni animali – prevalentemente in cattività – ed è del tutto impropria se applicata all'uomo” (ibidem, p.84).

Ancor più incisiva della critica metodologica di Washburn sulla cattiva analogia, è quella di carattere epistemologico formulata ancora una volta dal gruppo di Science for the People. Un caso lampante di un cattivo processo inferenziale denominato “etimologia inversa” è il sistema delle caste degli insetti eusociali, che dovrebbe in qualche modo giustificare la società gerarchica e la divisione del lavoro: “alcune metafore possono essere scambiate per entità reali, dimenticandosi della loro fonte. Nella teoria sociobiologica si verifica un processo di etimologia inversa, nel quale le istituzioni sociali umane sono proiettate metaforicamente sugli animali, e in seguito il comportamento umano è nuovamente derivato dagli animali come se esso rappresentasse un caso speciale di un fenomeno generale scoperto indipendentemente in altre specie. Un caso che precede la sociobiologia, ma che essa ha in seguito incorporato, e quella delle caste negli insetti; la casta è un fenomeno umano – originariamente una razza o una stirpe – che successivamente si trasforma in un gruppo ereditario associato con particolari forme di lavoro o di posizione sociale. Applicando l'idea di casta agli insetti, il sociobiologo legittima la nozione che le caste umane rappresentino solo un singolo caso di un fenomeno più generale: ma gli insetti non hanno caste nel senso umano del termine, anche se mostrano gli individui differenziati nelle loro attività vitali” (S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin, Il gene e la sua mente, cit., p. 253).

 

Reificazione: confondere l'osservazione con la spiegazione

Quello dell'etimologia inversa è però solo uno dei tanti errori epistemologici dei quali le “panglossiane” argomentazioni sociobiologiche sono zeppe: il gruppo di Science for the People si profonde nello smascheramento di almeno tre di queste; ipostatizzazione, reificazione e conflazione: “la sociobiologia offre parecchie argomentazioni, ma tutte deboli, a favore dell'esistenza di un controllo genetico delle strutture sociali. Innanzitutto, la presunta universalità del carattere è considerata una prova cruciale del suo controllo da parte dei geni. 'Nelle società di cacciatori e raccoglitori gli uomini cacciano e le donne stanno a casa. Questa forte predisposizione è presente in larga parte delle società agricole e industriali e, solo per questo fatto, sembra avere un'origine genetica'. Tale affermazione confonde l'osservazione con la spiegazione. Se la sua circolarità non è abbastanza evidente, si consideri l'affermazione: dato che il 99% dei finlandesi sono luterani, essi devono avere un gene per il luteranesimo” (S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin, Il gene e la sua mente, cit., p. 258). “Il secondo errore di descrizione consiste nel confondere categorie metafisiche con oggetti concreti, e questo errore è la cosiddetta reificazione. Come abbiamo discusso in precedenza, non si può presupporre che qualsivoglia comportamento o istituzione cui si può attribuire un nome rappresenti solo per questo una cosa reale, soggetta alle leggi fisiche di natura. Molti degli oggetti mentali che i sociobiologi considerano unità in evoluzione sono in realtà creazioni astratte di particolari culture o periodi: cosa potrebbe aver significato 'religione', per gli antichi greci, che neppure possedevano un termine per essa, e per i quali la religione non costituiva una categoria separata? La 'violenza' è reale, oppure è semplicemente una parola senza alcuna corrispondenza biunivoca con atti fisici? […] i sociobiologi commettono il classico errore di reificazione quando utilizzano concetti che sono stati creati quali mezzi per ordinare, comprendere e discutere l'esperienza sociale umana, dotandoli di vita propria, facendoli diventare in grado di agire sul mondo e di essere soggetti alle azioni del mondo. Come gli antichi greci pensavano che gli dei, prodotti dell'immaginazione, potessero riprodursi e affrontarsi l'un l'altro in battaglia, così i sociobiologi ritengono che la religione può essere ereditata e aumentata di frequenza con la selezione naturale nel corso della lotta per l'esistenza” (ibidem, pp. 252-253).

 

Conflazione

“Un ultimo problema descrittivo, strettamente legato all'uso della metafora, è quello della conflazione, cioè la rifusione arbitraria di fenomeni differenti nella medesima categoria concettuale. Il caso classico che interessa i sociobiologi, come anche i loro predecessori, è quello dell'aggressione, termine che originariamente significava solo l'attacco non provocato (ma non necessariamente irrazionale) di un individuo a un altro, e che poi ha acquisito un significato politico – l'attacco di uno stato a un altro stato – il quale a sua volta, alla fine, è arrivato a comprendere la guerra. […] Ma la guerra tra società organizzate in Stati ha poco a che fare con il sentimento individuale di aggressione. La guerra è un fenomeno politico calcolato, intrapreso agli ordini di coloro che hanno il potere in una determinata società ai fini del vantaggio politico ed economico” (S. Rose, R. Lewontin, L. Kamin, Il gene e la sua mente, cit., p. 254).