La quasi totalità della comunicazione avviene su piattaforme private – social media, forum, sistemi di messaggistica – gestite da multinazionali con poteri editoriali e tecnologici enormi. In questo contesto, una libertà di espressione “moderata” non è più regolata solo da leggi statali o da principi costituzionali, ma da policy aziendali opache, algoritmi automatizzati e team di revisione senza trasparenza pubblica. Per questo, uno degli argomenti più forti a favore della libertà assoluta online è proprio la necessità di resistere all’arbitrarietà dei filtri imposti da entità private, il cui potere supera ormai quello di molti Stati. Un caso emblematico è quello studiato dal Cato Institute, che ha analizzato le decisioni del Meta Oversight Board. Dei 100 casi valutati nel report del giugno 2025, ben il 40% ha portato alla restrizione della libertà di parola, spesso su contenuti etichettati come “right-coded speech” (cioè, politicamente conservatori o di destra). In particolare, i contenuti legati a temi controversi (immigrazione, identità sessuale, Islam) sono stati rimossi in misura sproporzionata, spesso senza spiegazioni coerenti. Questo evidenzia un problema fondamentale: quando la moderazione è affidata ad algoritmi o policy flessibili, i criteri di rimozione sono soggetti a bias culturali, pressioni politiche, interessi economici e reazioni del pubblico. Secondo il Future of Free Speech Project, un’indagine federale della FTC sulle pratiche di moderazione delle piattaforme rischia di rafforzare la percezione che l’intervento pubblico o statale sia l’unica alternativa alla censura privata. Tuttavia, anche questo intervento rischia di produrre effetti distorsivi se non si fonda su un principio forte e chiaro: la parola dev’essere libera, sempre e comunque. Le modifiche recenti alle policy di contenuto di Meta, denunciate da EFF (gennaio 2025), mostrano come il passaggio da una “tolleranza zero” a una politica più permissiva nei confronti di contenuti controversi non sia stato accompagnato da coerenza o trasparenza. Mentre venivano allentate le restrizioni su discorsi controversi su genere e orientamento sessuale, altri contenuti – come attivismo LGBTQ+ e dissenso politico – continuavano a essere moderati o eliminati. L’impressione è che la “libertà” concessa sia selettiva e guidata da logiche interne di marketing, relazioni pubbliche o politiche di conformità. Persino documenti istituzionali, come il briefing del Parlamento Europeo su hate speech (giugno 2025), ammettono che le piattaforme operano in una “zona grigia” tra obblighi normativi e libertà editoriali, con strumenti come il Digital Services Act che delegano gran parte della moderazione a meccanismi privatizzati. In mancanza di garanzie chiare per l’utente, il rischio è che la moderazione diventi una forma di censura di fatto. La riflessione di John Rosenthal su “Claremont Review of Books” (gennaio 2025) è brutale ma efficace: “La libertà d’espressione su internet è morta nel momento in cui le piattaforme hanno accettato di sottomettersi a normative sovranazionali per non perdere l’accesso ai mercati”. Secondo Rosenthal, le grandi aziende non hanno obblighi costituzionali come gli Stati, e ciò le rende ancora più pericolose: possono chiudere account, rimuovere contenuti o alterare la visibilità di un messaggio senza doverne rispondere a nessuna autorità democratica. Quindi, la libertà assoluta online è anche una difesa contro l’oligopolio editoriale delle piattaforme. In un mondo in cui la voce di miliardi di utenti dipende da decisioni automatizzate o policy flessibili, la richiesta di un diritto illimitato alla parola non è una provocazione ideologica, ma una necessità civile per evitare che pochi attori privati decidano cosa può o non può essere detto.
Nina Celli, 19 giugno 2025