Una delle obiezioni più rilevanti dal punto di vista socioeconomico riguarda le ricadute sul lavoro. L’automazione dei veicoli minaccia direttamente categorie professionali numerose: autisti di camion e tir, tassisti, autisti di autobus, corrieri e fattorini, fino ai conducenti ride-sharing (Uber/Lyft). Negli Stati Uniti il settore dell’autotrasporto conta circa 3,5 milioni di camionisti; in Europa centinaia di migliaia. La prospettiva di camion senza camionista e taxi senza tassista appare come un’onda dirompente di disoccupazione tecnologica. I sindacati e associazioni di lavoratori sono in prima linea nel denunciare questo rischio. I Teamsters, potente sindacato dei trasporti americano, hanno preso posizione dura: hanno sostenuto leggi locali per vietare la circolazione di mezzi pesanti autonomi (ad esempio in California con la proposta AB-33) e hanno minacciato scioperi se le aziende tenteranno di introdurli unilateralmente. Un comunicato dei Teamsters definisce la guida autonoma un tentativo dei “billionaire di Big Tech di distruggere posti di lavoro attraverso l’automazione” e loda i legislatori che cercano di fermarli. Dal loro punto di vista, ogni camion automatico in strada equivale a un camionista disoccupato, e vista la scala potenziale (si stima che i costi ridotti dalla guida autonoma possano portare le flotte a rimpiazzare decine di migliaia di autisti umani), si tratterebbe di un colpo durissimo per la classe lavoratrice. I nuovi posti high-tech di cui parlano i sostenitori (ingegneri, sviluppatori) difficilmente potranno essere ricollocamenti per gli attuali autisti, che spesso non hanno qualifiche comparabili. Si creerebbe quindi un mismatch e un aumento delle disuguaglianze. Anche il Parlamento Europeo ha discusso questi temi: uno studio del 2021 stimava che la piena automazione nei trasporti potrebbe far sparire fino a 5 milioni di posti in Europa entro il 2030, e raccomandava programmi di riconversione professionale fin da subito. I critici però osservano che non sarà semplice “riconvertire” un camionista cinquantenne in programmatore di AI. Inoltre, spesso le aziende useranno l’automazione per ridurre i costi del personale più che per spostare i lavoratori su mansioni diverse. L’impatto non sarebbe solo su chi guida per mestiere: pensiamo ai parcheggiatori, ai gestori di flotte aziendali e più in là ai meccanici (le auto autonome elettriche richiederanno meno manutenzione). In generale, l’adozione massiccia di veicoli autonomi potrebbe ridisegnare interi settori con un saldo occupazionale molto negativo per i lavori a bassa qualifica. Oltre alla disoccupazione, viene evocato il rischio di peggioramento delle condizioni di lavoro per chi resta: ad esempio, una prima fase con camion a guida autonoma supervisionati da un “operatore di sicurezza” potrebbe portare le aziende a richiedere a un singolo supervisore di monitorare più mezzi contemporaneamente, moltiplicando la pressione e riducendo le tutele (un po’ come un controllore di droni che segue 5-10 droni assieme). Il sindacato dei trasporti britannico ha già chiesto garanzie che ogni veicolo autonomo abbia comunque un addetto a bordo, anche se non guida, per evitare questa “Uber-izzazione” del lavoro di sorveglianza. Dal lato sociale, va considerato che molte di queste professioni sono occupate da classi lavoratrici già vulnerabili: i camionisti spesso non hanno istruzione superiore e guadagnano stipendi medio-bassi ma stabili. Togliere loro il lavoro senza un piano di reimpiego significa mettere in crisi famiglie e comunità (in alcune zone degli USA, la professione di truck driver è tra le più diffuse). Per questo gruppi politici e di advocacy sostengono che non si possa procedere con l’automazione ignorando il principio della giustizia sociale: la transizione dovrebbe essere rallentata fino a che non si creino sistemi di supporto per i lavoratori colpiti, come prepensionamenti o formazione. Finora, lamentano i contrari, pochi passi in questa direzione sono stati fatti, anzi, alcune amministrazioni sembrano voler deregolamentare in fretta su spinta dell’industria, senza considerare l’impatto sul lavoro. Un caso citato è il Texas, dove nel 2023 è stata approvata una legge pro-AV su camion senza richiedere la presenza di un autista: i Teamsters la definirono una “minaccia diretta” al loro settore. C’è poi un risvolto economico più ampio: se i costi di trasporto crollano perché si elimina il lavoro umano, alcune regioni potrebbero subire dumping sociale e chiusura di imprese locali di trasporto soppiantate dai colossi high-tech. I detrattori dipingono uno scenario di gig economy su ruote: flotte di veicoli autonomi gestite da poche aziende monopolistiche (Big Tech e e-commerce) che potrebbero controllare logistica e mobilità senza più concorrenza dei piccoli operatori indipendenti (autisti, tassisti). In definitiva, il rischio è che i costi sociali superino i benefici: un leggero aumento di efficienza o sicurezza non compensa la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro dignitosi, né la potenziale destabilizzazione di interi settori. Invece di investire tanto per eliminare il fattore umano, alcuni suggeriscono che sarebbe meglio puntare a migliorare la sicurezza e le condizioni lavorative con l’umano ancora al centro (ad esempio, favorendo tecnologie di assistenza che aiutino il conducente senza sostituirlo del tutto). Finché non si affronteranno seriamente le conseguenze occupazionali, spingere la guida autonoma equivale a “mettere sul lastrico migliaia di famiglie” in nome di una fredda efficienza economica.
Nina Celli, 31 ottobre 2025