La mattina del 16 febbraio 2024, in un cantiere alla periferia di Firenze, cinque operai morirono schiacciati dal crollo di una trave in cemento armato. L’azienda appaltatrice, una piccola ditta subappaltata da una società di costruzioni più grande, non aveva aggiornato i protocolli di sicurezza, e non risultava in regola con tutte le verifiche obbligatorie. L’episodio, riportato da “Il Fatto Quotidiano” e rilanciato su larga scala dai media nazionali, riaccese una ferita profonda: quella degli infortuni sul lavoro negli appalti, una zona grigia dove troppo spesso le responsabilità si perdono lungo la catena dei subappalti. È in questo contesto che si colloca il quarto quesito referendario del giugno 2025, promosso dalla CGIL e sostenuto da numerose reti civiche, che mira a ripristinare la responsabilità solidale piena del committente. In pratica, se l’azienda appaltatrice non rispetta le norme su sicurezza, contratti e contributi, anche l’azienda committente – cioè chi ha affidato il lavoro – dovrebbe essere legalmente responsabile. Oggi non è più così. Dal 2021, con un emendamento voluto dal governo Draghi e poi confermato, la responsabilità del committente è stata limitata ai soli casi di dolo o colpa grave. In altre parole, se il committente non era “pienamente consapevole” del rischio o della violazione, non risponde più. Questo, secondo i promotori del referendum, ha indebolito la rete di protezione dei lavoratori e incentivato la logica del “non vedo, non sento, non so” nelle filiere produttive. Nel dossier tecnico diffuso dalla Fondazione Di Vittorio, si evidenzia come nel 2023 oltre 470.000 infortuni sul lavoro siano stati denunciati all’INAIL, di cui 1.090 mortali. Di questi, una percentuale crescente avviene in imprese subappaltatrici, spesso di piccole dimensioni, con margini bassi e alta rotazione di personale. La mancanza di controlli effettivi e di responsabilità della “testa” della filiera ha reso questi ambienti più esposti e più pericolosi. Restituire la responsabilità solidale, secondo la CGIL e giuristi come Luigi Ferrajoli, significa rompere l’asimmetria di potere e di impunità che oggi caratterizza il mondo degli appalti. Il principio è chiaro: chi trae profitto da un’opera – pubblica o privata – ha il dovere di garantirne le condizioni di sicurezza, anche se materialmente eseguita da terzi. Nell’inchiesta di “Wired” sul referendum 2025, una lavoratrice della logistica racconta: “Mi hanno spostata da una cooperativa all’altra. Lavoravo nello stesso capannone, con lo stesso badge, ma ogni tre mesi cambiava il contratto. Quando ho avuto l’infortunio, nessuno sapeva più di chi ero dipendente. La committente ha detto che non c’entrava”. È questa la zona grigia giuridica che il referendum mira a illuminare. I promotori sottolineano che la responsabilità solidale non è una novità ideologica: era già in vigore prima del 2021, ed è presente in molte legislazioni europee. Serve a creare una catena della sicurezza e della legalità, dove ogni anello – dal committente al subappaltatore – è tenuto a vigilare, formare, controllare. Come ha detto Maurizio Landini: “La vita non si appalta. Il profitto non può essere separato dalla responsabilità”. Dal punto di vista economico, i fautori del referendum respingono l’argomento secondo cui questa norma sarebbe un freno agli appalti. Al contrario, spiegano che una filiera trasparente e controllata aumenta la competitività, scoraggiando il dumping contrattuale e la corsa al ribasso sui costi del lavoro. Le imprese virtuose – quelle che rispettano norme, sicurezza e contrattazione – sono oggi penalizzate da chi vince le gare offrendo servizi a prezzi che non consentono legalità. Il ripristino della responsabilità solidale ha valore culturale e politico: riafferma l’idea che l’impresa non è solo profitto, ma comunità di destino. Che la sicurezza non è un optional, ma un diritto umano. E che ogni lavoratore, anche se assunto da una cooperativa sconosciuta, ha diritto alla stessa tutela.
Nina Celli, 7 maggio 2025