Nel dibattito sulla legittimità delle mostre immersive, è centrale una domanda: l’arte è solo oggetto da contemplare o anche esperienza da condividere? Le mostre immersive offrono una risposta radicale: non siamo più davanti all’opera, ma dentro l’opera, immersi in una narrazione che connette percezione, storia e memoria collettiva. Questo paradigma, come sottolinea Elisa Bonacini nel suo saggio Dalla collezione alla connessione, non è un semplice effetto collaterale della digitalizzazione, ma l’esito di una più ampia trasformazione del museo contemporaneo in agorà partecipativa. “Il museo non è più un tempio da contemplare, ma uno spazio connettivo dove si costruisce identità attraverso storie condivise”. Il passaggio da oggetto a racconto si riflette anche nell’esperienza dello spettatore, che da fruitore passivo diventa narratore attivo, co-creatore di senso. Le mostre immersive, grazie a tecnologie come VR, mixed reality o intelligenza artificiale, sono capaci di attivare dinamiche emotive e cognitive profonde, in linea con modelli educativi costruttivisti e pedagogie partecipative. Nel caso analizzato dallo studio pubblicato su “Virtual Reality”, esperienze in mixed reality applicate ai musei hanno incrementato il senso di presenza e coinvolgimento molto più della visita tradizionale, rendendo il patrimonio “vivo” e contestualizzato nella vita dei visitatori. Inoltre, secondo Chen, Ibrahim e Aziz (“Frontiers in Psychology”), le installazioni d’arte interattiva sono in grado di prevedere le reazioni emotive degli utenti e di adattarsi alle loro risposte cognitive grazie a modelli di machine learning. Il risultato è una fruizione non solo più personalizzata, ma più inclusiva, empatica e dinamica, dove l’identità culturale non è un monolite, ma un flusso da co-costruire. Le mostre immersive sono anche strumenti inclusivi: permettono a bambini, disabili, stranieri e pubblici non esperti di accedere all’arte attraverso un linguaggio visivo universale. Non impongono un’interpretazione unica, ma offrono un percorso personalizzabile e modulare, che si adatta ai bisogni e alle sensibilità di chi partecipa. Il valore didattico, in questo contesto, va ben oltre la trasmissione nozionistica. Come spiega Albert L. Lehrman, l’esperienza immersiva stimola la cognizione incarnata, ovvero l’apprendimento attraverso il corpo, il movimento, la navigazione spaziale, l’interazione fisica e simbolica con l’opera. In un mondo dominato dal digitale, le mostre immersive non distruggono l’originale, ma ne moltiplicano i significati. L’arte non è più solo aura, ma anche esperienza diffusa, capace di parlare a pubblici che prima ne erano esclusi.
Nina Celli, 7 agosto 2025