Un terzo filone di critiche riguarda i costi economici di un allargamento a Est. Molti dei Paesi candidati hanno PIL pro capite notevolmente inferiori alla media UE (ad esempio il reddito medio in Ucraina e Moldavia è circa un terzo di quello nell’UE), il che li renderebbe beneficiari netti dei fondi europei su larga scala. Gli Stati membri contributori netti (come Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi) temono che, con l’ingresso di nazioni più povere, la spesa per coesione e agricoltura andrà redistribuita, riducendo i fondi pro capite per i Paesi attuali o richiedendo di aumentare significativamente il bilancio comune. Uno studio stima che per integrare Ucraina, Moldavia e Balcani occorrerebbe un bilancio UE più ampio di almeno 20-30%, con nuovi contributi dagli Stati più ricchi. Al momento, ottenere un simile incremento appare difficilissimo: già oggi il Quadro Finanziario Pluriennale è teso e divisioni tra Paesi “frugali” e meridionali emergono su molti fronti. Senza risorse addizionali, l’ingresso di ampie aree rurali come l’Ucraina (grande beneficiaria potenziale della PAC) e regioni meno sviluppate comporterebbe inevitabilmente tagli ai fondi destinati alle regioni povere attuali dell’Europa meridionale e orientale, creando malcontento. Inoltre, vi è l’incognita della ricostruzione post-bellica dell’Ucraina: la Commissione ha proposto un fondo straordinario (Ukraine Facility) da 50 miliardi di euro, ma i costi totali si stimano nell’ordine di centinaia di miliardi. Se l’Ucraina entrasse in UE prima di completare la ricostruzione, molti si chiedono se non graverebbe in modo insostenibile sul budget europeo, deviando risorse da altre priorità. I contrari sottolineano anche i possibili squilibri economici: integrare un Paese in guerra come l’Ucraina, con un’economia devastata, potrebbe significare dover mantenere per anni misure speciali di sostegno, pena deindustrializzazione e fuga di capitali. Esperti notano che, se mal gestito, il recepimento dell’acquis economico in un Paese fragile rischia di far collassare settori produttivi incapaci di reggere la concorrenza interna UE. Questo non solo genererebbe disoccupazione e tensioni sociali in quei Paesi, ma potrebbe innescare fenomeni migratori di massa verso l’Europa occidentale. Già oggi circa 5 milioni di ucraini sono rifugiati nell’UE per via della guerra; in uno scenario di adesione, la libera circolazione renderebbe strutturale un flusso migratorio dall’Est verso Ovest in cerca di lavoro e salari più alti. Nel lungo periodo ciò può giovare alle economie UE con forza lavoro giovane, ma a breve termine crea pressioni sul welfare e timori nelle opinioni pubbliche nazionali (specialmente in Paesi già scossi da flussi migratori extra-UE). Paesi come Polonia o Ungheria, tradizionalmente pro-allargamento, potrebbero diventare più tiepidi se si profilasse l’arrivo di lavoratori ucraini disposti ad accettare salari più bassi. Anche questioni come la politica agricola comune destano preoccupazione: l’Ucraina è un gigante agricolo e la sua integrazione, se non calibrata, potrebbe sconvolgere il mercato interno dei cereali (già oggi polemiche sono sorte per il grano ucraino a basso costo in alcuni Paesi dell’Est UE). I detrattori evocano il rischio di un “colpo di frusta” economico: l’allargamento 2004 fu seguito da un decennio di tensioni sul lavoro (paura di delocalizzazioni), mitigato anche grazie a periodi transitori sulla libera circolazione. Con i nuovi candidati, i divari economici sono persino maggiori e sarà arduo convincere i cittadini UE ad accettare nuovi stanziamenti e concorrenza interna. Già oggi, sondaggi citati indicano che in Francia e Germania c’è scetticismo prevalente verso ulteriori ingressi. Senza consenso popolare, un allargamento che comporti sacrifici economici potrebbe alimentare radicalizzazione politica. Alcuni analisti suggeriscono modelli alternativi (adesione graduale al mercato unico) proprio per diluire l’impatto economico: concedere a Ucraina e altri l’accesso a certi benefici prima della membership a pieno titolo permetterebbe di testare e accompagnare le loro economie, evitando shock improvvisi. Ma ciò implica comunque maggiori esborsi e complesse negoziazioni. In definitiva, i contrari temono che l’allargamento ad Est, nelle condizioni attuali, possa trasformarsi in un fardello economico non sostenibile per l’UE, innescando conflitti distributivi tra membri e fornendo benzina ai partiti antieuropei che già denunciano il “costo di Bruxelles”. La conclusione pessimistica è che, forzare l’allargamento senza adeguate garanzie economiche, rischia di indebolire la coesione socioeconomica dell’Europa, lacerando ulteriormente Nord-Sud ed Est-Ovest all’interno dell’Unione.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025