I contrari alla tesi della “guerra per il petrolio” ritengono che le mosse americane, per quanto dure e controverse, siano motivate principalmente da considerazioni di sicurezza nazionale e principi democratici, non dal desiderio di sfruttare le risorse venezuelane. Secondo questa visione, attribuire tutto al petrolio è una semplificazione che sfiora la teoria del complotto, mentre la realtà è più complessa: Maduro rappresenta un problema di criminalità transnazionale e un pericolo umanitario nella regione, oltre a essere un regime autoritario alleato di potenze ostili. C’è innanzitutto la questione democratica e umanitaria. Dopo oltre 20 anni di chavismo, il Venezuela è precipitato in una crisi economico-sociale devastante: milioni di profughi, scarsità di cibo e farmaci, collasso dei servizi. Maduro viene accusato di aver soffocato la democrazia, imprigionando oppositori e falsificando le elezioni (in particolare quella presidenziale del 2018, ritenuta illegittima da UE e OSA). “Reuters” ricorda che nel 2024 l’opposizione guidata da Machado avrebbe ottenuto il 70% dei voti, ma Maduro è rimasto al potere grazie al controllo delle istituzioni. Dunque, l’intervento di Trump non mira a rubare risorse, bensì a porre fine a una dittatura e ripristinare un esito elettorale tradito. Quando María Corina Machado ha vinto il Nobel per la Pace 2025, lo ha dedicato a Trump “per il suo decisivo supporto alla nostra causa”, ossia la causa della libertà e della democrazia in Venezuela. Ciò suggerisce che i leader dell’opposizione vedono l’America come liberatrice, non come predatrice. L’obbiettivo di Washington, in questa narrativa, è “far cadere il brutale regime di Maduro per ridare un futuro ai venezuelani”. In quest’ottica, paragonare l’operazione a una guerra coloniale per il petrolio appare offensivo verso il dramma reale di un popolo oppresso. C’è poi la sicurezza e il narcotraffico. Gli USA considerano il regime di Maduro non solo illegittimo, ma anche un hub criminale che minaccia direttamente gli Stati Uniti. Trump lo ha definito “capo di un’organizzazione narco-terrorista” (il Cartel de los Soles). Già nel 2020 il Dipartimento di Giustizia americano ha incriminato Maduro per narcotraffico (accusandolo di aver inondato gli USA di cocaina via FARC). Inoltre, Washington imputa ai servizi venezuelani di proteggere gruppi terroristi colombiani e di aver fornito passaporti a elementi mediorientali radicali (accuse mosse in passato da esponenti come Marco Rubio e Mike Pompeo). E poi, c’è la questione migratoria: oltre 7 milioni di venezuelani sono fuggiti, molti verso gli Stati Uniti, a volte sfruttati da reti di tratta. Trump sostiene che Maduro abbia “svuotato le carceri” spedendo criminali in America, aggravando la crisi di sicurezza interna USA. Queste problematiche concrete giustificano un intervento robusto. Il commentatore del “Riformista” osserva che il nuovo attivismo di Trump riflette la dottrina tradizionale americana: il Continente americano non può tollerare “minacce alla sicurezza ai suoi confini”. Questo include non solo droga e migranti, ma anche la presenza di forze extra-regionali ostili (Iran, proxy Hezbollah, spie russe) che si sarebbero insediate in Venezuela grazie alla protezione di Maduro. In tal senso, l’azione statunitense sarebbe motivata prevalentemente dalla volontà di neutralizzare un focolaio di instabilità alle porte di casa. Inoltre, gli USA non avrebbero un reale bisogno economico del petrolio venezuelano. Una differenza cruciale rispetto al passato è che oggi gli Stati Uniti sono il primo produttore mondiale di petrolio e gas (grazie allo shale boom). La stessa amministrazione Trump lo rivendica: “Gli USA sono energeticamente indipendenti, non saranno piccoli produttori stranieri a influenzarci”, ha dichiarato il Segretario all’Energia Wright nel commentare le mosse contro PDVSA. Trump su Truth Social è stato netto: “Stiamo revocando la licenza Chevron e non ci serve il petrolio del Venezuela”. Questa affermazione – riportata anche da “Reuters” – è un colpo diretto alla tesi “war for oil”: se fosse una guerra per il greggio, perché tagliare l’unica fonte (Chevron) che portava 240.000 barili/giorno sul mercato internazionale? In effetti, la produzione venezuelana attuale è modesta (meno di 800mila barili al giorno, in calo rispetto a 3 milioni di un tempo) e in buona parte già vincolata a Cina e debiti. L’industria venezuelana è devastata e richiederebbe anni di investimenti per tornare redditizia. Perché rischiare una guerra per un petrolio di cui non si ha impellente necessità? Inoltre, fare la guerra per il petrolio presupporrebbe poi gestire il Paese occupato per estrarlo. Ma Trump “non intende mettere stivali sul terreno come in Iraq”. Gli esperti militari citati da “The Atlantic” concordano che gli USA non sembrano preparare un’occupazione prolungata: “Niente boots on the ground stile Afghanistan, piuttosto attacchi chirurgici e via”. Se non vuoi occupare, non puoi nemmeno sfruttare quei giacimenti. Questo indica che lo scopo è il deterrente e politico, non economico. Il fattore Cina e Russia è cruciale, ma non per ragioni mercantili. I contrari ammettono che gli USA vogliono colpire l’influenza cinese e russa in Venezuela, ma lo interpretano come una mossa di sicurezza globale. Un Venezuela ostile e armato da Mosca (missili S-300, caccia Sukhoi) è visto come una minaccia