Invece di accettare la premessa che i dati personali siano oggetti su cui costruire potere geopolitico in senso conflittuale, dovrebbero essere trattati come una materia dove cooperazione e governance globale portano benefici maggiori per tutti, minimizzando i rischi. L’approccio realpolitik ai dati (ognuno per sé, con logica di potenza) è pericoloso e inefficiente, si dovrebbe invece sviluppare un regime internazionale di regole, simile a quanto fatto per altri beni comuni (spazio, mari, clima). Ad oggi, manca un vero trattato globale sui dati e senza regole condivise, prevale la legge del più forte (o del più spregiudicato) che giustifica abusi. Per esempio, Access Now e altre ONG hanno chiesto alle Nazioni Unite una moratoria globale sulla sorveglianza biometrica di massa, per evitare una corsa tecnologica tra Stati che porti all’adozione generalizzata di strumenti invasivi (telecamere intelligenti, spyware di Stato) e al conseguente calo mondiale della privacy. Altri esperti propongono una “Digital Geneva Convention” che proibisca certi cyber-attacchi a infrastrutture civili e la raccolta di dati sanitari a fini bellici. In campo commerciale, l’OMC discute da anni della liberalizzazione degli e-commerce data flows, ma i negoziati sono complicati. Un accordo multilaterale darebbe certezze a tutti gli attori economici, mentre l’attuale mosaico di leggi nazionali crea costi e incertezze. Un’iniziativa come la proposta giapponese del G20 sul Data Free Flow with Trust va in questa direzione: incoraggiare interoperabilità normativa e fiducia reciproca, cosicché i dati possano circolare per scopi legittimi (commercio, ricerca) ma con garanzie di protezione. Paesi come l’India o il Sudafrica hanno tuttavia bloccato tale dichiarazione temendo di avvantaggiare le Big Tech straniere. Ma la strada migliore non è il ritiro autarchico, bensì negoziare condizioni eque. Ad esempio, l’idea di un data sharing for development auspica che i giganti privati condividano anonimamente parte dei loro dati con organizzazioni internazionali per il bene pubblico (come mobilità, clima, salute globale), secondo regole fissate da accordi. Questo trasformerebbe i dati da oggetto di contesa a risorsa condivisa, riducendo la spinta ad accaparrarseli unilateralmente. Inoltre, i contrari notano che uno scenario di guerra dei dati non conviene davvero a nessuno a lungo termine: se ogni fazione blocca i dati altrui, anche la ricerca scientifica e la lotta alle sfide comuni (pandemie, cambiamento climatico, criminalità transnazionale) ne risentono. La cooperazione investigativa internazionale, ad esempio, dipende dallo scambio di dati (si pensi all’Interpol o ai trattati sul trasferimento di dati finanziari per tracciare il terrorismo). Chiudere i rubinetti per sfiducia reciproca potrebbe ostacolare anche la sicurezza anziché rafforzarla. Va inoltre considerato che molti attori che detengono dati non sono Stati nazionali ma entità private: nessuno Stato da solo può controllare tutti i dati, perché gran parte è in mano a Facebook, Google, Amazon, Tencent ecc. Un approccio cooperativo includerebbe anche regole globali per le aziende (standard comuni antitrust, requisiti di trasparenza algoritmica) onde evitare che la competizione tra Stati lasci carta bianca ai monopolisti privati, che poi sfruttano i vuoti normativi a scapito degli utenti. Amnesty International ha definito Facebook e Google “sorveglianza capitalistica” incompatibile coi diritti umani e ha invocato normative globali per limitarne la raccolta dati. Vedere i dati personali solo come strumenti di potere geopolitico è una profezia che si auto-avvera pericolosamente: innesca una corsa agli armamenti digitali che porta tutti a investire in sorveglianza e a blindare dati, distruggendo la fiducia globale. Invece, andrebbero istituiti meccanismi di fiducia reciproca: accordi sul rispetto della privacy (magari integrati nei trattati commerciali), cooperazione giudiziaria più forte (per consentire accessi legali ai dati senza conflitti giuridici) e iniziative ONU per dichiarare certi dati (come quelli sanitari o genetici) “off-limits” da uso militare. Dunque, l’enfasi su “dati strategici = potere” è non solo esagerata nei fatti, ma pure dannosa. È preferibile parlare di responsabilità condivisa sui dati, promuovendo standard globali che limitino l’uso malevolo e permettano la circolazione in modo sicuro. Questo approccio toglierebbe ai dati quell’aura di “ambito di competizione feroce” e li riporterebbe a essere uno strumento importante, ma di cui l’umanità nel complesso può beneficiare cooperando anziché confliggendo.
Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025