Oltre alle dimensioni fiscali ed economiche, il One Big Beautiful Bill Act si propone come una dichiarazione di principio sul piano istituzionale. Dietro l’architettura della legge emerge una visione coerente di ribilanciamento dei poteri tra federazione e Stati, tra governo centrale e autorità locali. In una fase in cui la fiducia nelle istituzioni è ai minimi storici e il consenso verso la funzione redistributiva dello Stato appare in erosione, il disegno di legge mira a rafforzare il principio di responsabilità fiscale e decisionale a livello statale, rilanciando l’idea che ogni territorio debba poter gestire in autonomia i propri programmi sociali e le proprie priorità economiche. Questa impostazione è evidente, ad esempio, nella riforma del Federal Medical Assistance Percentage (FMAP), l’indice che determina il contributo federale al finanziamento di Medicaid. La proposta di abbassare il FMAP per gli adulti abili senza figli – avanzata dal senatore Rick Scott e sostenuta da figure come Ron Johnson – è un chiaro segnale di spinta verso una maggiore compartecipazione locale, con lo scopo di responsabilizzare gli Stati nell’erogazione di servizi e nel contenimento dei costi. Come si legge su “Reuters”, ciò significa che i singoli Stati avranno più margine nel decidere chi includere nei programmi sanitari, ma anche maggiori oneri nel finanziarli, incentivando efficienza e razionalizzazione. Un approccio simile si rileva nel trattamento dei fondi destinati alla difesa e alla sicurezza interna. Il provvedimento prevede un incremento selettivo delle risorse per il Pentagono e per le agenzie migratorie, ma lascia agli Stati più spazio nella gestione delle politiche di frontiera. Questa decentralizzazione – pur ritenuta eccessiva da molti – rappresenta una delle rivendicazioni storiche del federalismo conservatore, che ha sempre visto con sospetto la crescente estensione dei programmi federali unificati, in particolare nel welfare e nell’energia. Sul piano politico, la legge è stata costruita come una prova di forza istituzionale: l’uso della procedura di riconciliazione al Senato per bypassare l’ostruzionismo e il tentativo di far coincidere l’approvazione definitiva con il 4 luglio non sono solo simbolici. Essi segnano una volontà precisa di “riappropriazione del potere di spesa” da parte del Congresso e del partito di maggioranza. Come osservato da “The Guardian” e “Time”, questo disegno non è privo di rischi, ma risponde a un’esigenza diffusa nell’elettorato repubblicano di “restituire al popolo il controllo del bilancio”, espressione ripetuta da Trump e dai suoi sostenitori in comizi e media nazionali. La strategia del Big Beautiful Bill suggerisce anche una ridefinizione dei confini ideologici tra centro e periferia, tra Stato e individuo. La legge rifiuta l’idea che la centralizzazione sia sinonimo di efficienza o giustizia, a favore di una visione opposta. Sottende che la riduzione dell’intermediazione federale favorisca soluzioni più adatte alle specificità locali, sia in termini economici che culturali. Si tratta di un modello di governance che risponde, nel linguaggio politico della destra americana, all’esigenza di “liberare l’energia dei territori”, restituendo flessibilità amministrativa e discrezionalità normativa agli Stati. Il Big Beautiful Bill è più di una manovra economica: è un atto politico che riafferma la centralità del principio federale nella gestione della spesa pubblica. In un contesto segnato da sfiducia e polarizzazione, questa visione – pur divisiva – offre una risposta strutturata alla crisi di legittimità delle istituzioni centrali.
Nina Celli, 3 luglio 2025