Un ulteriore argomento portato dai sostenitori della strumentalizzazione riguarda il modo in cui la destra sta gestendo l’immagine di Kirk e la reazione al lutto. Si denuncia una sorta di “doppio binario”: da un lato si pretende cordoglio unanime e rispetto quasi sacrale per la figura di Kirk, dall’altro si bollano come odiosi e si puniscono anche i più tiepidi dissensi, mentre all’opposto in passato esponenti conservatori non hanno mostrato analogo rispetto verso vittime dell’altra fazione. Un esempio lampante citato è il trattamento dei commenti critici su Kirk. In un contesto libero e democratico, ci si aspetterebbe che – pur deprecando chi esagera – si riconosca il diritto di esprimere opinioni sul personaggio pubblico Kirk, anche dopo la sua morte. Invece la reazione di destra è stata repressiva: docenti e giornalisti con opinioni contrarie su Kirk sono stati “ostracizzati o licenziati” in numero sorprendente. “The Guardian” riporta diversi casi e parla di “nuova ondata di sospensioni” dovute a commenti “inappropriati”. Per molti, questo fenomeno non è una genuina difesa della memoria di Kirk ma piuttosto una stretta ideologica: una “cultura della cancellazione” applicata però a senso unico. Colpisce che siano proprio i conservatori – solitamente critici verso il cancel culture – a orchestrare queste campagne punitive. Un columnist progressista ha evidenziato l’assurdità: “Charlie Kirk era un paladino della libertà di espressione, e chi dice il contrario verrà licenziato”. L’ipocrisia appare evidente: la libertà di parola vale solo finché si esaltano le idee di Kirk, ma se qualcuno osa contestarne il lascito (magari definendolo un attivista divisivo) allora quella persona viene zittita e accusata di “festeggiare la violenza”. In pratica la destra sta santificando Kirk post-mortem – trattandolo alla stregua di un martire intoccabile – e qualsiasi critica al defunto viene equiparata a una complicità morale col suo assassino. Ciò è definito come “santificazione automatica”, da cui bisogna “resistere”, perché nociva per la verità e la libertà. Allargando questo discorso, si fa notare come in passato la destra non abbia adottato lo stesso metro di rispetto verso vittime appartenenti all’altro schieramento. Quando nel giugno 2025 la democratica Hortman (Speaker del parlamento statale) fu assassinata, non ci furono grandi mobilitazioni nazionali da parte repubblicana: anzi, come ricordato, Trump nemmeno ordinò il mezz’asta delle bandiere. Ancora: all’epoca degli attacchi violenti di suprematisti (es. l’attentato di Pittsburgh contro la sinagoga, la spedizione armata a Kenosha) molti commentatori di destra minimizzarono o spostarono subito il discorso altrove. L’attuale zelante moralismo appare allora strumentale. Dario Nardella lo ha evidenziato: Meloni definisce Kirk “eroe e martire” e “accusa la sinistra di odio”, ma “dimentica gli scheletri nell’armadio della destra”, richiamati anche dal suo ministro Ciriani (anni di piombo in cui anche l’estrema destra fu responsabile). Questa memoria selettiva è considerata voluta: risvegliando traumi storici solo a proprio vantaggio (paragonando la situazione odierna alle Brigate Rosse, come ha fatto Ciriani) e tacendo su eventuali colpe interne, la destra cerca di monopolizzare la posizione di vittima. Secondo “Left”, tale condotta rivela “assenza di vergogna” e “cinismo”: i fatti hanno smentito le fantasie di “odio di sinistra organizzato” (perché il killer non risulta parte di alcun gruppo), eppure la destra “non ha fatto alcun passo indietro”, preferendo perseverare nel copione propagandistico. Ciò a riprova che l’obiettivo primario non è capire cosa sia successo, ma usarlo per blindare il consenso interno e attaccare gli oppositori. Alcuni sottolineano come questa strategia di martirizzazione di Kirk porti anche a una idolatria un po’ opportunistica. Charlie Kirk in vita era figura controversa: venerato a destra, certo, ma visto da molti come un provocatore polarizzante (negava il cambiamento climatico, definiva l’aborto “omicidio”, attaccava