Con l’avvento di Internet e dei social media, la quantità di dati su preferenze, opinioni, abitudini dei cittadini (anche di Paesi esteri) è esplosa. Questi dati sono diventati un bottino ambito nei conflitti non convenzionali. I sostenitori notano che siamo entrati nell’era della cosiddetta “cognitive warfare” (guerra cognitiva), in cui l’obiettivo è conquistare “i cuori e le menti” dell’opinione pubblica avversaria manipolando l’informazione. In questo contesto, i dati personali fungono da munizioni per operazioni di persuasione di massa. Il caso emblematico già citato è quello di Cambridge Analytica. L’uso non autorizzato dei dati di milioni di utenti Facebook per condizionare elettori negli Stati Uniti, nel referendum Brexit e in vari Paesi ha mostrato come dati apparentemente innocui (i “mi piace”, i profili psicologici dedotti) possano essere sfruttati per alterare processi democratici sovrani. Ma lo scenario va oltre: Russia e Cina sono accusate di condurre campagne sistematiche di disinformazione online, micro-targettizzando specifici segmenti in Europa o America grazie a dati profilati (ad esempio, attraverso account fake e strumenti di social listening). Nel 2016 l’intelligence USA ha denunciato l’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali non solo tramite gli hack di e-mail, ma anche con un massiccio uso di dati social per diffondere propaganda e fake news calibrate sui gruppi sociali identificati come decisivi. Anas Ammar, in un’analisi per l’FNF, elenca tra i “meccanismi critici” del potere dei dati proprio le “influence operations”. Ad esempio, cita come la Cina abbia sfruttato l’analisi dei dati sui social media durante le proteste di Hong Kong per indirizzare campagne di contro-narrazione propagandistica. I dati personali diventano quindi “arma di soft power”: uno Stato può raccogliere enormi dataset su cittadini stranieri (magari attraverso app molto diffuse come TikTok, o attraverso violazioni mirate, come l’attacco cinese a Equifax nel 2017, che compromise i dati finanziari di 145 milioni di americani) e usare quelle informazioni per identificare punti deboli, manipolare l’opinione, reclutare informatori o screditare figure pubbliche. Sul fronte interno, poi, regimi autoritari come la Cina usano i dati personali per il controllo sociale (famoso il sistema di credit score che combina dati finanziari, di geolocalizzazione e facciali per premiare o punire comportamenti) e questa capacità di monitorare ogni aspetto della vita dei cittadini viene considerata una nuova dimensione del potere statale. Chi padroneggia i big data avrà un vantaggio sia in fase di prevenzione (intelligence predittiva: anticipare minacce terroristiche o moti popolari analizzando trend nei dati) sia in fase offensiva (colpire il morale e il consenso di un Paese nemico con operazioni psicologiche mirate). L’uso militare dei dati si estende anche ai campi tradizionali: ad esempio, l’esercito USA utilizza analisi di dati commerciali (geolocalizzazione da smartphone, immagini da social) per integrare le informazioni di spionaggio classiche, mentre la NATO ha riconosciuto il cyberspazio (dove i dati circolano) come quinto dominio bellico, accanto a terra, aria, mare e spazio. Insomma, i dati personali sono divenuti “il nervo dell’informazione globale”: controllarli permette di influenzare comportamenti e decisioni su scala vasta, facendo pendere la bilancia geopolitica a proprio favore senza violenza. Ciò li rende a tutti gli effetti uno strumento strategico di potere, soprattutto in un’epoca in cui conflitti ibridi e competizione sottosoglia (non dichiarata apertamente) sono sempre più frequenti.
Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025