Quando Donald Trump ha annunciato la nuova ondata di dazi contro decine di Paesi, compresi storici partner commerciali come Canada, India e Unione Europea, molti osservatori hanno parlato di un ritorno al protezionismo. Ma per la Casa Bianca e per una parte crescente dell'opinione pubblica americana, la manovra doganale non è stata una regressione, bensì l’atto fondativo di una nuova stagione economica: quella della sovranità produttiva. A sostegno della sua scelta, Trump ha presentato numeri ambiziosi: oltre 150 miliardi di dollari previsti in nuove entrate doganali, una crescita occupazionale netta nel settore manifatturiero e un’espansione degli investimenti industriali interni. A livello simbolico, la narrativa è potente: milioni di dollari che tornano a Washington invece di finire nei conti di Stati stranieri. Secondo “Bloomberg”, il tasso medio effettivo dei dazi USA ha raggiunto il 15,2%, con picchi superiori al 50% per settori strategici come semiconduttori e metalli industriali. Ma ciò che stupisce gli analisti è il fatto che, nonostante queste misure aggressive, l’economia non si è contratta. Al contrario, il mercato azionario ha premiato la mossa: l’S&P 500 è salito del 25% in pochi mesi, riflettendo una fiducia crescente nei comparti produttivi locali. A dare ulteriore legittimità a questa strategia sono i dati della Casa Bianca, che rivendica un aumento netto degli investimenti nel settore energetico e manifatturiero, anche grazie a clausole che esentano dai dazi i beni prodotti con almeno il 20% di componenti americani. Questa condizione ha spinto colossi come Apple e GM a rivedere la loro logistica produttiva, favorendo un ritorno (parziale) alla fabbricazione in territorio nazionale o nel blocco nordamericano. Sul fronte internazionale, i dazi hanno costretto anche i partner più riluttanti a sedersi al tavolo: secondo “CNN Business”, l’Unione Europea ha concesso tariffe agevolate per alcuni beni strategici in cambio di nuovi accordi energetici, mentre il Giappone ha firmato un memorandum di collaborazione in materia di semiconduttori. Non mancano le criticità e le tensioni diplomatiche, ma nel complesso il bilancio politico è solido. Trump ha riportato al centro del dibattito economico un tema abbandonato da decenni: quello della dipendenza industriale dagli altri Paesi. Per decenni, la globalizzazione ha giustificato la delocalizzazione con l’argomento dell’efficienza: produrre in Asia costava meno. Oggi, però, le crisi pandemiche, le guerre commerciali e la volatilità dei mercati hanno mostrato l’altra faccia della medaglia: l’assenza di controllo, la vulnerabilità e la perdita di competenze strategiche. In questo ambito i dazi diventano, secondo molti sostenitori del modello Trump, una leva strutturale. Non un muro contro il mondo, ma un filtro: una barriera selettiva per favorire chi produce negli USA, per rilanciare distretti industriali dimenticati e per riportare a casa non solo la manifattura, ma anche l’orgoglio economico. Per ora, dunque, gli indicatori macroeconomici e finanziari sembrano suggerire che l’America sta riscoprendo la sua vocazione industriale. E lo sta facendo, paradossalmente, con strumenti antichi (i dazi) inseriti in un disegno geopolitico moderno.
Nina Celli, 8 agosto 2025