Per quanto affascinanti, le mostre immersive pongono un problema sostanziale: cosa succede all’opera quando viene decontestualizzata, riprodotta e trasformata in effetto visivo? Il rischio è che il messaggio culturale si perda, sostituito da una versione pop, spettacolare e svuotata. Davide Pugnana, in un saggio critico su “Antinomie”, afferma che: “Siamo di fronte all’esposizione dell’assente. Le mostre immersive eliminano l’originale, sostituendolo con animazioni kitsch e cloni digitali. L’opera non c’è più. E con lei sparisce la possibilità di pensare”. Le riproduzioni immersive non offrono un nuovo sguardo sull’opera, ma una sua semplificazione visiva. L’unicità dell’opera – il suo tempo, la sua materia, la sua storia – viene sostituita da un loop sensoriale sincronizzato a una colonna sonora, spesso privo di profondità. È il trionfo del design emozionale sull’estetica critica. Questo modello, secondo Pugnana, crea una frattura epistemologica tra oggetto e significato: “Non è più l’arte a raccontare il mondo, ma l’apparato tecnologico a raccontare una fiction su Van Gogh, su Monet, su Kahlo”. Questa deriva è particolarmente evidente in ambito educativo. Il rischio è che i visitatori più giovani, spesso destinatari principali di queste esperienze, vengano abituati a una fruizione passiva, spettacolare, decontestualizzata. L’arte, presentata come intrattenimento audiovisivo, perde la complessità delle sue coordinate storiche, sociali, materiali. Non è un problema solo per la fruizione, ma per la memoria culturale collettiva. Quando le opere vengono reinterpretate senza contesto, si rischia la “diseducazione estetica”: lo spettatore si abitua a forme semplificate, luminose, spettacolari, perde la capacità di leggere segni, stratificazioni, contraddizioni. Anche Live Drønen, analizzando la scena museale norvegese, denuncia come le esperienze immersive diventino strumenti di colonizzazione del gusto: “Sono mostre che sembrano dire al pubblico cosa deve provare, come se l’emozione fosse una questione di design, non di riflessione”. Qui s’individua un ulteriore problema: la perdita di agency critica dello spettatore. Il visitatore delle mostre immersive non è più messo davanti a un’opera che pone domande, ma dentro uno spazio che fornisce risposte emozionali preconfezionate. Le tecnologie immersive creano un’estetica standardizzata: colori saturi, colonne sonore epiche, proiezioni in loop. Il pubblico si abitua a un’estetica semplificata e ripetitiva, perdendo la capacità di leggere l’opera vera, nella sua materia, silenzio e imperfezione. Le mostre immersive non educano all’arte, ma educano a un suo surrogato emozionale. Offrono un’esperienza, ma non formano un pensiero. Possono sì attrarre e coinvolgere, ma al prezzo di un’alterazione profonda del significato originario dell’arte, trasformando la cultura in un bene da packaging, non da comprendere. L’esperienza prende il posto del contenuto. E con esso, svanisce la memoria storica, critica e identitaria dell’opera.
Nina Celli, 7 agosto 2025