Nel dibattito sulla libertà di espressione online, un argomento cruciale in favore della sua assolutezza è che essa costituisce un pilastro essenziale delle democrazie liberali contemporanee. La possibilità di esprimere opinioni, critiche e idee senza censura preventiva non è soltanto un diritto individuale: è la condizione di base perché l’opinione pubblica possa formarsi liberamente, il dissenso possa emergere e i poteri possano essere bilanciati. Questa visione è radicata nella tradizione costituzionale degli Stati Uniti, dove il Primo Emendamento della Costituzione garantisce una protezione quasi assoluta al discorso, con pochissime eccezioni (come l’incitamento alla violenza imminente o la diffamazione). La Corte Suprema americana ha più volte ribadito che il “freedom of speech” è particolarmente prezioso quando protegge opinioni impopolari o offensive, proprio perché mette alla prova la tolleranza e la resilienza delle istituzioni democratiche. Sarah Lee, in un articolo per “Number Analytics”, richiama le posizioni storiche di pensatori come John Stuart Mill e Noam Chomsky, per i quali ogni forma di limitazione alla parola rappresenta una minaccia latente alla libertà intellettuale. Per Mill, anche l’opinione più assurda va tollerata, perché solo dal confronto aperto può emergere la verità. Per Chomsky, “se non credi nella libertà di parola per chi disprezzi, allora non credi affatto nella libertà di parola”. Il legame tra libertà di espressione e democrazia è evidenziato anche da “Brookings Institution”, che in un recente episodio del podcast Democracy in Question sostiene che “il diritto di protestare e di esprimere dissenso pubblicamente è indicatore dello stato di salute di una democrazia”. Vanessa Williamson, esperta di movimenti civici, sottolinea che il potere delle proteste e delle opinioni radicali online sta nella loro capacità di rompere il silenzio e mettere in discussione il potere. Senza uno spazio digitale libero, il dibattito politico risulta impoverito e asfittico. Persino in contesti accademici, dove il discorso è tradizionalmente protetto, emerge la preoccupazione per un’erosione del pluralismo. Secondo un sondaggio riportato dall’Office for Students nel Regno Unito, un docente su cinque non si sente libero di esprimere opinioni controverse. Questa autocensura, aggravata dalla paura di reazioni online o disciplinari, rappresenta un segnale d’allarme sulla fragilità della libertà culturale anche negli ambienti più tutelati. L’esperienza delle piattaforme social come X (ex Twitter), Meta o YouTube mostra che ogni intervento di regolamentazione – anche motivato da intenti legittimi – può facilmente sfociare in arbitrarietà o censura mascherata. Il Cato Institute, analizzando le decisioni del Meta Oversight Board, ha osservato che il 40% dei casi valutati ha portato alla restrizione di contenuti, spesso legati a opinioni “right-coded” (cioè di destra). Ciò solleva interrogativi sulla neutralità delle policy e sulla capacità delle piattaforme di garantire un vero pluralismo. La libertà assoluta di espressione online, dunque, non è un’utopia anarchica, ma un presupposto imprescindibile per la vitalità democratica. Limitare il diritto di parola, anche con le migliori intenzioni, apre la strada alla delegittimazione del dissenso, alla concentrazione del potere comunicativo e alla manipolazione algoritmica della conversazione pubblica. Come ammoniva Chomsky: “la difesa della libertà di parola deve iniziare proprio da ciò che riteniamo più sgradevole”.
Nina Celli, 19 giugno 2025