A rafforzare la convinzione di un complotto interno vi è, secondo i sostenitori, un lungo elenco di stranezze investigative e coperture successive ai fatti. I truthers elencano una serie di aspetti in cui, a loro dire, le autorità occidentali avrebbero agito in modo da nascondere o distruggere prove chiave, alimentando il sospetto di un cover-up. Ad esempio, le macerie del World Trade Center (migliaia di tonnellate di acciaio) furono rapidamente raccolte, rimosse e inviate al riciclaggio in impianti lontani senza permettere un esame indipendente approfondito: un comportamento inspiegabile se non nell’ottica di eliminare tracce di eventuali ordigni. Analogamente, lamentano che non sia mai stata divulgata al pubblico l’intera documentazione video degli attacchi al Pentagono: molte telecamere di sicurezza private nei dintorni registrarono l’esplosione, ma l’FBI requisì tutti i nastri e ne diffuse solo pochi fotogrammi sfocati. Questo alimenta l’idea che vi fosse qualcosa da nascondere (ad esempio, l’assenza effettiva di un aereo). I complottisti sottolineano poi le reticenze iniziali dell’amministrazione Bush nel costituire una Commissione d’Inchiesta indipendente: la Commissione 9/11 fu istituita solo nel novembre 2002, dopo forti pressioni delle famiglie delle vittime, con un budget modesto e tempi stretti (molto inferiori, ad esempio, a quelli dell’inchiesta sullo Space Shuttle Columbia). Inoltre, ricordano come il presidente Bush e il Vice Dick Cheney acconsentirono a testimoniare davanti alla Commissione solo congiuntamente, a porte chiuse e non sotto giuramento, un fatto senza precedenti, interpretato come volontà di controllare la narrazione e non farsi mettere alle strette. Un altro elemento è la questione delle 28 pagine secretate: per oltre un decennio, 28 pagine del Rapporto del Congresso USA sull’11/9 (relative ai possibili collegamenti sauditi) rimasero classificate. Solo nel 2016 furono in parte desecretate e rivelarono contatti finanziari sospetti tra individui vicini al governo saudita e i dirottatori. Per i complottisti ciò suggerisce che il governo USA volesse proteggere interessi alleati (Arabia Saudita) a scapito della verità. Anche nel 2021, vent’anni dopo, è stato necessario un ordine esecutivo di Biden per costringere FBI e Dipartimento di Giustizia ad avviare la declassificazione di molti file investigativi ancora coperti da segreto. Questo perdurante segreto di Stato viene interpretato come la pistola fumante di un insabbiamento deliberato: se non ci fosse nulla da nascondere perché mai dopo così tanti anni parti della documentazione sono ancora inaccessibili? Oltre ai documenti, citano pure possibili conflitti d’interesse. Ad esempio, il fatto che George W. Bush nominò Henry Kissinger (figura controversa) come primo direttore della Commissione 9/11, salvo poi dovervi rinunciare per le polemiche e nominare Kean al suo posto. Oppure il fatto che nel periodo immediatamente successivo agli attacchi, con gli spazi aerei chiusi, fu autorizzato un volo charter speciale che prelevò e portò fuori dagli USA decine di cittadini sauditi, tra cui familiari di Osama bin Laden, senza che venissero interrogati dall’FBI. Un episodio reale che alimenta tuttora sospetti di connivenze ai massimi livelli. Insomma, secondo i sostenitori del complotto, i comportamenti opachi delle istituzioni dopo l’11/9 (pochi dati divulgati, prove rimosse in fretta, indagini condotte a porte chiuse) confermerebbero che vi fosse una verità scomoda da insabbiare. Ogni anomalia viene inserita nel puzzle: i sostenitori del complotto ne deducono che chi ha gestito la risposta agli eventi voleva evitare qualunque spiraglio che potesse svelare il coinvolgimento interno.
Nina Celli, 24 ottobre 2025