Secondo numerose ONG, giuristi e organismi internazionali, il protocollo Italia-Albania ha inaugurato una zona grigia del diritto, dove i diritti fondamentali dei migranti vengono sistematicamente compressi in nome della sicurezza e della deterrenza. Le condizioni materiali, giuridiche e psicologiche in cui vengono trasferiti e trattenuti i migranti configurano una forma di detenzione extraterritoriale arbitraria, priva delle tutele previste dal diritto europeo e dalla Costituzione italiana. Uno degli aspetti più gravi è l’impossibilità per i migranti di esercitare il diritto effettivo di difesa, come previsto dall’articolo 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. Nei centri albanesi, i richiedenti asilo non possono contattare liberamente avvocati, non hanno accesso a documentazione chiara nella propria lingua, né possono presentare ricorsi tempestivi contro la decisione di trattenimento. La Corte di Giustizia UE, con la sentenza dell’agosto 2025, ha dichiarato illegittimo il meccanismo proprio perché “non garantisce accesso sufficiente e verificabile alle fonti informative né un effettivo controllo giurisdizionale”. Il sistema viola anche l’art. 13 della Costituzione italiana, che impone che ogni limitazione della libertà personale debba essere convalidata da un giudice “entro 48 ore”. Nei trasferimenti in Albania, questa convalida avviene in ritardo o viene bypassata, come dimostrano le sentenze dei tribunali italiani che hanno ordinato il rimpatrio immediato di tutti i migranti trasferiti. In alcuni casi, i trattenimenti sono avvenuti su navi militari in acque internazionali, senza mediazione legale né accesso alla stampa, come riportato da “Internazionale” e “ASGI”. Anche dal punto di vista sanitario e psicologico, il sistema è fragile: le ONG non hanno potuto accedere liberamente alle strutture, l’OIM è risultata assente nei pre-screening, e non sono previsti standard uniformi né audit indipendenti. I pochi migranti effettivamente trasferiti hanno raccontato di ambienti “militarizzati, isolati e spersonalizzanti”, dove prevale la logica del controllo su quella dell’accoglienza. Inoltre, l’intero progetto esclude a priori determinate categorie dalla tutela, applicando una presunzione di infondatezza sulla base del Paese d’origine. Ciò contrasta con il principio individuale di valutazione delle domande d’asilo, fondamento stesso della Convenzione di Ginevra. Come ha ricordato Amnesty International, “un Paese può essere sicuro per molti, ma non per tutti”, e “trasferire una persona senza considerare la sua specificità è una forma di respingimento collettivo, vietato dal Diritto internazionale”. Il modello albanese rappresenta dunque una sospensione sistemica dei diritti, resa possibile dall’allontanamento fisico e giuridico dei migranti. Un precedente pericoloso che potrebbe estendersi ad altri Paesi e che, sotto la retorica dell’efficienza, nasconde un vuoto di garanzie e umanità.
Nina Celli, 14 agosto 2025