Il One Big Beautiful Bill Act non è soltanto una legge economico-finanziaria. È diventato un simbolo di divisione ideologica, un testo polarizzante che ha spaccato il Congresso, diviso l’opinione pubblica e generato un clima di conflitto istituzionale senza precedenti nella storia recente americana. L’intero processo legislativo, come osservato da “Time” e “The Guardian”, si è svolto in un contesto di forte tensione politica, con un uso massiccio della procedura di riconciliazione per forzare l’approvazione al Senato, passata con il solo voto del vicepresidente Vance in un 51-50 al cardiopalma. La Camera ha seguito per pochi voti, con una maggioranza risicatissima di 219 contro 213. L’approccio scelto dai promotori della legge ha alimentato non solo il conflitto partigiano, ma anche una crisi più profonda di fiducia nelle istituzioni. L’opposizione democratica ha denunciato la totale esclusione dal processo negoziale, mentre diversi parlamentari repubblicani hanno espresso forti riserve, arrivando perfino a votare contro il disegno. Senatori come Thom Tillis, Susan Collins e Josh Hawley hanno sollevato dubbi sulla portata dei tagli sociali, sull’equilibrio fiscale e sugli effetti elettorali di lungo periodo. Questa frammentazione interna dimostra che il consenso attorno alla legge è più fragile di quanto suggerisca l’approvazione formale. Anche sul piano dell’opinione pubblica, il provvedimento si è dimostrato profondamente divisivo. Secondo un’analisi condotta dalla “CNN” e rilanciata da “The Daily Beast”, l’indice di approvazione netta (Net Approval) del Big Beautiful Bill oscilla tra –19% e –29%, una delle peggiori performance registrate per una legge fiscale di portata storica. I segmenti di popolazione più contrari sono le donne, le minoranze etniche, i giovani under 35 e gli elettori indipendenti. La legge è percepita da molti come “un colpo al welfare" e un regalo fiscale ai ceti più ricchi, in un contesto già segnato da disuguaglianze crescenti e tensioni sociali. Le conseguenze di questa polarizzazione non si limitano all’arena politica, ma si estendono al funzionamento delle istituzioni democratiche. Il ricorso a meccanismi procedurali straordinari per forzare il calendario legislativo, la volontà di legare l’approvazione alla simbologia del 4 luglio e la marginalizzazione del dibattito parlamentare contribuiscono a un clima di delegittimazione reciproca, in cui la legge del numero prevale sul principio del compromesso. Questo trend, già evidente in altri ambiti legislativi, rischia di diventare strutturale, minando alla base l’equilibrio tra potere esecutivo e legislativo. Inoltre, la natura esplicitamente identitaria del provvedimento – definito dallo stesso Trump come “la legge più bella e più potente mai scritta” – ha reso il dibattito pubblico meno tecnico e più emotivo, polarizzando anche i media, gli ambienti accademici e le associazioni di categoria. Da un lato, l’entusiasmo dei sostenitori che vedono nella legge una rinascita dell’America “vera”, dell’autosufficienza e della responsabilità; dall’altro, il timore che si stia costruendo un sistema economico più iniquo, più autoritario e meno trasparente. In ultima analisi, la forza della critica non risiede soltanto nei contenuti della legge, ma nel modello politico e istituzionale che essa sembra rappresentare: un’esecutività muscolare, una visione redistributiva squilibrata e una logica “vincitori contro vinti” che rischia di erodere il capitale democratico e la coesione nazionale. In una fase in cui la democrazia americana è osservata a livello globale come un barometro della tenuta dell’Occidente, il Big Beautiful Bill viene percepito da molti non come una riforma, ma come una rottura.
Nina Celli, 3 luglio 2025