In un mondo in cui la vulnerabilità viene considerata un difetto da correggere anziché una condizione ontologica, il transumanesimo rischia di trasformare l’essere umano in un progetto ingegneristico, svuotandolo di senso, complessità e mistero. Più che una via per l’emancipazione, il potenziamento umano potrebbe rivelarsi una forma di autoalienazione radicale, che erode le fondamenta stesse della nostra dignità. Nel saggio filosofico Vulnerability as Meaning (2025), Peter Anakobe Adinoyi sostiene che la fragilità non è un limite da superare, ma una condizione esistenziale che rende possibili l’etica, la compassione e la creatività. Cancellare la vulnerabilità attraverso la tecnologia significa disintegrare il presupposto stesso del legame umano. “Un essere invulnerabile non è più eticamente disponibile”, scrive l’autore, richiamandosi a Merleau-Ponty, Heidegger e alla filosofia Ubuntu africana. Anche in ambito religioso, le riserve sul transumanesimo sono profonde. Nell’articolo pubblicato da “Kompas.id” (2024), si sottolinea come molte tradizioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, islam) vedano nella limitazione umana un fondamento teologico, non un errore evolutivo. Modificare radicalmente la propria biologia rischia di rompere quel “punto d’equilibrio tra creatura e creatore”, cancellando la possibilità stessa di trascendenza spirituale. L’essere umano, nella visione biblica o coranica, non è fatto per l’onnipotenza. Il problema non è solo teologico, ma anche sociale e psicologico. Secondo l’articolo di “Meegle.com” (Augmented Human Rights Advocacy, 2025), l’adozione di tecnologie potenzianti può provocare forme di alienazione identitaria, soprattutto in contesti non adeguatamente regolati. Gli individui modificati rischiano di essere percepiti — o percepirsi — come “altri da sé”, non più appartenenti alla comunità umana così come la conosciamo. Questo genera isolamento, sfiducia e una crescente incapacità di empatia. Il transumanesimo, inoltre, introduce un’etica della performance permanente, dove anche il corpo diventa campo di investimento, aggiornamento e competizione. Come avverte l’articolo The Science Behind Transhumanism (“NumberAnalytics”, 2025), il rischio è quello di creare una “cultura dell’obsolescenza umana”, in cui ogni limite fisiologico diventa una colpa, ogni malattia una falla di sistema, ogni imperfezione un fallimento morale. Una questione fondamentale è: che ne sarà dell’infanzia, della malattia, della vecchiaia? In una società transumanista, queste fasi potrebbero essere viste come anomalie da prevenire, non più come esperienze da vivere. Ma è proprio nell’infanzia che apprendiamo la vulnerabilità, nella malattia che conosciamo la cura, nella vecchiaia che impariamo il distacco. Senza queste esperienze, il senso della vita rischia di diventare un algoritmo ottimizzante privo di compassione. Il potenziamento, quindi, non ci rende più umani, ma più distanti dall’umano. Se l’uomo diventa solo ciò che può potenziare, allora la dignità diventa una funzione della prestazione, non un diritto inalienabile.
Nina Celli, 22 giugno 2025