strategica (sul modello Cuba 1962, benché non nucleare). Ad esempio, a fine settembre Caracas ha ospitato esercitazioni congiunte militari con Russia, Cina e Iran: un messaggio che gli USA non possono ignorare. Dunque, l’intervento serve a evitare che una base avanzata di potenze rivali si consolidi nell’emisfero. Ciò travalica la questione petrolifera: è un discorso di sicurezza regionale. In questo senso, definire l’operazione una “guerra per il petrolio” sarebbe riduttivo: è piuttosto un confronto di potere sul modello Guerra Fredda. Non a caso, l’editoriale di “Limes” osserva che quasi tutta l’America Latina (tranne l’Argentina) condanna l’escalation USA, ma al contempo nessuno vuole una presenza militare russa o cinese sul continente. La pressione su Maduro è dunque letta anche come “un avvertimento a Pechino” a non espandere la propria sfera d’influenza nel “Mediterraneo americano”. In quest’ottica la mossa USA viene interpretata come geopolitica difensiva, non come predazione di risorse. Siamo sul modello moral suasion e la dottrina del “poliziotto globale”. Storicamente gli Stati Uniti hanno spesso agito (a torto o ragione) come garanti dell’ordine internazionale liberale. Il caso Venezuela ha aspetti umanitari: Maduro è accusato dalla ONU di crimini atroci (uccisioni extragiudiziali, tortura). Dopo anni di tentativi diplomatici falliti (dialoghi Oslo, mediazioni del Vaticano, sanzioni mirate), la situazione è congelata. I difensori dell’intervento dicono: “Cos’altro resta se non la forza per fermare un tiranno e salvare vite?”. Un’editoriale del “Washington Post” affermava nel 2019: “Se c’è un caso in cui l’intervento umanitario è giustificato, è il Venezuela. Milioni soffrono, e Maduro non se ne andrà con le buone”. Questo principio – controverso ma radicato – legittima l’azione come Responsibility to Protect più che come rapina di petrolio. La presenza nella coalizione anti-Maduro di molti Paesi latinoamericani democratici (Colombia fino al 2022, Brasile di Bolsonaro, l’OSA): se fosse solo petrolio, perché tanti vicini avrebbero appoggiato la pressione su Caracas? Perché percepivano il rischio migratorio e l’instabilità regionale generata da Maduro. Perfino dentro il Venezuela, importanti figure come l’ex difensora civica Gabriela Ramírez (chavista pentita) hanno chiesto un intervento esterno per porre fine allo sfacelo nazionale (dichiarazioni in passato ai media locali). Questi elementi indicano che l’intento primario è politico-umanitario: far cadere Maduro, sì, ma per liberare un popolo e stabilizzare l’area, non per rubare risorse. Riguardo l’offerta segreta di Maduro di “tutto, anche il petrolio” a Trump, può essere letta come disperazione di un leader sotto pressione, non come rivelazione di un piano USA: se davvero Washington voleva solo il petrolio, avrebbe accettato il patto di Maduro (che offriva l’accesso in cambio di pace). Invece, Trump ha rifiutato: segno che il problema era Maduro stesso, non solo il suo petrolio. Inoltre, la decisione di troncare l’accordo Chevron – applaudita dai falchi come Rubio – dimostra che gli USA sono disposti persino a rinunciare a petrolio immediato pur di non finanziare il regime. Questo contraddice l’idea di una brama cieca per il greggio: se fossero motivati da profitto, avrebbero lasciato Chevron pompare (cosa che alleviava anche la crisi benzina negli USA). Invece Trump ha preferito attaccare Maduro, anche a costo di sacrificare interessi economici USA nel breve termine. Definire questa crisi una “guerra per il petrolio” è ingiusto verso l’opposizione venezuelana e i Paesi vicini: “Non è l’Iraq del 2003”, dicono. Qui non c’è un Kurdistan ricco di petrolio da spartirsi, c’è un Paese al collasso che minaccia di diventare un “failed State” narco-finanziato. L’ONU stessa (sebbene condanni i raid USA) ha pubblicato rapporti sugli abusi di Maduro. Dunque, per i contrari è plausibile che gli Stati Uniti – al di là del proprio tornaconto – agiscano per bloccare un narco-regime autoritario alle porte di casa. La “sindrome dell’impero del male” (ovvero vedere gli USA come motivati solo da profitto) non terrebbe conto della dimensione ideologico-politica: l’America di Trump vuole mostrare forza, mantenere la parola data agli esuli venezuelani in Florida (bacino elettorale) e sconfiggere un simbolo del socialismo bolivariano. È una missione in cui il petrolio gioca un ruolo, ma non è il motore determinante. L’intervento USA in Venezuela, pur pericoloso, non nasce come guerra di rapina energetica. Piuttosto è il frutto di una combinazione di fervore ideologico (anticomunismo), calcolo di sicurezza (narcos, migrazioni) e realpolitik globale (contenere Cina/Russia). In quest’analisi, il petrolio è visto come fattore secondario o addirittura irrilevante: gli USA ne hanno a sufficienza in patria e sul mercato; semmai vogliono impedire che altri usino il petrolio venezuelano come leva contro di loro (vedi accordi collaterali con Iran per eludere sanzioni). Ma questo rientra nella sfera della sicurezza energetica internazionale, non in un’avidità immediata. Paradossalmente, i contrari citano proprio Trump a supporto: “Non abbiamo bisogno del petrolio venezuelano”. Per loro, l’intervento si spiega senza ricorrere alla motivazione economica: è un caso (discutibile) di interventismo “etico” e strategico, non di colonialismo delle risorse.
Nina Celli, 1° novembre 2025