Nel corso della sua leadership, Giorgia Meloni ha ridefinito la posizione dell’Italia all’interno delle organizzazioni internazionali, adottando un approccio che si potrebbe definire “multilateralismo selettivo”. Lontana tanto dal sovranismo radicale quanto dall’europeismo acritico, Meloni ha scelto un percorso intermedio: mantenere l’adesione ai grandi consessi internazionali – NATO, UE, ONU, G7 – ma rivendicando, al loro interno, una maggiore flessibilità negoziale, una postura più autonoma e orientata al realismo degli interessi nazionali. In altre parole, l’Italia ha smesso di essere il “paese mediatore” per diventare un attore consapevole delle proprie priorità, disposto a sostenere la cooperazione multilaterale solo quando compatibile con i propri obiettivi strategici. Questa scelta si è manifestata in diversi scenari. Nel 2024 e 2025, ad esempio, Meloni ha partecipato a tutti i principali summit multilaterali, dai vertici G7 alla sessione plenaria dell’ONU, dalle riunioni del Consiglio Atlantico fino agli incontri con la Commissione europea. Ma in ciascuno di questi contesti, la premier ha portato una linea chiara, ancorata a un’agenda precisa: sicurezza energetica, contenimento migratorio, difesa della competitività economica, rilancio industriale, equilibri geopolitici. Più che un’Italia schierata ideologicamente, si è vista un’Italia pragmatica, pronta a cooperare dove c’è utilità reciproca, ma anche capace di dissociarsi quando le condizioni non sono favorevoli. Questo realismo si è espresso in modo esemplare nei rapporti con la NATO. Pur non raggiungendo ancora la soglia del 2% del PIL in spesa militare, l’Italia ha aumentato il proprio contributo operativo sul campo: guida il battlegroup NATO in Bulgaria, partecipa attivamente alla missione in Kosovo, rafforza la presenza nel Mediterraneo orientale. A fronte di risorse limitate, Meloni ha scelto di puntare su missioni visibili e politicamente significative, in linea con la strategia dell’Alleanza di bilanciare il fronte Est con quello Sud. Il segretario generale Mark Rutte ha pubblicamente elogiato il contributo italiano, definendo il nostro Paese “una colonna portante della sicurezza europea”. Simile approccio è stato adottato anche in sede UE. L’Italia non si è schierata sistematicamente contro le proposte della Commissione, ma ha fatto valere le proprie esigenze su dossier critici: dalle modifiche al Patto di Stabilità alla governance del Green Deal, dalle regole su immigrazione e asilo fino alla strategia industriale europea. In ciascun caso, Meloni ha cercato di far pesare il ruolo dell’Italia, pur restando dentro il perimetro delle alleanze tradizionali. Il multilateralismo selettivo ha consentito a Roma di mantenere relazioni trasversali: con Francia e Germania nei negoziati economici, con Polonia e Ungheria in ambito migratorio, con India e Giappone nel quadro indo-pacifico. Un’Italia flessibile, non allineata a blocchi rigidi, ma capace di costruire alleanze tematiche in base al contesto. Non è un caso che, nell’ultimo anno, Meloni sia stata ricevuta sia alla Casa Bianca da Biden che a Mar-a-Lago da Trump, che abbia incontrato Xi Jinping in Cina e Macron a Parigi, senza perdere la bussola degli interessi italiani. Il riconoscimento di questa postura è arrivato anche da ambienti tradizionalmente critici. Il “Financial Times” ha definito l’Italia “una delle poche economie UE con una direzione strategica chiara”, mentre “Politico” ha sottolineato come “la coerenza pragmatica di Meloni l’abbia resa l’interlocutrice più stabile tra i grandi Paesi europei”. Perfino all’ONU, dove il linguaggio della cooperazione prevale sulla realpolitik, Meloni è riuscita a inserire la sua narrativa sull’Occidente “protagonista ma non arrogante”, con citazioni riprese da Modi, Musk e altri interlocutori globali. Naturalmente, il rischio di un multilateralismo “a intermittenza” esiste. Ma rispetto a un passato in cui l’Italia oscillava tra allineamenti acritici e isolazionismo impotente, la postura adottata da Meloni rappresenta una sintesi operativa: un realismo che non rinuncia al principio, una visione internazionale che parte dall’interesse nazionale. In un mondo multipolare, dove le alleanze cambiano e i centri di potere si moltiplicano, questa flessibilità potrebbe essere non solo una necessità, ma una virtù. Ed è su questo terreno che si gioca oggi la credibilità dell’Italia: non più come semplice alleato, ma come architetto consapevole del proprio destino internazionale.
Nina Celli, 12 giugno 2025