Se c’è un elemento che caratterizza l’infosfera del XXI secolo è la pervasività della disinformazione digitale. In un ambiente non regolato, dove chiunque può pubblicare qualsiasi cosa senza verifica, limiti o conseguenze, la quantità di contenuti falsi, fuorvianti o manipolatori cresce esponenzialmente, influenzando opinioni, decisioni politiche, voti e perfino il comportamento quotidiano dei cittadini. In questo scenario, la libertà assoluta di espressione online non si configura come un baluardo democratico, bensì come un moltiplicatore di caos cognitivo e sfiducia istituzionale. Il “Brookings Institution”, nel suo approfondimento su proteste e salute della democrazia (giugno 2025), sottolinea che una democrazia può esistere solo se i cittadini possono ragionare su fatti condivisi. Senza una base comune di realtà, il dibattito politico diventa uno scontro tra narrazioni autoreferenziali, incapaci di interagire tra loro. Vanessa Williamson afferma chiaramente: “La disinformazione mina la possibilità stessa di scegliere consapevolmente al momento del voto, rendendo la democrazia un esercizio vuoto”. Questo fenomeno è ben visibile nel caso delle affermazioni di Donald Trump sulla presunta “pulizia etnica dei bianchi” in Sudafrica. Come documentato dalla “BBC” (giugno 2025), tali dichiarazioni si sono propagate online senza alcun fondamento statistico. I dati del governo sudafricano mostrano che la maggior parte delle vittime rurali sono nere e nessuna forza politica o giuridica sudafricana ha mai parlato di “genocidio”. Tuttavia, la reiterazione continua di questo mito in forum, social, blog e ambienti criptati ha prodotto effetti reali: il riconoscimento di status di rifugiato a oltre 60 Afrikaner, tensioni diplomatiche tra USA e Sudafrica, e l’intensificazione del sentimento suprematista tra alcune fasce della popolazione americana. La disinformazione online è potente perché sfrutta le emozioni. Algoritmi progettati per massimizzare l’engagement (piattaforme come X, Facebook, TikTok) tendono a promuovere contenuti polarizzanti, sensazionalisti, violenti o cospirazionisti. L’inchiesta del Cato Institute su Meta ha rilevato che la mancanza di una moderazione chiara ha portato a una distorsione selettiva del discorso pubblico: post moderati su vaccini, elezioni, minoranze venivano penalizzati o rimossi, mentre campagne orchestrate disinformative circolavano indisturbate sotto il radar degli algoritmi. Anche i meccanismi giuridici hanno mostrato difficoltà nell’intervenire. L’EFF ha denunciato più volte la difficoltà di distinguere tra censura politica e controllo della disinformazione, ma questo non significa che la soluzione sia il laissez-faire. Al contrario, una cornice legale chiara, trasparente e rispettosa dei diritti fondamentali è l’unico modo per garantire che le piattaforme non diventino megafoni di menzogne. Il rischio non è solo quello di voti alterati, ma anche di panico sociale, discriminazioni, boicottaggi, intimidazioni e violenza. Un esempio concreto di disinformazione massiva è l’uso dei social media da parte di alcuni movimenti populisti per diffondere fake news su migranti, crimini, vaccini o élite finanziarie. Il Parlamento Europeo evidenzia come questi contenuti, se non moderati, generano una spirale di sfiducia istituzionale e alimentano la radicalizzazione politica. L’assenza di limiti favorisce l’emergere di “ecosistemi informativi chiusi”, dove ogni fatto viene reinterpretato per confermare i pregiudizi del gruppo. La libertà di parola, quindi, non può essere un alibi per tollerare la disinformazione sistemica. Come ogni diritto, anche quello all’espressione deve essere esercitato con responsabilità. Senza meccanismi di verifica, trasparenza e contrasto, l’ambiente online si trasforma in un campo di battaglia cognitivo, dove la verità perde terreno e la democrazia rischia di diventare ostaggio di chi grida più forte e mente meglio.
Nina Celli, 19 giugno 2025