Uno degli obiettivi dichiarati dell’intervento militare statunitense è stato quello di impedire che l’Iran si dotasse di armi nucleari. L’Iran, secondo le valutazioni dell’AIEA, aveva già arricchito uranio a livelli vicini al 60%, soglia tecnica che consente la costruzione di una testata atomica. I tre principali siti coinvolti nel programma – Fordow, Natanz e Isfahan – sono stati scelti come obiettivi primari dall’amministrazione Trump per l’intervento militare del giugno 2025. Testate come “AP News” e “CNN” hanno confermato che l’azione ha colpito con precisione le infrastrutture chiave, in particolare utilizzando bombe GBU-57 “bunker buster”, capaci di penetrare strutture fortificate sotterranee. L’attacco ha inflitto danni sostanziali agli impianti sotterranei, sebbene non li abbia annientati. L’AIEA ha confermato la distruzione parziale degli impianti, ma anche la rimozione preventiva del materiale fissile da parte iraniana, segno di una certa capacità di preavviso. Tuttavia, come ha sottolineato il Center for Strategic and International Studies (CSIS), pur non avendo distrutto l’intera capacità nucleare dell’Iran, l’attacco ha avuto l’effetto di ritardare il programma atomico di diversi mesi. Questo ha concesso tempo prezioso alla diplomazia internazionale per reagire. In particolare, il bombardamento avrebbe alzato i costi per Teheran, costringendola a riorganizzare le strutture in luoghi più segreti o sicuri, rallentando così le tempistiche operative. Dal punto di vista strategico, inoltre, si è trattato di un’azione preventiva, sostenuta dall’intelligence israeliana e americana, secondo la quale l’Iran stava pianificando una fase finale di arricchimento in grado di portare rapidamente alla costruzione di un ordigno. L'assenza di un’azione tempestiva, sostenevano gli analisti favorevoli all'intervento, avrebbe potuto tradursi in una situazione irreversibile: un Iran dotato di armi nucleari avrebbe reso qualsiasi soluzione diplomatica inutile e avrebbe messo a rischio la sicurezza regionale. Anche il contesto politico ha avuto il suo peso: nel quadro del secondo mandato di Trump, l’intervento è stato utilizzato per dimostrare coerenza con la politica di “massima pressione” e dissuasione attiva contro i regimi ostili. La misura, seppur drastica, è stata letta da parte dell’opinione pubblica conservatrice come un segnale della volontà americana di fermare la proliferazione nucleare in Medio Oriente. La logica è quella di colpire prima che sia troppo tardi, usando la forza come deterrente e aprendo la porta a futuri negoziati su basi più forti.
Nina Celli, 27 giugno 2025