frontalmente i movimenti per i diritti LGBT ecc.). È naturale che i suoi sostenitori lo commemorino con affetto, ma sta avvenendo qualcosa di più: una riscrittura “agiografica” della sua figura. Trump l’ha definito “il migliore d’America”, esaltandone unilateralmente la memoria. Milei l’ha chiamato “mártir de la libertad”, come fosse un santo laico. Vox ha suonato in suo onore l’inno dei caduti delle Forze Armate spagnole, assimilando Kirk a un soldato perito in servizio. Abascal ha perfino usato per lui un rituale religioso-politico: “La muerte no es el final”, a indicare che la sua morte darà frutto nella lotta patriottica. Questo fervore quasi religioso, montato ad arte, serve a sacralizzare la causa di cui Kirk era portatore, mettendola al riparo da critiche. I favorevoli notano però che una simile beatificazione appare strumentale: Kirk, con tutto il rispetto, non era un leader istituzionale né un eroe nazionale condiviso, ma un attivista di parte – per di più polarizzante. Farne un “mito intoccabile” è un’operazione politica ben precisa: significa feticizzare la sua morte per immunizzare un’intera agenda politica dalle critiche (“difendere Kirk significa difendere la libertà, criticarlo significa schierarsi coi terroristi” è il sottotesto implicito). Questo meccanismo viene condannato come deleterio e insincero. “Il Fatto Quotidiano” invita a “resistere alla santificazione automatica”: per quanto la vittima meriti rispetto, “la morte conferisce dignità ma non un’assoluzione retroattiva” delle sue azioni o idee. Continuare a discuterne criticamente è non solo lecito ma doveroso, altrimenti si abdica al pensiero critico e si trasforma l’arena pubblica in un culto acritico. La reazione furibonda verso chiunque osi far notare le contraddizioni di Kirk (ad es. la professoressa della Florida che è stata sospesa pur avendo solo condiviso post sulle posizioni estremiste di Kirk) dimostra quanto poco di spontaneo ci sia in questo martirologio: si pretende unanimità sotto pena di sanzione. Questa sacralizzazione artificiale, tipica di regimi o movimenti identitari, è guardata con preoccupazione in società aperte come quella americana. Secondo questa linea di pensiero, l’intera gestione del post-omicidio da parte della destra appare come un copione propagandistico: vittimismo unilaterale, nemico demonizzato, eroe “santo” da venerare. È la formula classica per cementare la base e zittire l’opposizione. Ma è una formula – avvertono – ipocrita e pericolosa. Ipocrita perché chi oggi invoca unità e sacralità ieri non la praticava affatto, a seconda della convenienza (vedi caso Hortman). Pericolosa perché inibisce ogni dibattito onesto: se Charlie Kirk viene reso immune da ogni critica in nome del martirio, allora la sua piattaforma politica diventa dogma e i suoi oppositori eretici (da cacciare dalle università, come sta avvenendo). Alcuni vedono in questo riflessi orwelliani e denunciano con forza tale strumentalizzazione del rispetto dovuto a una vittima in un baluardo ideologico che imbavaglia la pluralità. La giusta condanna della violenza non deve trasformarsi in un pregiudizio di infallibilità per la parte colpita. Come ha scritto un opinionista, “la morte di Kirk conferisce dignità alla sua fine, non santifica retroattivamente le sue idee”. Far finta del contrario significa tradire lo spirito critico e sfruttare una tragedia per interessi di parte. A supportare quest’ultimo punto, vale la pena citare Mark Wright su “National Review”: “Non è vero che la maggioranza dei Democratici voglia distruggere l’America o uccidere i conservatori. Questa sarebbe nuova per milioni di nostri concittadini”. Perfino tra i conservatori vi è chi riconosce che la destra “più scalmanata” sta dipingendo una realtà distorta per convenienza. Tali voci moderate, unite alle analisi dei media indipendenti, rafforzano questa posizione: l’omicidio Kirk è stato politicizzato e strumentalizzato – con fini propagandistici interni – a scapito di verità, coerenza e unità nazionale.
Nina Celli, 18 settembre 2025