L’idea di finanziare parte della spesa pubblica direttamente con le entrate derivanti dai dazi commerciali si è rivelata, per Donald Trump, non solo una mossa strategica, ma anche una potente narrazione politica. Ma non è soltanto propaganda: i numeri, almeno nel breve periodo, sembrano dare ragione al presidente USA. Secondo una stima aggiornata del Peterson Institute for International Economics (PIIE), le entrate doganali previste per il 2025 supereranno i 150 miliardi di dollari, contribuendo per circa il 3,8% alla copertura del disavanzo federale. Non si tratta di una somma risolutiva, ma in un contesto in cui il deficit previsto supera i 1.900 miliardi, rappresenta un contributo tutt’altro che trascurabile. Per Trump, questo flusso fiscale ha anche un valore simbolico: non grava sui cittadini americani, ma sugli esportatori stranieri, ritenuti responsabili di squilibri commerciali strutturali. Anziché aumentare le tasse interne o emettere debito, si tassa l’import. In una recente dichiarazione ufficiale, la Casa Bianca ha ribadito che le nuove tariffe non solo “non pesano sul contribuente medio”, ma che “stanno già finanziando investimenti infrastrutturali e difensivi”. Le entrate doganali, oltre a rappresentare un gettito fresco, sono anche un meccanismo di pressione negoziale: Trump ha infatti collegato l’alleggerimento dei dazi a nuovi investimenti in territorio americano. È il caso del settore energetico, dove si stima che i nuovi accordi con l’Unione Europea porteranno entro il 2026 750 miliardi di dollari in contratti e infrastrutture. Si tassa, quindi, l’importazione per finanziare la produzione nazionale. Anche la narrazione pubblica si allinea: secondo un sondaggio della “CNN” pubblicato il 6 agosto, il 62% degli elettori repubblicani ritiene che le tariffe siano uno strumento “efficace e giusto” per riequilibrare i conti pubblici e ridurre la dipendenza dal debito estero. In un’America polarizzata, dove le diseguaglianze economiche e regionali sono profonde, la politica dei dazi viene percepita come una forma di redistribuzione indiretta. Non attraverso sussidi, ma attraverso una fiscalità che penalizza i giganti delle esportazioni e tutela le imprese locali. In altre parole, si premiano i produttori nazionali e si penalizzano le logiche delocalizzate delle grandi multinazionali. Sul piano della trasparenza, la gestione tariffaria si presenta più chiara e monitorabile rispetto ad altri meccanismi di entrata. Ogni mese, la Federal Trade Commission e il Department of Commerce pubblicano dati dettagliati sulle entrate doganali, rendendo il gettito verificabile in tempo reale. Secondo “Il Sole 24 Ore”, questa strategia fiscale fondata sui dazi rappresenta “una forma moderna di capitalismo nazionale”, in cui il governo si assume il compito di guidare gli investimenti, regolare gli scambi e incassare in modo diretto i frutti della sovranità commerciale. Per Trump e i suoi sostenitori, dunque, i dazi non sono solo uno strumento commerciale, sono una fonte fiscale alternativa, politica e strategica, in grado di sostenere spesa pubblica, infrastrutture, industria e prestigio negoziale.
Nina Celli, 8 agosto 2025