Esistono conseguenze negative, soprattutto sul piano economico e tecnologico, a un approccio geopolitico troppo incentrato sui dati come risorsa strategica. In particolare, il “data nationalism” (nazionalismo dei dati) e la “balcanizzazione di Internet” (la tendenza degli Stati a erigere confini digitali attorno ai dati nazionali, per motivi di sovranità e sicurezza), rischiano di spezzare la rete globale e di impoverire tutti sul lungo termine. Questo argomento mette in rilievo che la libera circolazione dei dati è stata finora un volano fondamentale per l’innovazione e la crescita mondiale. Politiche protezionistiche come la localizzazione obbligatoria dei dati, i divieti di trasferimento e la duplicazione di infrastrutture (cloud nazionali isolati) generano inefficienze e costi che poi si ripercuotono su consumatori e imprese. Ad esempio, se ogni Paese pretende di conservare tutti i dati entro i propri confini, aziende globali come Microsoft o Amazon dovranno costruire data center ovunque, rinunciando alle economie di scala, e i servizi digitali diventano più costosi e meno performanti. Bernard Marr e altri esperti aziendali sostengono che l’idea di monetizzare i dati nazionali come fosse petrolio attraverso dazi o restrizioni potrebbe soffocare l’ecosistema digitale più di quanto lo arricchisca. Si citano rapporti (es. Leviathan Security 2015) che stimavano aumenti di costi dal 30% in su per servizi cloud in Brasile e UE se si vietasse del tutto la gestione transfrontaliera. Non a caso, associazioni industriali e ONG hanno criticato normative come quelle russe o cinesi come meri strumenti di protezionismo economico travestiti da sicurezza. Anche sul fronte innovazione, blindare i dati entro confini nazionali priva i ricercatori dell’accesso a dataset internazionali cruciali (si pensi alla ricerca medica che necessita di basi di dati globali per trovare correlazioni significative su malattie rare). Adam Schlosser (WEF) nota che quando i governi accumulano dati in silos nazionali e li “chiudono a chiave”, si perdono opportunità: ad esempio, grazie ai dati globali si sono sviluppati sistemi per avvisare i familiari in caso di disastri (safety check di Facebook) e progetti per oceani sostenibili; se i dati fossero stati isolati per sovranismo, tali progressi non sarebbero stati possibili. Un caso concreto di boomerang economico è la vicenda del Vietnam, che nel 2018 ha introdotto una legge che impone alle aziende straniere di localizzare i dati degli utenti vietnamiti su server domestici e di aprire uffici in loco. Il risultato, secondo analisi di “Business”, è stato un calo degli investimenti tech esteri in Vietnam, perché per molte startup internazionali i costi aggiuntivi (infrastrutture, compliance) non valevano il mercato vietnamita. Ciò significa meno concorrenza e innovazione per i consumatori locali. Un discorso simile vale per la UE. Sebbene il GDPR abbia dato benefici in termini di fiducia, alcuni critici interni notano che l’eccessiva rigidità europea su privacy potrebbe aver frenato lo sviluppo di servizi AI e big data in Europa, costringendo molte aziende innovative a spostarsi dove l’uso dei dati è più facile (USA). Francesco Giorgianni (citato da Alverone) ha detto che il GDPR “ha contenuto la dispersione dei dati europei nel mondo”, ma la sfida operativa è tradurlo in innovazione. In UE grandi dataset anonimizzati per la ricerca AI spesso non si possono utilizzare per via di regole stringenti; ciò spinge talenti e aziende verso l’estero. Dunque, un eccesso di zelo sovranista rischia di trasformarsi in auto-limitazione competitiva. E poi, la frammentazione per Stati indebolisce la sicurezza collettiva: l’approccio globale (ad esempio, accordi internazionali su cybersecurity, standard comuni su privacy) potrebbe creare un ambiente più sicuro per tutti, mentre ogni Paese che va per conto proprio genera incompatibilità che possono essere sfruttate da attori malintenzionati (ad esempio, hacker che trovano rifugio in giurisdizioni “protette” dalla cooperazione). La spinta USA a bloccare i flussi verso la Cina è comprensibile geopoliticamente, ma se estremizzata potrebbe portare a un Internet biforcato (splinternet) con due ecosistemi non comunicanti. Ciò ridurrebbe la scala dei mercati per le imprese e impedirebbe la libera circolazione della conoscenza. Anche l’utente finale ne soffrirebbe, dovendo rinunciare a servizi o interfacciarsi con versioni separate (ad esempio, già oggi alcuni software e app non possono operare in Cina per via delle restrizioni sui dati e, viceversa, prodotti cinesi sono banditi in Occidente). Trattare i dati personali unicamente come “patrimonio geopolitico” porta a politiche miopi di chiusura e nazionalismo digitale che nell’immediato possono dare l’illusione di proteggere, ma nel lungo termine impoveriscono l’ecosistema digitale e quindi lo stesso potenziale innovativo e di crescita del Paese. La vera sfida sarebbe invece trovare un equilibrio tra i due approcci: garantire sicurezza e sovranità senza rinunciare ai benefici dei flussi di dati globali. In pratica, il concetto di “Free Flow of Data with Trust” proposto dal G20 (Osaka Track), che però finora stenta a decollare per via delle diffidenze diffuse.
Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025