Quando, nel 2015, entrò in vigore il contratto a tutele crescenti, introdotto con il Jobs Act, il governo dell’epoca lo presentò come un passo storico verso la “modernizzazione” del mercato del lavoro italiano. La nuova normativa prevedeva che i lavoratori assunti da quel momento in poi non potessero più essere reintegrati nel proprio posto di lavoro in caso di licenziamento ingiusto, salvo rarissime eccezioni (discriminazioni, nullità del licenziamento). Al posto della reintegra, il dipendente aveva diritto a un indennizzo monetario compreso tra le 2 e le 6 mensilità, eventualmente aumentabili fino a 12. Sembrava una soluzione “più rapida” e “più efficiente”. Ma col passare degli anni, la narrazione si è incrinata. Secondo la CGIL e la Fondazione Di Vittorio, che nel 2025 hanno pubblicato un rapporto dettagliato sull’impatto del Jobs Act a dieci anni dalla sua introduzione, il contratto a tutele crescenti ha prodotto un effetto che può essere riassunto in due parole: disuguaglianza strutturale. A essere colpiti sono in particolare i 3,5 milioni di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Per loro, la perdita del posto di lavoro è diventata un evento spesso irreversibile, accompagnato da un risarcimento del tutto insufficiente a compensare il danno subito. Non si tratta solo di una questione economica, ma di una ferita al principio costituzionale di uguaglianza e dignità nel lavoro. I dati parlano chiaro. Nel periodo 2015–2024, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo sono cresciuti del 18%, ma il numero di reintegri è crollato. Dove prima un giudice poteva ordinare il ritorno in azienda del lavoratore ingiustamente allontanato, ora la sanzione si limita a un’indennità, spesso percepita dalle imprese come un “costo calcolabile”. Un fenomeno che ha avuto effetti particolarmente negativi su donne, lavoratori più anziani e soggetti con fragilità sanitarie, spesso scelti come “esuberi” proprio per la loro minore “flessibilità”. Come ricorda il documento ufficiale della CGIL (Le conseguenze favorevoli dell’abrogazione del Jobs Act), il ritorno dell’articolo 18 garantirebbe il reintegro in numerosi casi oggi esclusi: ad esempio, nei licenziamenti collettivi illegittimi, nelle violazioni procedurali, nei casi di malattia, maternità o discriminazioni indirette. Inoltre, verrebbe ripristinato l’obbligo della conciliazione obbligatoria tra le parti, previsto dalla Legge 604/1966, ma cancellato dalla riforma renziana. A sostegno del referendum si schierano anche giuristi come Luigi Ferrajoli, secondo cui la reintegra non è una “anomalia italiana” da eliminare, ma un presidio costituzionale di giustizia sostanziale: il lavoratore non è un “oggetto”, sostituibile con denaro, ma un cittadino titolare di diritti inviolabili. Le parole dello stesso Ferrajoli, riportate su “Il Manifesto”, sono emblematiche: “Il licenziamento arbitrario è un abuso di potere. Abrogarne il contrasto equivale a privatizzare il diritto”. C’è anche un altro elemento di forte rilievo: il fattore dissuasivo. Prima del Jobs Act, la prospettiva di dover reintegrare il lavoratore fungeva da deterrente contro licenziamenti strumentali o basati su motivazioni fittizie. Oggi, come denunciato da lavoratori intervistati da “Il Fatto Quotidiano” e “La Repubblica”, molte aziende possono “liberarsi” di un dipendente scomodo (magari sindacalizzato, malato, o semplicemente non gradito) sapendo che la peggiore delle ipotesi sarà una manciata di mensilità. Ma non si tratta solo di tutela individuale. Il reintegro rafforza anche la funzione collettiva del diritto del lavoro, favorendo relazioni industriali fondate sul rispetto reciproco. La CGIL sottolinea come la disparità introdotta dal Jobs Act abbia anche aumentato il turnover e la precarietà, con effetti dannosi sulla produttività e sulla fiducia nei rapporti contrattuali. La possibilità di tornare al vecchio impianto, dicono i promotori del referendum, non è un ritorno al passato, ma un passo in avanti verso un sistema più giusto, coerente con la nostra Costituzione. Il ripristino dell’articolo 18, quindi, rappresenta per i favorevoli non solo una battaglia legale, ma una sfida etica: riportare equilibrio tra capitale e lavoro, rafforzare la democrazia nei luoghi produttivi, e riaffermare che la dignità di chi lavora non può avere prezzo.
Nina Celli, 7 maggio 2025