Le teorie del complotto occidentale scontano un problema basilare di credibilità: la logistica di un’operazione così colossale e la sua segretezza prolungata nel tempo. Un principio della sociologia, formulato già da Georg Simmel e ripreso dallo studioso Michael Barkun, afferma che più grande è il complotto, più improbabile è che resti segreto. Nel caso dell’11/9, immaginare un inside job implica coinvolgere centinaia di persone (tra agenti di sicurezza, alti ufficiali, demolitori esperti, funzionari compiacenti ecc.) tutte disposte a tradire il proprio Paese uccidendo civili e, soprattutto, a tacere per sempre. Gli scettici fanno notare che nella storia nessun complotto analogo è mai rimasto ermeticamente chiuso: prima o poi c’è sempre una fuga di notizie, un pentito, un documento trapelato. In 24 anni, nonostante il cambio di varie amministrazioni (Bush, Obama, Trump, Biden) e l’accesso a informazioni riservate di migliaia di persone, nulla è emerso che corrobori la teoria del complotto. Nessun insider del governo USA o di altri Paesi occidentali ha mai fornito prove concrete di una messa in scena (al massimo ci sono insinuazioni o teorie personali, come quelle di ex politici iraniani o venezuelani, ma prive di riscontri). Questo silenzio pressoché totale è eloquente. Gli esperti evidenziano che in casi molto più circoscritti (come lo scandalo Watergate o Abu Ghraib) c’erano moltissimi meno complici; eppure, la verità venne a galla in pochi anni grazie a talpe, fughe di notizie, inchieste giornalistiche. Per l’11/9 nulla di tutto ciò: “se davvero fosse stato un inside job con migliaia di complici, lo avremmo saputo da tempo”. Lo stesso Thomas Kean, co-presidente della Commissione, ha espresso sorpresa per il fatto che dopo decenni non sia saltata fuori alcuna nuova rivelazione. Ciò, a suo avviso, conferma la solidità del rapporto ufficiale. Gli analisti definiscono la teoria del mega-complotto “sociologicamente irrealistica”. Un autorevole studio di Massimo Introvigne spiega che i macro-complotti di cui parlano i complottisti sarebbero “tecnicamente impossibili” da gestire: troppi cospiratori, troppe cose che potrebbero andare storte, troppo alto il rischio di delazione. La narrativa del complotto occidentale, inoltre, implicherebbe una cooperazione segreta fra centinaia di militari, funzionari di intelligence, politici, demolitori, esperti di aviazione, ciascuno disposto a commettere strage di propri concittadini e a non parlare mai. Una simile coesione omertosa contraddice tutto ciò che sappiamo sui comportamenti umani (paure, rimorsi, incentivi a rivelare la verità). Inoltre, dovrebbe esserci stata continuità e complicità anche nelle amministrazioni successive (democratiche e repubblicane) per mantenere il segreto. Chi smonta le tesi complottiste sottolinea come esse si basino su un preconcetto di “fede nel complotto” e tendano a reinterpretare ogni mancanza di prove proprio come prova della cospirazione (il classico “nulla accade per caso”). Questo approccio non è falsificabile: se non escono documenti segreti è perché “li hanno coperti”, se uscissero (come le 28 pagine sui Sauditi) e non contenessero nulla di eclatante, si direbbe che “hanno fatto sparire le prove vere”. In pratica, la teoria si auto-alimenta senza bisogno di riscontri. Ma nessuna evidenza verificabile a carico di un complotto occidentale è mai saltata fuori e, in assenza di prove, l’ipotesi non può essere considerata attendibile. È molto più semplice e plausibile ritenere che il complotto non ci sia stato affatto, piuttosto che credere a una cospirazione perfetta eseguita e mantenuta segreta per decenni. A livello sociale, gli studiosi vedono nel complottismo dell’11/9 un sintomo di paranoia collettiva e sfiducia verso il potere, più che una scoperta basata su fatti. Non è la realtà ad aver fornito indizi di un inside job, ma è la gente che ha voluto vederli lo stesso, perché incapace di accettare che un pugno di jihadisti dall’Afghanistan abbia potuto colpire il cuore dell’Occidente.
Nina Celli, 24 ottobre 2025