Gli Stati Uniti starebbero orchestrando la crisi venezuelana principalmente per impadronirsi delle sue enormi riserve petrolifere e riconquistare influenza geopolitica sulla regione. I sostenitori di questa tesi sottolineano in primo luogo che il Venezuela possiede le più grandi riserve provate di greggio al mondo: una ricchezza strategica che fa gola a Washington. A loro avviso, la retorica ufficiale americana (lotta al narcotraffico e difesa della democrazia) sarebbe un semplice paravento. Le argomentazioni si basano su vari elementi: Innanzitutto i precedenti storici. Gli USA hanno una lunga storia di interventi in America Latina motivati da interessi economici e di risorse. “Non vogliamo tornare alle ingerenze ‘gringo’ del XX secolo”, ha tuonato Maduro nel 2019, evocando una memoria collettiva regionale fatta di colpi di Stato appoggiati dagli USA per proteggere asset economici o contrastare governi sgraditi. L’articolo di “TIME” ricorda come, durante la Guerra Fredda, Washington rovesciò governi democratici in Cile, Guatemala, Nicaragua ecc., preoccupata dalla nazionalizzazione di industrie e da possibili perdite per le compagnie americane. In Venezuela, in particolare, il petrolio è da sempre al centro: già nel 2002 esponenti dell’amministrazione Bush sapevano del golpe anti-Chávez (che aveva sfidato gli interessi di Big Oil) e tacitamente lo sostennero. L’attuale scenario è un remake aggiornato: un presidente statunitense conservatore, avverso al socialismo, che colpisce un petro-Stato fuori orbita occidentale. In secondo luogo, si mette in dubbio la narrazione antidroga. Dati e analisi indipendenti mostrano che il Venezuela non è un perno del narcotraffico globale. Un rapporto CEPR cita che “il NIC ha stabilito che Maduro non controlla alcuna organizzazione di traffico” e la DEA nel 2024 non menziona neppure il Venezuela come minaccia primaria. La gran parte della cocaina diretta negli USA proviene da altri paesi (Colombia, Messico), mentre il Venezuela funge da rotta secondaria. “Se volessero davvero combattere la droga, prendere di mira il Venezuela ha poco senso”, nota ironicamente l’ex ministro Guillaume Long. Ciò fa pensare che la guerra ai narcos” sia un pretesto. Le stesse tempistiche sollevano dubbi: perché scatenare proprio ora un’enorme operazione militare, coinvolgendo portaerei e sottomarini nucleari, contro qualche motoscafo di contrabbandieri? Una portaerei non serve a inseguire barchini: “l’unico utilizzo è attaccare bersagli a terra”, afferma il senior fellow Bryan Clark, citato da “The Atlantic”. Questo suggerisce finalità ben diverse dal sequestro di droga. Il ruolo del petrolio appare esplicito in diversi segnali. Durante la massima tensione, Maduro avrebbe offerto in segreto “tutto, incluse le risorse naturali” pur di evitare lo scontro: un’ammissione indiretta che crede gli USA motivati dal bottino energetico. Trump lo ha confermato pubblicamente: “Ha offerto di tutto… perché non vuole farsi fottere dagli Stati Uniti”. Un’uscita così cruda tradisce l’esistenza di trattative sottobanco, dove il petrolio è moneta di scambio. Inoltre, John Bolton, già Consigliere per la Sicurezza nazionale, nel 2019 dichiarò in TV che sarebbe “fantastico se compagnie americane potessero produrre petrolio in Venezuela”, segno che a Washington l’idea di sfruttare quei giacimenti è concreta. Analogamente, la recente vittoria del Nobel di María Corina Machado – figura vicina agli USA – è stata letta da alcuni come preludio a un accordo petrolifero: “Il petrolio che Machado consegnerà agli Stati Uniti appartiene alla Cina”, commenta un’analisi su “Il Fatto Quotidiano”, alludendo al fatto che un nuovo governo filoamericano riassegnerebbe alle major occidentali i campi oggi in partnership con Pechino. In sintesi, liberarsi di Maduro consentirebbe a Washington di ri-primarizzare l’accesso a quelle risorse, tagliando fuori rivali strategici. C’è poi la dimensione geopolitica energetica. Da quando il chavismo ha nazionalizzato l’oil&gas, il Venezuela è diventato “terra di conquista” per Cina e Russia. Pechino ha investito oltre 60 miliardi di dollari in progetti petroliferi venezuelani, ottenendo in pegno milioni di barili. Molti di questi debiti petroliferi non sono stati ancora ripagati a causa del collasso produttivo: di fatto, la Cina vanta crediti su una fetta significativa delle riserve. Se Maduro cadesse e un governo sostenuto dagli USA rinegoziasse quei contratti, Pechino subirebbe una grave perdita energetica. Non è un mistero che ExxonMobil e altre compagnie americane abbiano contenziosi aperti con il Venezuela sin dalle espropriazioni di Chávez (2007) e sarebbero pronte a rientrare. C’è, quindi, un doppio vantaggio per Washington: cacciare la Cina dal giacimento e rimpiazzarla. L’analista Perrone ipotizza addirittura che Trump e Xi possano usare il Venezuela come pedina di scambio (Caracas agli americani, Taiwan ai cinesi): uno scenario estremo ma rivelatore dell’importanza attribuita al petrolio venezuelano nei giochi globali. Un ultimo elemento è la sproporzione militare e l’insistenza di Trump. La 22ª Unità spedizionaria Marines, droni, F-35, incrociatori: un simile apparato bellico – “il maggiore dai tempi di Cuba”, rimarca “The Atlantic” – è giudicato eccessivo contro qualche “narcos”. Invece, appare coerente con una invasione lampo volta a prendere il controllo di infrastrutture cruciali (pozzi, terminal petroliferi, raffinerie). Trump stesso ha dichiarato: “Ci sarà presto un’azione di terra”, lasciando intendere piani ben oltre la lotta ai cartelli. Questa insistenza nel “voler andare fino in fondo” contro Maduro, nonostante i rischi e le condanne internazionali, suggerisce che la posta in gioco sia troppo grande per recedere, e quella posta coincide col petrolio e il ripristino dell’egemonia energetica USA nell’emisfero occidentale. Come sintetizza efficacemente “Il Manifesto”, “c’è la motivazione reale: mettere le mani sulle più grandi riserve petrolifere al mondo”, e Trump la persegue sotto la copertura del discorso narco. L’intera crisi, dunque, è l’ennesima guerra per le risorse. Gli Stati Uniti, pur non bisognosi nell’immediato del greggio venezuelano, essendo grandi produttori, avrebbero un interesse strategico di lungo termine a controllare quelle riserve (evitando che finiscano stabilmente a Cina e India) e a mostrare che nessuna potenza rivale può estrometterli dal mercato sudamericano. Tutto ciò, unito alla volontà di riscrivere gli equilibri geopolitici regionali eliminando un regime ostile, costituirebbe il vero motore dell’intervento. Le dichiarazioni altisonanti su droga e libertà celano maldestramente un obiettivo molto più prosaico: petrolio e potere. Come affermano gli esperti ONU, “lo scopo finale [degli USA] è legittimare un’operazione di regime change con l’obiettivo finale di appropriarsi delle risorse petrolifere venezuelane”. In definitiva, per questa corrente di pensiero, la crisi USA-Venezuela conferma la massima che ha accompagnato altri conflitti recenti: “Follow the oil”, segui il petrolio.
Nina Celli, 1° novembre 2025