Quando la nuova generazione di connettività mobile ha iniziato a diffondersi in modo capillare, la promessa era quella di più velocità, meno latenza, nuove possibilità per l’industria, la sanità, l’automazione. Ma dietro questa rivoluzione digitale si è fatto strada un interrogativo sempre più pressante: cosa sappiamo davvero degli effetti del 5G sulla salute umana? Le risposte, sebbene frammentarie, iniziano a delineare uno scenario in cui il principio di precauzione non solo è opportuno, ma necessario. Negli ultimi anni, diversi studi hanno acceso un faro su quello che potrebbe essere il lato oscuro dell’evoluzione tecnologica. Due in particolare — condotti in parallelo su larga scala — hanno rappresentato un punto di svolta nel dibattito: lo studio dell’Istituto Ramazzini di Bologna e quello del National Toxicology Program (NTP) negli Stati Uniti. Entrambi si sono concentrati sull’esposizione a radiofrequenze compatibili con quelle del 5G, utilizzando ratti Sprague-Dawley, una specie comunemente impiegata per simulare gli effetti sull’uomo per via della vicinanza genetica. I risultati, sorprendentemente convergenti, hanno documentato un aumento significativo dell’incidenza di gliomi cerebrali e schwannomi maligni al cuore. Un dato che non può essere liquidato come coincidenza: in entrambi i casi, si è trattato di esposizioni a lungo termine, compatibili con l’ambiente in cui oggi viviamo, dove il 5G inizia a permeare ogni spazio pubblico e privato. Una revisione sistematica di oltre 500 studi, pubblicata nel 2025 da RF Safe, ha mostrato che nel 59% delle ricerche esaminate si riscontrano danni al DNA, anche a livelli di esposizione ben inferiori ai limiti internazionali. Le lesioni ossidative, che possono alterare i meccanismi cellulari e favorire mutazioni cancerogene, sono state rilevate in oltre l’86% dei casi su tessuti neuronali, spermatici e ovocitari. Alcune delle più autorevoli pubblicazioni scientifiche confermano questi segnali. Uno studio comparso su “Frontiers in Public Health” nel 2025 ha sistematizzato centinaia di ricerche, tracciando una mappa di effetti genotossici, tra cui aberrazioni cromosomiche e rotture del doppio filamento di DNA, osservate anche in condizioni di bassa esposizione. Non si tratta di esperimenti casuali, ma di indagini con protocolli rigorosi e controllati, spesso ignorati dalle autorità regolatorie internazionali. Il panorama si fa ancora più preoccupante se consideriamo gli effetti osservati sulla pelle umana, principale organo esposto al 5G. Un team di ricercatori israeliani (Betzalel et al., 2025) ha dimostrato che le onde millimetriche ad alta frequenza interagiscono in profondità con ghiandole sudoripare e terminazioni nervose dermiche, aprendo la strada a possibili disfunzioni del sistema nervoso autonomo. Anche se non si tratta di effetti termici, il comportamento delle cellule suggerisce un’interazione biologica non trascurabile, capace di alterare segnali neuronali e processi metabolici. Alla luce di questi dati, le rassicurazioni delle agenzie regolatorie sembrano quantomeno premature. Come ha osservato la consigliera comunale Simona Simonetti nella mozione approvata a Finale Ligure, “il fatto che un risultato sia ottenuto su animali non significa che non valga per l’uomo; rappresenta invece un segnale d’allarme da prendere sul serio”. La richiesta di un ritorno al limite di 6 V/m, più prudenziale rispetto agli standard europei attuali (15–20 V/m), non nasce da un rifiuto della tecnologia, ma da una legittima esigenza di tutela della salute pubblica. Mentre la diffusione del 5G continua a espandersi, dunque, i segnali provenienti dalla ricerca indicano che non possiamo escludere un rischio concreto per la salute umana. Anzi, i dati genetici, molecolari e sperimentali impongono una revisione critica e indipendente delle politiche di esposizione.
Nina Celli, 16 agosto 2025