Per quanto utili, i dati non rimpiazzano altri elementi classici del potere geopolitico né garantiscono automaticamente dominio o influenza. In breve: i dati sono importanti, ma non onnipotenti. Nella storia, molte “nuove risorse” sono state inizialmente considerate decisive, per poi rivelarsi solo una componente di un puzzle più grande. Ad esempio, negli anni ’70 si parlava del “potere del petrolio” delle petrol-monarchie, e certamente quel fattore dava loro peso; ma non ha reso quei Paesi superpotenze complete, perché mancano di altri attributi (popolazione, forza militare diversificata, alleanze, innovazione tecnologica in altri campi). Analogamente, oggi si vede la Cina come colosso dei dati e dell’AI; tuttavia, la sua influenza globale dipende anche da fattori tradizionali (capacità economica manifatturiera, spesa militare, diplomazia) e soffre dei limiti di un sistema politico poco attraente per molte nazioni (soft power culturale limitato). Dall’altra parte, la Russia in teoria ha accesso a molti dati (anche grazie a hacking e intelligence aggressiva) e li usa per disinformazione, eppure il suo potere geopolitico è eroso dalle sanzioni economiche e da fattori demografici. I dati non le hanno evitato problemi strategici seri, come mostrato dal conflitto in Ucraina. Dunque, nessun singolo fattore garantisce il potere. Sul fronte economico, avere tanti dati non basta se non si ha un apparato industriale e formativo adeguato: l’Europa possiede dati di alta qualità (per esempio nel settore manifatturiero, automobilistico, scientifico) ma finora non è riuscita a tradurli in giganti digitali propri. Ciò dimostra che contano l’ecosistema imprenditoriale, l’accesso ai capitali di rischio, la cultura dell’innovazione, non solo la materia prima dei dati. Un governo può accumulare montagne di dati sulla propria popolazione, ma se non c’è buon governo quei dati restano inutili: paesi altamente corrotti o instabili politicamente non trarranno benefici strategici dai dati perché mancherà loro la fiducia per usarli efficacemente (si pensi all’India, che pur avendo enormi set di dati biometrici e digitali, fatica ancora a tradurre questo potenziale in servizi pubblici efficienti e influenza tecnologica globale, anche a causa di problemi di governance e privacy). Inoltre, il potere geopolitico rimane multidimensionale: le alleanze internazionali, il prestigio diplomatico, la coesione interna, la disponibilità di risorse energetiche reali, perfino la superiorità militare convenzionale sono fattori che i dati da soli non possono compensare. L’Iran ha accumulato grandi capacità cyber e raccoglie dati per sorvegliare la propria popolazione, ma il suo isolamento economico e militare limita la sua proiezione all’esterno. Viceversa, piccole democrazie come la Svizzera o la Nuova Zelanda hanno poca rilevanza in termini di big data, eppure esercitano un soft power e un’influenza diplomatica in virtù di altri attributi (reputazione, stabilità, competenze di nicchia). Sminuire questi aspetti e concentrarsi ossessivamente sui dati può portare a investimenti pubblici mal calibrati. Diversi analisti notano il rischio che la “febbre dei dati” provochi un dispendio di risorse in megaprogetti digitali poco fruttuosi: data center costruiti solo per ragioni politiche, piattaforme nazionali ridondanti rispetto a soluzioni globali migliori ecc., togliendo fondi magari all’istruzione o alla sanità. Un esempio citato è l’ambizione europea di totale autonomia cloud: una nobile idea per la sovranità, ma c’è chi teme che replicare da zero infrastrutture già offerte da aziende USA possa costare moltissimo e risultare inferiore, finendo per penalizzare l’innovazione locale. Un quadro di Henry Kissinger (che ha iniziato a occuparsi di IA) suggerisce che la potenza di una nazione nel futuro dipenderà da una combinazione di fattori: chi integrerà meglio dati e intelligenza artificiale nel tessuto economico-militare, ma sempre insieme a leadership politica, organizzazione sociale e valori condivisi. Se una società sacrifica troppi valori per i dati potrebbe perdere legittimità o coesione – indebolendo il suo potere “morale” (su cui insiste l’Occidente). Pertanto, i dati personali non vanno mitizzati come “arma finale”: sono un fattore importante, sì, ma servono strategie equilibrate. Un policymaker deve guardarsi dall’“illusione tecnologica” di risolvere ogni problema accumulando dati. Anche con tanti dati, se la politica estera è sbagliata o l’economia non è sana, il potere declina comunque. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno una posizione di forza anche sui dati (grazie alle Big Tech), ma riconoscono che il vantaggio non è garantito per sempre: investono in chip, in formazione STEM, in alleanze (Quad, IPEF), segno che considerano i dati una componente di un insieme più vasto di leve geopolitiche. Dunque, il potere geopolitico è il risultato di più fattori sinergici. Focalizzarsi eccessivamente sui dati personali come “il” fattore strategico potrebbe far perdere di vista altre priorità e indebolire, paradossalmente, la posizione generale di uno Stato.
Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025