La metafora petrolifera è fuorviante. Molti contestano l’analogia secondo cui i dati personali sarebbero la nuova risorsa strategica, paragonabile alle materie prime del passato. Critici ed esperti evidenziano che i dati differiscono radicalmente dal petrolio in almeno tre aspetti: la non scarsità, la riusabilità infinita e la dipendenza dal contesto. Mentre il petrolio è un bene finito e la sua rarità ne determina il valore (più controllo di pozzi = più ricchezza), i dati sono generati continuamente in quantità astronomiche. Un rapporto del World Economic Forum ricorda che “nei prossimi due anni verranno creati 40 zettabyte di dati”, una quantità quasi inconcepibile. Questo implica che il valore dei dati non risiede nell’accumulazione passiva, poiché non esiste una “riserva limitata” da contendersi: tutti i Paesi e le aziende possono in teoria raccogliere dati in abbondanza (anche perché la digitalizzazione si espande ovunque). Ciò che conta è saperli filtrare e utilizzare. Come afferma Adam Schlosser (WEF), “il valore dei dati non cresce semplicemente accumulandone di più. Sono gli insight generati tramite l’analisi e la combinazione di dataset diversi che creano valore reale”. Un dataset grezzo, per quanto voluminoso, è inutile se non viene elaborato, anzi, accumulare dati senza criterio aumenta solo i costi di archiviazione e i rischi di furto. Questo porta al secondo punto: diversamente dal petrolio, che si brucia una volta e basta, i dati non si esauriscono con l’uso. Possono essere copiati e condivisi all’infinito senza perdere l’originale. Dunque, il controllo esclusivo non è sempre possibile né necessariamente desiderabile: “aggiungere altro petrolio non migliora la qualità del petrolio, mentre combinare dati da fonti diverse può generare nuove conoscenze”, scrive Schlosser. Ciò significa che la cooperazione nel campo dei dati spesso produce più valore della competizione. Ad esempio, mettere in comune dati sanitari tra Paesi può far progredire la ricerca medica (lo si è visto nella collaborazione internazionale durante la pandemia Covid-19), mentre tenerli isolati per gelosia di sovranità può rallentare le scoperte. I governi dovrebbero perseguire il data sharing sicuro, non il data hoarding. Il terzo aspetto è il contesto e la qualità: non tutti i dati hanno uguale utilità. Avere tanti dati rumorosi o ridondanti potrebbe non dare alcun vantaggio, se non si hanno le competenze per estrarne informazione di qualità. Studi come quelli di ITIF (Daniel Castro) sostengono che c’è una false promise nel data nationalism: localizzare e trattenere dati entro i confini non garantisce affatto innovazione o sicurezza, se mancano investimenti in capitale umano, infrastrutture digitali e una cultura del dato. In altri termini, la potenza dei dati è relativa: serve un ecosistema di analisi e tecnologie per valorizzarli. Paesi piccoli ma avanzati (ad esempio Estonia o Israele) riescono a sfruttare bene i dati senza averne enormi quantità, grazie a know-how e strategie mirate; mentre Paesi con popolazioni vaste (quindi tanti dati generati) ma meno capacità tecnologiche non riescono a tradurre quel potenziale in potere concreto. Un esempio è il fenomeno dei “data rich but information poor”: nazioni che raccolgono enormi dati (magari tramite videosorveglianza di massa) ma non li utilizzano efficacemente per migliorare governance o competitività. Pertanto, la narrativa “chi ha più dati vince” è una semplificazione: conta come li usi, non solo quanti ne hai. Per di più, enfatizzare i dati come nuova moneta può portare a distorsioni di policy: vari governi hanno lanciato progetti costosi di data center nazionali pensando risolvessero ogni problema, salvo poi scoprire che senza talenti e innovazione quei data center restavano sottoutilizzati (ad esempio alcuni paesi del Golfo hanno costruito enormi hub cloud rimasti semivuoti). Dunque, il mito del paragone con il petrolio ha spinto a sopravvalutare il valore intrinseco dei dati: in realtà il valore è estrinseco, dipende dallo scenario. In molti casi la cooperazione internazionale e la standardizzazione potrebbero apportare benefici comuni maggiori di una visione mercantilista, in cui ogni Stato accumula dati per sé. In campo commerciale, ad esempio, restringere i flussi di dati può danneggiare le proprie imprese (che perdono accesso a mercati globali e servizi cloud globali). Un’analisi del MIT e di Leviathan Security Group stima che le misure di data localization possono far aumentare i costi di IT delle imprese nazionali dal 30% al 60%, frenandone la competitività. Insomma, secondo molti critici i dati personali non sono una nuova valuta universale che automaticamente rende potente chi la possiede; il loro valore è condizionato.
Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025