Trattare i dati personali come risorsa strategica può avere un impatto negativo sulle libertà civili, sulla democrazia e sui diritti umani. I contrari sostengono che elevare i dati ad asset di potere incentiva governi e aziende a raccoglierne in modo invasivo, giustificando pratiche di sorveglianza di massa in nome della sicurezza o della competitività economica. Il risultato potrebbe essere una deriva verso società orwelliane, in cui privacy e autonomia individuale vengono sacrificate sull’altare della “ragion di Stato digitale”. Questo timore è fondato su tendenze reali: in diversi Paesi si osserva che, quando la narrazione “i dati sono fondamentali per la nazione”, prende piede, si assiste a un ampliamento dei poteri di raccolta dati delle autorità e a una compressione delle tutele. Un esempio estremo è la Cina, dove lo Stato – ritenendo i dati un elemento chiave della governance – ha implementato negli ultimi anni un sistema di monitoraggio capillare: dalle telecamere di riconoscimento facciale (oltre mezzo miliardo nel Paese) ai sistemi di punteggio sociale che integrano dati finanziari, giudiziari e persino comportamentali dei cittadini. Per i detrattori, questo mostra come considerare i dati strategici porti con sé la tentazione per i governi di “possedere” tutta la vita digitale dei cittadini, con il pretesto del bene comune. Carlo Impalà, in un articolo, rileva proprio come dietro frasi fatte tipo “la privacy non esiste più, ce lo chiede la concorrenza globale” si celi un pericoloso scivolamento culturale: i diritti vengono degradati a ostacoli e si afferma una mentalità di emergenza permanente che normalizza la sorveglianza. Egli avverte che questa “apparente ragionevolezza” di mettere i dati al servizio di priorità superiori nasconde un “rischio di regressione democratica” ben noto in Europa. In effetti, storicamente i momenti di crisi (guerre, terrorismo) portano i governi a espandere i poteri di controllo, ma il rischio è che la trasformazione digitale stia creando uno stato di eccezione permanente: la competizione geopolitica viene usata per giustificare misure straordinarie anche in tempi di pace. Pensiamo agli USA: dopo l’11 settembre 2001 attuarono programmi di sorveglianza di massa (Prism, XKeyscore ecc.) in nome della sicurezza nazionale; oggi, in piena rivalità con Cina, il Justice Department lancia un programma per monitorare e limitare le transazioni di dati personali, definendo l’accesso straniero ai dati degli americani una “minaccia straordinaria e urgente”. Se pure un Paese democratico arriva a misure così invasive (vietare la vendita di interi dataset a stranieri, controllare aziende tech nelle loro operazioni sui dati), figuriamoci regimi autoritari con meno contrappesi. Nanjala Nyabola chiama tutto ciò “promessa di sfruttamento”: i governi presentano l’estrazione dati come progresso, ma poi la utilizzano per consolidare il potere e mantenere uno status quo di disuguaglianze. Nei suoi esempi dal Kenya, i sistemi di ID digitale e schedatura biometrica – venduti come modernizzazione – finiscono per escludere minoranze e privarle di servizi, mentre lo Stato ottiene strumenti per sorvegliare e commercializzare i dati dei cittadini senza garanzie. La European Data Protection Supervisor (autorità UE) ha a sua volta messo in guardia: in un contesto geopolitico segnato dal “potere degli algoritmi”, bisogna ridisegnare i confini del possibile tenendo al centro la dignità umana, altrimenti la domanda crescente di sicurezza alimenta spirali autoritarie. In sostanza, i contrari dicono che, anche se i dati personali sono diventati strategici, considerarli una risorsa sfruttabile comporta costi altissimi in termini di diritti. Si rischia di legittimare un modello di sorveglianza permanente (il “modello Pechino”) o un capitalismo della sorveglianza in cui i cittadini perdono ogni controllo sulle proprie informazioni, col pretesto che “serve al progresso o alla sicurezza”. Gli sviluppi già osservati – dalle leggi antiterrorismo che espandono la raccolta di dati finanziari e di viaggio, ai software di polizia predittiva che profilano minoranze – indicano una deriva reale. I critici propongono invece un modello alternativo: “governare i dati, non sorvegliarli” (riprendendo le parole di Impalà). Ovvero, riconoscere sì l’importanza strategica, ma porre limiti chiari e trasparenza: i dati devono servire all’empowerment dei cittadini e al miglioramento dei servizi, non a costruire uno Stato di polizia digitale. La data-mania geopolitica, dunque, può condurre a società meno libere e aperte e, in definitiva, a minare proprio quei valori e quelle basi democratiche che costituiscono la forza morale e politica di un attore sulla scena mondiale. Un paradosso auto-lesionista, da evitare bilanciando attentamente innovazione, sicurezza e diritti.
Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025