C’era un tempo in cui, per assumere un lavoratore a tempo determinato, il datore di lavoro doveva spiegare il perché. Serviva una motivazione concreta: una sostituzione temporanea, un picco produttivo, una ragione stagionale. Quella causale, che poteva sembrare una semplice formalità burocratica, rappresentava invece un principio fondamentale del diritto del lavoro: la temporaneità doveva essere giustificata, non la regola. Questo è cambiato con la riforma del 2018 e poi con la liberalizzazione successiva. Oggi un’azienda può assumere un lavoratore con contratto a termine senza dover specificare alcuna ragione, a patto che la durata non superi i 12 mesi (rinnovabili). Il risultato, secondo i promotori del terzo quesito referendario del 2025, è stato un’esplosione della precarietà legale: contratti brevi, ripetuti, rinnovabili, con scarse tutele e un turnover che rende sempre più difficile immaginare un futuro stabile. Nel documento ufficiale della CGIL, si evidenzia che il 30% della forza lavoro under 35 è oggi impiegata con contratti a termine o part-time involontari. La Fondazione Di Vittorio sottolinea che tra il 2015 e il 2023 il numero di contratti a termine inferiori a 12 mesi è cresciuto del 42%, con punte nel settore del turismo, del commercio e dei servizi alla persona. Si tratta di contratti che spesso si susseguono senza soluzione di continuità, con interruzioni minime, e che impediscono ai lavoratori di accedere a mutui, pianificare una famiglia, ottenere prestiti o garanzie. L’abrogazione dell’esenzione causale mira proprio a questo: rimettere un freno alla precarietà seriale, facendo sì che le imprese debbano giustificare per iscritto – in modo tracciabile – il ricorso al tempo determinato. Non un divieto, ma una responsabilizzazione. Il principio è semplice: se c’è una buona ragione, nessuno vieta il contratto breve; se non c’è, è preferibile assumere con contratti più stabili. L’articolo di “Wired” sul referendum 2025 riporta il caso emblematico di Simone, 29 anni, che ha cambiato otto contratti in sei mesi nella stessa azienda: “Mi mandavano via per due settimane e poi mi richiamavano. Sempre con contratti di 3 mesi, senza spiegazioni. Quando ho chiesto di essere stabilizzato, mi hanno detto che non era previsto budget”. Un esempio, purtroppo, molto comune. Dal punto di vista macroeconomico, anche la Banca d’Italia ha sottolineato più volte che la frammentazione dei rapporti di lavoro penalizza la produttività e la formazione. Un lavoratore che cambia azienda ogni 6 mesi difficilmente può investire in competenze, sentirsi parte di un progetto o crescere professionalmente. Secondo il report della Fondazione Di Vittorio, la frammentazione contrattuale incide sul tasso di produttività nazionale per oltre 0,5 punti percentuali all’anno. Non si tratta solo di numeri. La mancanza di causale crea un’asimmetria di potere: il lavoratore sa che può essere “scaricato” senza motivo alla scadenza del contratto, e questo lo rende più ricattabile, meno propenso a chiedere ferie, malattia, permessi o persino a iscriversi a un sindacato. Come ha scritto Ferrajoli su “Il Manifesto”: “La precarietà contrattuale non è solo instabilità materiale, è insicurezza giuridica, psicologica e civile”. I promotori del referendum sottolineano che la causale è uno strumento per riequilibrare le relazioni industriali, non per imbrigliare l’impresa. In Francia, Germania, Belgio e Spagna, il contratto a termine senza causale è ammesso solo per durate molto brevi o con forti limitazioni. In Italia, invece, è diventato il default. Restituire la causale ai contratti sotto i 12 mesi significa dire che la regola è il tempo indeterminato, e che il contratto a termine è un’eccezione giustificata. Non si tratta di ostacolare la flessibilità, ma di difendere la stabilità e l’equità. E come ha affermato Maurizio Landini, “Non c’è libertà nel lavoro se ogni mese devi sperare in una firma”.
Nina Celli, 7 maggio 2025