I critici avvertono che un allargamento rapido, senza adeguate riforme interne, metterebbe a rischio il funzionamento stesso dell’Unione. Con l’ingresso di fino a 10 nuovi Stati (Ucraina, Moldavia, forse Georgia e i 6 Balcani occidentali), le attuali strutture istituzionali dell’UE sarebbero sotto enorme pressione. Oggi, a 27 membri, l’Unione già fatica a prendere decisioni unanimi su temi sensibili: il caso del veto ungherese che nel 2023 ha bloccato l’apertura dei negoziati con Kiev e Chișinău è emblematico. “Senza riforme, un’UE allargata rischierebbe la paralisi, con i problemi di efficacia e democrazia che già vediamo a 27 destinati solo ad aumentare”, avverte l’europarlamentare Sandro Gozi. Il nodo principale è la regola dell’unanimità in molti settori: con più Stati attorno al tavolo, è quasi garantito che su ogni dossier cruciale emerga il veto di qualcuno (oggi è Orbán, domani potrebbero essere altri a “ricattare” l’UE su questioni bilaterali). Si teme dunque un’UE ingovernabile, incapace di parlare con una voce unica in politica estera, sanzioni, bilancio, allargamento stesso (paradossalmente, nuovi candidati potrebbero bloccare l’adesione di altri candidati per dispute storiche, replicando casi tipo Grecia/Macedonia o Bulgaria/Macedonia). Inoltre, l’allargamento comporta ridefinire la composizione delle istituzioni: un Parlamento UE con oltre 750 deputati e una Commissione con ~35 commissari sarebbe poco efficiente e più costosa. Il Consiglio Europeo diventerebbe un consesso affollato dove raggiungere compromessi richiederebbe tempi lunghissimi. Un rapporto del Parlamento UE ha identificato sfide precise: snellire il processo decisionale (passando al voto a maggioranza qualificata in molte materie), riformare il bilancio (per dotare l’UE di risorse adeguate) e rafforzare la legittimità democratica di un’Unione più grande. Ma realizzare queste riforme richiederebbe di modificare i Trattati, un’impresa politicamente complessa che richiede unanimità degli attuali Stati membri e referendum in alcuni Paesi. I contrari temono che, spinti dall’urgenza geopolitica, si allarghi l’UE senza aver fatto prima questi interventi necessari, ritrovandosi poi con un’unione paralizzata e conflittuale. Un monito proviene anche dall’esperienza: dopo l’allargamento 2004-2007, l’UE ha dovuto varare il Trattato di Lisbona (2009) per evitare lo stallo decisionale, ma secondo molti quell’accordo non basterebbe per una UE a 35. In prospettiva, una forte espansione potrebbe necessitare addirittura di ripensare il meccanismo di presidenza di turno, il numero di voti per maggioranza qualificata e la suddivisione dei fondi tra membri (il che alimenta competizione interna). Senza tutto ciò, argomentano gli scettici, l’allargamento rischia di ingessare ulteriormente l’Unione, costringendola a barcamenarsi tra veti incrociati e minando la sua capacità di azione globale. “Proseguire l’allargamento senza cambiare nulla – adattando semplicemente l’esistente – è molto pericoloso”, avverte Gozi, suggerendo che l’unica via realistica è sfruttare al massimo le clausole esistenti per superare i veti prima che entrino nuovi membri. In conclusione, i contrari pongono una condizione: “riforme prima, adesioni poi”. Senza un’UE più flessibile ed efficiente, includere tanti nuovi Stati potrebbe bloccare il progetto europeo proprio quando servirebbe più unità, trasformando l’allargamento da opportunità storica a boomerang istituzionale.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025