Una delle critiche più fondate alle sanzioni economiche è che esse tendono a generare un’illusione di controllo. Appaiono come una risposta razionale e moralmente legittima a un’aggressione militare, ma spesso finiscono per sostituire misure più incisive o per dilazionare decisioni strategiche necessarie. Le democrazie, per evitare i costi politici e umani della guerra, scelgono le sanzioni come via intermedia, ma finiscono per prolungare i conflitti e rafforzare la posizione dei regimi autoritari, che possono usare il tempo guadagnato per riorganizzarsi. L’analisi di “Startmag” del giugno 2025 mette in evidenza questa dinamica: la proposta americana di sospendere le sanzioni contro la Russia, come parte di un accordo per il cessate il fuoco, è arrivata senza che Mosca avesse mostrato alcuna intenzione di ritirarsi o negoziare in buona fede. Le sanzioni, usate come moneta di scambio, perdono in quel momento ogni valore deterrente e si trasformano in elementi negoziali deboli, vulnerabili alla manipolazione diplomatica. Il memorandum russo pubblicato da “AGI” lo dimostra chiaramente: Mosca pretende la revoca integrale delle sanzioni prima ancora della firma di un trattato di pace e propone solo un cessate il fuoco di 30 giorni. Una richiesta che palesemente non corrisponde a una volontà di compromesso, ma piuttosto a una tattica dilatoria per ridurre la pressione occidentale. L’effetto è che le sanzioni si trasformano da strumento di pressione a premio anticipato, incentivando l’aggressore a reiterare le stesse dinamiche in futuro. Inoltre, affidarsi alle sanzioni come principale forma di reazione produce un pericoloso effetto paralizzante nelle democrazie. Il Brookings Institute ha più volte sottolineato come la cosiddetta “economic statecraft” abbia sostituito un tempo d’azione strategica e militare con una burocrazia della deterrenza, fatta di pacchetti, regolamenti, deroghe e sanzioni secondarie. Questo “tecnicismo reattivo” rallenta le decisioni operative e dà al nemico la possibilità di modellarsi intorno alla pressione imposta. Nel caso della Russia, la flessibilità sanzionatoria è stata sfruttata da Mosca per testare la tolleranza degli alleati occidentali, aprendo fessure nel consenso internazionale. Come rilevato dal “Foglio”, non tutti i Paesi UE hanno sostenuto in maniera uniforme le misure restrittive: alcuni hanno chiesto esenzioni, altri hanno ritardato l’attuazione, mentre alcune imprese – spesso multinazionali – hanno trovato modalità legali per aggirare i vincoli. Questo ha prodotto disomogeneità applicativa, indebolendo la credibilità dell’intero impianto sanzionatorio. Dal punto di vista comunicativo, le sanzioni rischiano anche di sovraccaricare le aspettative dell’opinione pubblica, portando a un ciclo pericoloso: il pubblico si aspetta risultati visibili (ritiro, cessazione del conflitto), ma quando questi non si verificano, cresce la sfiducia verso le istituzioni e la pressione per adottare misure più drastiche. Si crea così una polarizzazione tra chi propone l’inasprimento e chi ne chiede l’abbandono, senza che sia mai affrontata una strategia integrata di dissuasione e negoziazione. Il concetto stesso di “soft power” associato alle sanzioni rischia di svuotarsi quando l’avversario non gioca secondo le stesse regole. I regimi autoritari non sono sensibili ai danni diffusi sull’economia civile o alla perdita di status internazionale. Come osserva Nona Mikhelidze sul “Foglio”, Putin percepisce la guerra come strumento per consolidare il potere interno e ha mostrato di poter sopportare anni di isolamento economico pur di mantenere la pressione sull’Ucraina e sull’Occidente. In questo quadro, le sanzioni diventano una strategia autoreferenziale, utile più alla legittimazione politica dei governi occidentali che alla realizzazione di obiettivi concreti sul terreno. Le sanzioni economiche, se non inserite in un quadro strategico coerente e multilivello, rischiano di trasformarsi in un placebo geopolitico. Illudono le democrazie di esercitare controllo, mentre in realtà prolungano i conflitti, frammentano le alleanze e delegano le vere decisioni strategiche a un futuro indefinito. Più che un’alternativa all’intervento militare, diventano una scorciatoia senza uscita.
Nina Celli, 2 luglio 2025