Nel racconto ufficiale dell’amministrazione Trump, i dazi doganali non sono soltanto uno strumento di politica commerciale, ma una soluzione fiscale brillante. Un modo per “far pagare gli altri” e finanziare la spesa pubblica americana senza aumentare le tasse interne. Tuttavia, guardando oltre la propaganda, molti economisti e osservatori istituzionali mettono in discussione questa narrazione. Le entrate daziarie, seppur significative nel breve periodo, non rappresentano una base solida, prevedibile né equa per sostenere il bilancio federale. Secondo un’analisi del Fondo Monetario Internazionale, pubblicata durante il briefing del 24 luglio 2025, il sistema attuale dei dazi americani genera un effetto a “fisarmonica”, con aumenti e riduzioni improvvise, sospensioni temporanee, esenzioni settoriali e rinegoziazioni continue. Questo approccio rende difficile qualsiasi pianificazione fiscale strutturata, sia per il governo federale, sia per le imprese che dipendono da catene di fornitura globali. Il problema non è solo tecnico, ma sistemico. Secondo “Bloomberg”, la volatilità tariffaria alimenta incertezza nei mercati globali, frena gli investimenti a lungo termine e deteriora le aspettative di inflazione. In altre parole, anche se nel breve termine le entrate da dazi possono sembrare vantaggiose, nel lungo periodo compromettono la fiducia nell’ambiente fiscale americano e scoraggiano gli investitori. Inoltre, la natura regressiva dei dazi non va sottovalutata. A differenza delle imposte progressive sul reddito, i dazi colpiscono indiscriminatamente tutti i consumatori, ma con un impatto più forte sulle famiglie a basso reddito, che destinano una quota maggiore del loro reddito a beni importati. Secondo uno studio di “NBC News”, le famiglie americane stanno già subendo aumenti di prezzo medi pari a 2.400 dollari l’anno, con picchi nei settori alimentare, moda e tecnologia. Un ulteriore punto critico riguarda la credibilità istituzionale. Il licenziamento della direttrice del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer – accusata da Trump di diffondere dati manipolati – ha scosso i mercati. Secondo “La Repubblica” e il “Financial Times”, questo episodio ha alimentato il timore di una “manipolazione politica dell’informazione economica”, mettendo in discussione l’indipendenza delle agenzie federali e la trasparenza dei dati macroeconomici. Anche dal punto di vista della giustizia fiscale, i dazi si rivelano un meccanismo distorto: mentre le famiglie americane pagano prezzi più alti, i giganti dell’export – come l’UE o la Cina – aggirano le sanzioni con triangolazioni commerciali, spostando la produzione verso Paesi non colpiti. Il risultato è che le piccole imprese americane, prive di leve fiscali o logistiche, restano schiacciate. Inoltre, il mito dell’autofinanziamento si infrange su un dato essenziale, cioè che le entrate da dazi non sono garantite. Come evidenziato da “Il Sole 24 Ore”, molte tariffe vengono ridotte, sospese o differite a causa delle pressioni politiche e delle trattative diplomatiche. Anche nei settori apparentemente stabili – come l’energia – le promesse di investimento da parte dei partner non sono sempre vincolanti e spesso restano sulla carta. I dazi, quindi, possono produrre effetti fiscali momentanei, ma non costituiscono una base solida per una strategia economica coerente. Anzi, contribuiscono a esacerbare la frammentazione del sistema globale, aumentano il carico fiscale indiretto sui cittadini e compromettono la stabilità macroeconomica.
Nina Celli, 8 agosto 2025