L’ampia disponibilità di dati personali consente a uno Stato di migliorare significativamente le proprie capacità amministrative, economiche e scientifiche, incrementando così il proprio hard power in modo indiretto. Un governo che controlla efficacemente i dati dei cittadini può governare meglio. Ad esempio, può pianificare politiche pubbliche basate su analisi dettagliate (dalla mobilità urbana ai trend sanitari emergenti), aumentando l’efficienza e la resilienza della società. Modi e altri leader di Paesi emergenti affermano che sfruttare i dati permetterà di “fare il salto” in settori come l’istruzione e la sanità, analogamente a come il petrolio arricchì rapidamente nazioni arretrate. Chi riesce a estrarre conoscenza dai big data interni può anticipare crisi (ad esempio rilevando segnali di epidemie tramite ricerche online, come hanno tentato con Google Flu Trends), contrastare meglio la criminalità (incrociando banche dati diverse per individuare reti terroristiche o mafiose) e ottimizzare l’allocazione di risorse. Tutto ciò rende il Paese più competitivo e stabile, dunque più influente. Sul piano economico, uno Stato che protegge i dati dei propri cittadini può anche trarne profitto o valore aggiunto internamente: la Russia, ad esempio, con le leggi di localizzazione del 2015, non solo puntava alla sicurezza ma anche a “costringere” le multinazionali a investire in data center russi, generando occupazione e know-how locale. Esiste una sorta di “nazionalismo dei dati” analogo a quello industriale: come avere industrie manifatturiere forti contribuiva al potere di una nazione nel ’900, oggi avere un ecosistema digitale autosufficiente e trattenere il valore dei dati nel proprio territorio è considerato strategico. Ciò si collega anche al concetto di “data colonialism”: finora i dati personali di miliardi di persone (in Africa, Sud America, Asia) sono stati raccolti e sfruttati quasi esclusivamente da aziende di pochi Paesi (USA/Cina), generando un flusso di ricchezza unidirezionale. Paesi come il Brasile, l’India o l’Indonesia sostengono in sede ONU e G20 che questa dinamica vada corretta e stanno implementando normative per “liberarsi da un nuovo colonialismo digitale”. Ad esempio, l’India ha resistito alla dichiarazione di Osaka sul libero flusso dei dati (DFFT) nel 2019, dichiarando prioritario poter costruire prima la propria capacità digitale nazionale. L’Unione Africana ha anch’essa prodotto linee guida che combinano cybersecurity e protezione dati come pilastri per lo sviluppo sovrano. Questi Stati sostengono che controllare i dati interni consenta loro di sviluppare industrie locali (dal fintech all’e-commerce) senza venire schiacciati dai monopoli esteri, e di proteggere la popolazione da sfruttamenti (si pensi alle polemiche sull’uso di dati di africani da parte di organizzazioni internazionali senza adeguato ritorno). In sostanza, il possesso di dati personali diventa un moltiplicatore di potenza su vari fronti: potenzia l’azione di governo, alimenta lo sviluppo economico interno e riduce la dipendenza tecnologica dall’esterno. Chi accumula questi benefici migliora la propria posizione geopolitica relativa. Rebecca Arcesati (MERICS) nota che la Cina, ad esempio, definisce i dati “fattore di produzione” economico al pari di terra e capitale e ne massimizza il valore all’interno, credendo che il mercato da solo non ne ottimizzi l’uso senza intervento statale. Dall’altro lato, gli Stati Uniti – forti di un vantaggio iniziale – hanno interesse a mantenere liberi flussi globali (che di fatto favoriscono le proprie aziende), ma al contempo riconoscono che per restare leader devono impedire agli avversari di colmare il gap accedendo ai dati americani: da qui i divieti recenti di vendere dati sensibili a società cinesi o russe. C’è, dunque, una logica di realpolitik molto concreta: più dati personali (ben gestiti) significano uno Stato più forte internamente e più capace di influenzare l’esterno. Trascurare questa risorsa vorrebbe dire lasciare vantaggi altrui sul tavolo, con possibili conseguenze sul benessere e sulla sicurezza nazionale.
Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025