Le principali piattaforme online – Meta, X, Google, TikTok – non sono semplici spazi di discussione, ma veri e propri attori globali di governance. Gestiscono miliardi di utenti, plasmano l’agenda pubblica, filtrano le informazioni e decidono chi può parlare e con quali regole. In questo scenario, l’idea di garantire una libertà assoluta di espressione online non solo è utopistica, ma anche pericolosa: rafforza il potere incontrollato di attori privati a discapito della trasparenza, della responsabilità e dell’equilibrio democratico. Un esempio emblematico viene dall’analisi del Digital Services Act (DSA) dell’Unione Europea, approfondita da John Rosenthal su “Claremont Review of Books”. Secondo l’autore, il DSA rappresenterebbe una “vittoria della censura”. Tuttavia, dal punto di vista normativo, il DSA è uno sforzo per bilanciare la libertà di parola con la trasparenza algoritmica, la responsabilità della moderazione e la protezione degli utenti da contenuti nocivi. Senza regole come quelle proposte dall’UE, le piattaforme restano giudici e arbitri di se stesse, agendo in base a interessi economici, logiche di engagement e pressioni politiche variabili. Questa dinamica è visibile anche nella recente causa intentata dalla piattaforma X (ex Twitter) contro lo Stato di New York, riportata da “The Guardian” (giugno 2025). La legge “Stop Hiding Hate” richiede alle aziende di dichiarare pubblicamente come gestiscono l’hate speech e la disinformazione, imponendo multe per la mancata trasparenza. Musk sostiene che tale obbligo viola il Primo Emendamento. Tuttavia, la legge non impone censura, ma accountability: sapere quali sono i criteri con cui una piattaforma rimuove o promuove certi contenuti è il minimo richiesto in una democrazia digitale. Il paradosso della libertà assoluta è che, in assenza di regolamentazione pubblica, non si crea un’utopia di discorso libero, ma una realtà in cui le voci più potenti e organizzate monopolizzano la visibilità. Il rapporto del Cato Institute mostra che il Meta Oversight Board ha limitato contenuti “right-coded” in modo sproporzionato. Ma ciò non implica che serva libertà assoluta: implica che la moderazione deve essere soggetta a regole pubbliche e verificabili, non lasciata alla discrezionalità opaca delle Big Tech. Anche l’EFF, pur difendendo la libertà digitale, ha criticato le nuove policy di Meta (gennaio 2025) che rimuovono protezioni per gruppi vulnerabili. In nome della libertà, si è finito per permettere l’uso di insulti o esclusioni di genere, colpendo chi è più esposto. L’assenza di standard legali lascia ogni decisione nelle mani di team interni o algoritmi, senza controllo democratico. È il contrario della libertà: è oligarchia digitale. Nel Regno Unito, l’Office for Students ha introdotto linee guida che distinguono chiaramente tra opinioni legittime e incitamento all’odio, sottolineando che solo i discorsi illegali possono essere vietati. Questa posizione, moderata ma efficace, dimostra che non serve imporre il silenzio, ma tracciare confini ragionevoli e pubblici. La ricerca condotta dal Parlamento Europeo evidenzia che l’autoregolamentazione ha fallito: i codici di condotta firmati dalle piattaforme spesso restano inapplicati e la rimozione di contenuti dannosi avviene solo sotto minaccia di multe o di esclusione dal mercato. La regolamentazione non serve a censurare, ma a garantire parità di accesso, equità e responsabilità. La libertà assoluta online, dunque, è un mito che nasconde la realtà: senza norme pubbliche, chi controlla le piattaforme controlla anche la parola. Difendere la democrazia digitale oggi significa chiedere più regole, più trasparenza e più controllo democratico.
Nina Celli, 19 giugno 2025