Un ulteriore argomento contrario riguarda le implicazioni per la privacy e la sicurezza informatica derivanti dalla diffusione di auto connesse e autonome. Questi veicoli, per funzionare, devono necessariamente raccogliere ed elaborare una mole enorme di dati: mappe in tempo reale, video delle telecamere a 360°, scansioni LiDAR dell’ambiente, dati GPS precisi al centimetro, oltre alle informazioni su passeggeri (identità, destinazioni, preferenze) per i servizi di ride-hailing. Tutti questi dati sensibili potrebbero finire nel mirino sia di aziende poco trasparenti sia di attori malintenzionati. I difensori della privacy avvertono che i veicoli autonomi potrebbero diventare delle vere e proprie “telecamere su ruote”, tracciando ogni nostro movimento. Chi controllerà queste informazioni? Ad esempio, un gestore di flotte robotaxi potrebbe sapere dove vive e lavora una persona, quali negozi o cliniche frequenta, o anche conversazioni audio avvenute a bordo (molti prototipi registrano l’abitacolo per motivi di sicurezza). In assenza di normative stringenti, c’è il timore che le aziende possano monetizzare questi dati o cederli a terzi, incrementando la sorveglianza commerciale. Già oggi casi analoghi si sono visti con Tesla, che è stata contestata per l’uso dei video delle telecamere Autopilot, e Toyota (nel test in Cina riportato da ASviS) ha dovuto rassicurare che “i dati dei passeggeri vengono distrutti a fine corsa”. Ma dovremmo fidarci delle promesse delle aziende? I critici chiedono leggi forti a tutela della riservatezza, altrimenti la guida autonoma potrebbe diventare uno strumento per un monitoraggio costante dei cittadini. Oltre alla privacy, vi è il capitolo cybersecurity: un veicolo autonomo è essenzialmente un computer con ruote, costantemente connesso. Ciò lo rende vulnerabile a possibili attacchi hacker. Se già oggi esperti di sicurezza hanno dimostrato di poter hackerare da remoto auto tradizionali (influendo su freni o sterzo), con veicoli interamente controllati dal software il rischio diventa ancora più grave. Un malintenzionato potrebbe prendere il controllo di un’auto autonoma e usarla come arma, ad esempio facendola schiantare deliberatamente. Oppure, un attacco su larga scala potrebbe bloccare il traffico cittadino spegnendo contemporaneamente centinaia di robotaxi (basterebbe bucare il sistema centralizzato). Le agenzie governative riconoscono questa minaccia: nel Regno Unito è stato evidenziato tra i rischi primari il pericolo di cyber-attacchi ai veicoli autonomi, che potrebbero causare incidenti o essere sfruttati per terrorismo. Anche in USA, la NHTSA ha emanato linee guida di cyber-sicurezza per i produttori di AV, ma siamo in un territorio nuovo e complesso. I critici dubitano che le aziende riescano a rendere i loro sistemi impermeabili: più sensori e connettività significano più vettori di attacco. Immaginiamo uno scenario in cui un virus informatico, infatti, una flotta di taxi senza conducente: senza un umano a bordo che può intervenire, i passeggeri sarebbero in balìa del sistema compromesso. C’è poi il rischio di utilizzo malevolo da parte di governi autoritari o forze dell’ordine: automobili sempre connesse potrebbero essere usate per pedinare sospetti, o persino per immobilizzare il veicolo di una persona ricercata con un comando da remoto (tecnologia già esistente). Se da un lato questo potrebbe essere visto come utile strumento anticrimine, dall’altro, in mani sbagliate sarebbe uno strumento per abusi e controllo. Siamo dunque pronti a consegnare questa quantità di potere (fisico e informativo) ad algoritmi e centri di controllo? In molti rispondono di no, almeno non senza solide garanzie. Finora, però, le discussioni pubbliche su questi temi sono state limitate, offuscate dal focus sulla sicurezza stradale. In mancanza di un dibattito, i cittadini medi non sono consapevoli dei potenziali trade-off in termini di privacy/cybersecurity che accompagnano la guida autonoma. I contrari affermano che introdurre gli AV senza aver prima risolto queste questioni sarebbe irresponsabile. Ad esempio, in Europa il GDPR tutela i dati personali: dovremmo estenderlo esplicitamente ai dati raccolti dai veicoli e vietare certi usi (come la profilazione commerciale degli spostamenti). Sul fronte hacker, si dovrebbero prevedere standard di sicurezza informatica obbligatori per i sistemi AV, audit indipendenti sul software e magari “black box” che registrino eventuali accessi non autorizzati. Tutte misure che oggi non ci sono o sono volontarie. La sfida degli AV, quindi, non è solo meccanica, ma anche di diritti digitali: se avremo automobili che guidano da sole ma sacrificando la nostra privacy e aumentando l’esposizione a minacce informatiche, il costo per la società potrebbe superare i benefici. Meglio quindi procedere con estrema cautela e non lasciare che l’entusiasmo tecnologico faccia passare in secondo piano quelle che potrebbero diventare gravi insidie nascoste per la libertà e la sicurezza delle persone.
Nina Celli, 31 ottobre 2025