Quando l’amministrazione Trump ha annunciato la nuova serie di dazi, a luglio 2025, molti americani hanno accolto con favore la promessa di un'economia più forte, meno dipendente dall’estero. Tuttavia, dietro il linguaggio muscolare e le affermazioni trionfali, una realtà molto diversa si sta facendo strada tra le imprese, nei centri di ricerca economica e, soprattutto, nel carrello della spesa dei consumatori. Secondo un’analisi di “NBC News”, i dazi attualmente in vigore hanno spinto il tasso medio di tassazione sulle importazioni al 17%, il più alto dalla Grande Depressione. E mentre la Casa Bianca rivendica entrate doganali record, economisti come Mark Zandi (Moody’s Analytics) mettono in guardia sugli effetti reali di queste misure sono l’aumento dei prezzi, la stagnazione degli investimenti e il rischio concreto di stagflazione, cioè la combinazione di inflazione alta e crescita economica debole. La retorica della reindustrializzazione maschera una verità più complessa: la maggior parte delle imprese statunitensi non ha le infrastrutture né la forza lavoro per sostituire a breve le importazioni colpite dai dazi. Secondo un’inchiesta del Centro Studi Unimpresa, pubblicata su “Il Sole 24 Ore”, i settori più colpiti dai dazi includono meccanica, moda, chimico-farmaceutico e agroalimentare. L’impatto teorico per le aziende italiane che esportano negli USA – spesso partner di aziende americane – si traduce in un costo compreso tra 6,7 e 22 miliardi di euro. Ma gli effetti a catena si riversano anche sulle supply chain statunitensi, aumentando i costi di produzione. L’altra grande vittima è il consumatore americano. Secondo l’IMF, i dazi introdotti tra aprile e luglio hanno già innescato una spinta inflattiva dello 0,9%, con una proiezione al rialzo per l’autunno. L’eliminazione dell’esenzione doganale per acquisti online inferiori a 800 dollari ha avuto un effetto immediato: migliaia di famiglie americane hanno visto aumentare i costi per prodotti di uso quotidiano. In media, secondo uno studio della Yale Budget Lab riportato da “NBC”, l’impatto per nucleo familiare potrebbe superare i 2.400 dollari all’anno. Non si tratta solo di prezzi. Le imprese tagliano gli investimenti, ritardano le assunzioni, congelano i salari. Alcune multinazionali americane – tra cui Walmart e Apple – hanno dichiarato pubblicamente che non riusciranno più ad assorbire i costi dei dazi, che verranno quindi trasferiti direttamente al cliente finale. Anche la narrazione secondo cui i dazi aiuterebbero le fasce più deboli della popolazione si scontra con la realtà. La distribuzione dell’impatto mostra che i beni più tassati sono spesso quelli a basso margine e più acquistati dalle famiglie a basso reddito, come abbigliamento, elettronica di consumo, beni agroalimentari di base. Chi vive con salari modesti e spese rigide è, quindi, il più penalizzato. Il fattore forse più sottovalutato è l’incertezza sistemica. Il licenziamento della direttrice del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer, dopo la pubblicazione di dati negativi sull’occupazione, ha fatto temere a molti una politicizzazione della statistica economica. Come riportato da “La Repubblica” e dal “Financial Times”, la fiducia degli investitori internazionali nella trasparenza del sistema americano è in calo, alimentando volatilità nei mercati e freni agli investimenti esteri. I dazi imposti da Trump, dunque, sembrano più un’operazione ideologica che una strategia economica coerente. Se è vero che alcune industrie strategiche potrebbero trarre beneficio nel lungo periodo, è altrettanto evidente che, nel breve e medio termine, sono le famiglie, le PMI e l’intero tessuto economico interconnesso degli USA a pagare il prezzo più alto.
Nina Celli, 8 agosto 2025